Maestro , ti ricordo


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Ognuno ha il suo maestro,

parlaci di lui

 

 

Erica Gardenti ci parla della sua avventura nella scherma

 

I MIEI QUATTRO MAESTRI  DI SCHERMA

 

Erica Gardenti, Firenze, Italia

Un ottobre di tanti anni fa volevo fare anch’io scherma, mi ero stufata di stare solo a guardare. Già da diversi anni era il mondo di mio fratello, un mondo che si stava riempiendo di medaglie, coppe e telegrammi del presidente della FIS. Era bravo, sempre più bravo mio fratello, tanto da essere poi – negli anni – arrivato in Nazionale.

“Si stringe l’impugnatura dell’arma come se fosse un uccellino… se stringi poco vola via, se stringi troppo lo soffochi”, queste furono le pittoresche parole del maestro Pietro Broccini che mi mise in mano il fioretto per la prima volta. Anche mentre faceva lezione fumava, a volte si calava la maschera senza togliere il mozzicone dalle labbra e il fumo ne usciva dalle griglie; durante la lezione – se si sbagliava – ci tirava una fiorettata nelle cosce. Molti allievi cercavano di scansarlo e usciti dallo spogliatoio andavano – quasi di corsa – dall’altro maestro: il dolcissimo Enrico Bornetto. Biondo, dai modi ottocenteschi e sempre con un sorriso sulle labbra.

Della mia prima gara ne ho un ricordo allucinante, mio fratello non fece altro che rimbrottarmi: “Dai para, paraaaa… forza!” e io allora sì che non paravo e mi limitavo – quando l’avversaria partiva all’attacco – a fare un affondo con la lentezza di un bradipo. Ovviamente fui eliminata al primo turno.

Pochi anni dopo, con la mia famiglia, mi traferii in un’altra città così il maestro cambiò: ora era Giuseppe Pisani di Castagneto, un nobile napoletano, raffinato e anche buon disegnatore. Quando si toglieva la maschera, vedevi solo i baffetti da sparviero, gli occhialetti tondi e il mento aguzzo, sembrava uscire da un libro di Alexandre Dumas.

Cominciai a partecipare ai Regionali, ai Campionati Nazionali di Categoria e al Gran Premio Giovanetti e poi Giovani; alle gare molto importanti, quelle internazionali, andavo così, tanto per pavoneggiarmi di esserci stata e per portare a casa la medaglia di partecipazione.

Quando ebbi vent’anni, avevamo cambiato di nuovo città, qui trovai il giovane maestro Lucio Nugnes. Il sangue e l’impeto napoletani ne facevano di lui un maestro particolare.

Quegli anni sono stati densi di allenamenti: cominciavamo in settembre al Monte Morello per fare il fiato e poi continuavano per tutto l’anno in sala, con lezioni, assalti, ginnastica, ma anche risate, tante risate.

Vestirsi per tirare era un’impresa da quanta roba c’era da mettersi; negli altri sport di norma ci si spoglia nella scherma invece ci si barda ben bene.

Io non ho fatto una gran ‘carriera schermistica’, sono arrivata solo a essere 3° categoria, ma sono felice di aver comunque vissuto la sana tensione di quando abbassavo la maschera, mentre l’arbitro diceva: “In guardia… a voi”; sono contenta di aver potuto rafforzare l’onestà, di aver messo a punto il desiderio di emulazione. Certo, a volte, ho sbattuto a terra maschera e fioretto anch’io, quando credevo che l’arbitro avesse sbagliato qualcosa, ma l’ho fatto quando l’assalto era finito ed ero giù dalla pedana.  

Adesso dopo tanto tempo che non entro in una sala di scherma, ricordo il ticchettio delle lame che si stuzzicano, riassaporo l’odore di sudore misto alla plastica e a quello del metallo che si sprigiona nel mettersi la maschera, mi sembra di stringere ancora nella mano l’impugnatura anatomica del fioretto. E poi la noia dei calzettoni che, dopo qualche affondo, calano un poco e il guanto che diventa sempre più morbido via via che s’infradicia di sudore.

Le mie azioni preferite, all’epoca rare fra le donne (io mi ero fatta una cultura a guardare mio fratello), erano l’inquartata e la passata sotto; mi davano soddisfazione – quando riuscivano – perché la sottrazione del corpo all’attacco dell’avversario dimostrava un tempo schermistico non indifferente. L’arresto poi, quando andava a segno, era l’apoteosi del piacere.

L’assalto iniziato col saluto all’avversario, poi all’arbitro e infine al pubblico, finiva con le stesse mosse e con la stretta di mano all’avversario… anche se avevi perso. Tanto più se avevi perso.

 

Il nostro amico Wolfgang Marzodko ci manda il racconto dei suoi numerosi maestri

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