La pedana del maestro Toran


pedana

 

 

 

 

 

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Testi

 

Introduzione alla tattica

 

INDICE

1  INDICE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .    1

2  INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .    2

3  STRATEGIA TATTICA E TECNICA  . . . . . . . . . . . . . . . . .    5

3.1  PREMESSA  . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .    5

3.2  PRIME DEFINIZIONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .    6

3.3  LA STRATEGIA COME PROGRAMMA . . . . . . . . . . . . . . .    8

3.4  STRATEGIA E PSICOLOGIA DELLO SPORT  . . . . . . . . . . .   10

3.5  LA TATTICA E L’INGANNO  . . . . . . . . . . . . . . . . .   12

3.6  LA TECNICA E GLI AUTOMATISMI  . . . . . . . . . . . . . .   15

4  FATTORI DELLA SCHERMA  . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   19

4.1  IL TEMPO  . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   19

4.1.1  TEMPO OGGETTIVO E SOGGETTIVO . . . . . . . . . . . .   19

4.1.2  IL TEMPO DI REAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . .   20

4.1.3  LA STIMA DEL TEMPO . . . . . . . . . . . . . . . . .   21

4.1.4  LA SCELTA DI TEMPO . . . . . . . . . . . . . . . . .   22

4.2  LA VELOCITA’ E IL RITMO . . . . . . . . . . . . . . . . .   26

4.3  LA MISURA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   28

4.3.1  INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   28

4.3.2  IL CONTROLLO E LE VARIAZIONI DI MISURA . . . . . . .   30

5  LE FASI DELL’ASSALTO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   33

5.1  A VOI!  . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   33

5.2  IL CONTROLLO E L’INIZIATIVA . . . . . . . . . . . . . . .   35

5.3  LA PROVOCAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   37

5.4  LO SCANDAGLIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   38

5.5  LA PREPARAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   40

5.6  IL TRACCHEGGIO  . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   41

5.7  L’ATTACCO, LA DIFESA E IL CONTRATTACCO  . . . . . . . . .   42

5.7.1  IL REGOLAMENTO . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   42

5.7.2  LE VERE REGOLE DEL GIOCO . . . . . . . . . . . . . .   43

5.7.3  L’ATTACCO  . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   45

5.7.4  LA DIFESA  . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   47

5.7.5  IL CONTRATTACCO  . . . . . . . . . . . . . . . . . .   48

5.7.6  LA SECONDA INTENZIONE E LE FINTE . . . . . . . . . .   49

6  LA DIDATTICA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   52

6.1  INTRODUZIONE  . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   52

6.2  MISURA E ADDESTRAMENTO  . . . . . . . . . . . . . . . . .   53

6.3  TEMPO, RITMO E ADDESTRAMENTO  . . . . . . . . . . . . . .   55

6.4  TIPI DI LEZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   57

6.4.1  LEZIONI STIMOLO-RISPOSTA . . . . . . . . . . . . . .   57

6.4.1.1  LA LEZIONE MECCANICA  . . . . . . . . . . . . .   57

6.4.1.2  LA LEZIONE COORDINATIVA . . . . . . . . . . . .   59

6.4.1.3  ESEMPIO DI LEZIONE AD UN PRINCIPIANTE . . . . .   61

6.4.1.4  LA LEZIONE CON ALTERNATIVE  . . . . . . . . . .   63

6.4.1.5  LA LEZIONE CON STUDIO DELLE CONTRARIE . . . . .   64

6.4.2  LEZIONI TATTICHE . . . . . . . . . . . . . . . . . .   65

6.4.2.1  LEZIONE CON SCANDAGLIO E PREPARAZIONE . . . . .   65

6.4.2.2  LEZIONE CON PROVOCAZIONE  . . . . . . . . . . .   66

7  APPENDICE  . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   68

7.1  ISTRUZIONI  . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   68

7.2  LISTATO DI UN PROGRAMMA IN GWBASIC  . . . . . . . . . . .   69

8  BIBLIOGRAFIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   74

 

INTRODUZIONE

 

Nel panorama della letteratura schermistica italiana non esiste, che io sappia, opera centrata sulla tattica. I manuali o trattati esistenti, pur dichiarando che il tempo, la misura e la velocità sono l’essenza della scherma, che il controtempo e la seconda intenzione danno la misura del valore dello schermitore, dedicano tutto lo spazio disponibile a nozioni tecniche, spesso superate dai tempi, per l’evoluzione notevole dei regolamenti, dei materiali e dello stesso spirito del gioco.

Su questo stato di cose posso formulare due ipotesi, che non si escludono.

La prima è che le varie scuole di scherma, necessariamente in concorrenza tra loro, non diffondano facilmente nozioni ritenute vantaggiose per chi le possiede. E’ probabile che un simile patrimonio sia andato più volte perduto con la scomparsa o la cessata attività di chi lo possedeva.

La seconda ipotesi è che, per il suo iter formativo negli ultimi decenni, il Maestro di scherma italiano non abbia avuto modo di formarsi una base teorica relativa alla tattica.

 

Il Maestro di scherma italiano è generalmente un empirico, un acuto e talora geniale osservatore, quasi mai un teorico. La teoria è anzi vista con sospetto, forse perché le rarissime ricerche condotte con metodo scientifico non hanno prodotto risultati pratici di rilievo.

Credo fermamente che la teoria possa essere di grande aiuto, a condizione di fissarne i limiti e chiarirne gli obiettivi.

La teoria è uno strumento, che deve permetterci di descrivere nel modo più chiaro e semplice la realtà: collegando in modo logico i fatti noti, e permettendoci di prevedere quelli ignoti. Quando un fatto nuovo non concorda con la teoria, questa va cambiata per accoglierlo, collegandolo organicamente ai precedenti.

La teoria è come un contenitore, con un posto e un nome per ogni cosa: permette di avere una lingua comune, e quindi comprendere meglio e far circolare le informazioni.

La teoria non pretende di sostituirsi alla pratica, che ne è la costante ispiratrice: ci dà modo di ordinare nel modo migliore, perché nulla vada perduto, tutto quanto di nuovo la pratica ci propone. Ma ci permette anche di ideare e sottoporre alla verifica pratica nuove proposte, per un progresso più rapido.

 

Ho iniziato a praticare la scherma in età adulta, durante i corsi universitari. Questo insolito ritardo non mi ha impedito di fare una discreta carriera agonistica, e di appassionarmi al punto da dedicarmi all’insegnamento della scherma.

Il mio approccio, però, è stato diverso dall’usuale: non mi bastava l’addestramento formale (“si fa così”); volevo, soprattutto, capire il perché delle cose che facevo.

Le risposte ricevute, dalle persone o dai trattati, non mi hanno soddisfatto in pieno. Perciò, ho continuato a cercare, e lo faccio ancora. Questo lavoro è una sintesi delle mie conclusioni, per ora, relative agli argomenti trattati.

 

Alcune domande, che mi sono posto, hanno fatto da guida alla mia ricerca. Eccole.

 

Anche tra tecnici, salta agli occhi la differenza tra i vari modi di interpretare, di “vedere” la scherma. E’ forse questo imputabile alla differenza dei linguaggi, o alla carenza (assenza) di una teoria, rivolta finora solo agli aspetti meccanici della scherma?

 

Tempo, misura e velocità sono i fondamenti della scherma: perché i trattati, dopo questa affermazione, non approfondiscono l’argomento? Sono doti perfezionabili con l’allenamento? In modo solo indiretto, o anche con un addestramento specifico?

 

Tattica e strategia, altre due parole chiave. Non esiste una definizione soddisfacente di questi termini, ma se ne parla molto. Un buon tattico può aver facilmente ragione di un avversario più tecnico, ma meno furbo. Ma non si insegna “la” tattica, bensì una serie di accorgimenti, ognuno dei quali può forse essere definito “una” tattica. Perché non esiste una teoria? E’ utile costruirla?

 

L’atleta è lo stratega, il tattico, il tecnico e l’unico soldato del suo esercito impegnato in battaglia. Come funziona il suo centro operativo, il cervello? Cosa ci dice, in proposito, la psicologia dello sport?

 

Il mio lavoro si sviluppa a partire dalla definizione, necessaria pur se un po’ laboriosa, delle basi teoriche su cui si sviluppa la parte più specificamente schermistica. Questa ricerca ha risvolti pratici, operativi, in misura crescente nel suo procedere verso la parte finale. Non è questo, tuttavia, lo scopo che mi proponevo: la creazione di un manuale per la didattica.

 

A scapito di una maggior chiarezza e leggerezza dell’insieme, ho scelto una strada più aperta alla critica, alla discussione ma, proprio per questo, più stimolante e, spero, produttiva.

 

Non è casuale l’assenza di distinzioni fra le armi, se si esclude la problematica legata alla convenzione. Quando si va oltre il puro e semplice livello tecnico, la scherma torna ad essere “una”, come dicevano i Maestri di un tempo: che la si faccia con la spada, con un bastone, con i pugni, con la dialettica, o con qualunque altro mezzo. Purché, a monte, ci sia un cervello.

 

Non è quindi, questo, nelle intenzioni, un manuale sulla tattica: bensì una introduzione (e un gettare le basi) per lo sviluppo di una teoria di cui, come tecnico e come atleta, ho sentito la mancanza.

 

Le mie ricerche sul tempo, ed il mio interesse per l’informatica, mi hanno portato a cimentarmi con alcuni linguaggi di programmazione, per realizzare dei test semplificati sui riflessi e la scelta di tempo, che possono contribuire a chiarire alcuni dei concetti esposti. Ho ritenuto cosa utile inserire il listato di questo programma in un’appendice, al termine di quest’opera.

 

STRATEGIA TATTICA E TECNICA

 

PREMESSA

 

Strategia e tattica sono termini nati nell’ambito bellico, ma si sono via via estesi ad altri ambiti, con significati non sempre coincidenti. Se ne fa largo uso, oltre che nel linguaggio sportivo, anche nel parlare quotidiano.

Dovendo elaborare una teoria, che faccia uso di questi termini, è indispensabile definirli con sufficiente precisione. Purtroppo i dizionari, le enciclopedie, i lavori anche specialistici sul tema non danno definizioni tra loro concordanti.

Ritengo quindi utile dare le mie definizioni di questi termini, senza costringere il lettore a seguire tutto il corrispondente percorso di ricerca, che potrebbe tediare.

La strada seguita è quella di prendere definizioni comunque già in uso, scartando quelle (e sono tante) che porterebbero a qualche confusione o non netta separazione dei termini usati.

Non è questo il luogo per condurre una ricerca esauriente sull’argomento. Perciò, mi limiterò ad esporre il succo della mia ricerca, e le mie conclusioni.

 

PRIME DEFINIZIONI

 

La guerra, come un confronto sportivo, come la scelta di una linea di condotta per risolvere un problema, richiedono che si elabori un progetto, un programma, per utilizzare al meglio le proprie risorse, in funzione dello scopo da raggiungere. A questo programma si dà il nome di strategia.

Una prima definizione di strategia, che verrà sviluppata in seguito, è quindi la seguente:

 

LA STRATEGIA E’ IL PROCEDIMENTO (PROGRAMMA) PER RAGGIUNGERE UNO SCOPO.

 

Una prima considerazione: esistono vari livelli di strategia, tanti quanti sono i sottoprogrammi, che a loro volta dipendono dal frazionamento degli obiettivi (scopi). Un problema subordinato darà luogo, semplicemente, ad una strategia di livello inferiore.

Per fare un esempio, si ricorre a livelli diversi di strategia per impostare una gara, un match o la singola stoccata. Ma la stessa gara, che nel nostro esempio rappresenta il livello più alto, può far parte di un insieme di competizioni di una intera stagione, ed essere quindi subordinata ad esigenze (e strategie) superiori.

Nell’affrontare, ad esempio,  l’ultimo match di un girone all’italiana, a qualificazione già acquisita, posso optare per una strategia poco dispendiosa, per risparmiare energia, anche a rischio di una sconfitta. La strategia scelta è subordinata (e quindi di livello inferiore) alla strategia adottata per la gara, che prevedo lunga per le mie condizioni di forma.

 

La definizione della tattica che ho adottato, in quanto mi è parsa la più rispondente allo scopo, come si vedrà più avanti, è la seguente:

 

LA TATTICA E’ IL PROCEDIMENTO PER OTTENERE DA ALTRI QUANTO SI DESIDERA.

 

Questa definizione comporta alcune conseguenze immediate: in quanto procedimento, programma, o meglio sottoprogramma, la tattica può essere considerata come un tipo particolare di strategia (un sottoinsieme), di livello inferiore, subordinato.

Inoltre, per esistere, richiede la presenza di “altri”, da cui ottenere quanto si desidera, e che hanno il potere, evidentemente, di non concederlo. Un conto è colpire un manichino, altra cosa è colpire un avversario. Per fare un altro esempio, scalare una montagna richiede indubbiamente una strategia, cioè un programma, una organizzazione: ma non richiede una tattica, se non siamo impegnati, ad esempio, in una competizione con un avversario che vuol raggiungere la cima per primo.

Vedremo, in seguito, che la definizione di tattica verrà ulteriormente ristretta e precisata per gli sport di opposizione. Comunque, consegue da questa definizione il fatto che, laddove non esistano “altri” in grado di opporsi, non esiste tattica, ma solo strategia.

 

Ed ora, la tecnica:  è il “come si fa” di qualunque cosa. La tecnica è  il  processo  per fare qualcosa,  o per farla fare  ad altri, seguendo un procedimento dato, e ripetibile.

 

LA TECNICA E’ UN PROCEDIMENTO DEFINITO E RIPRODUCIBILE PER RAGGIUNGERE UNO SCOPO.

 

La strategia può avere come fase operativa del programma una tecnica: e nel momento in cui è possibile descriverne e riprodurre i procedimenti, è essa stessa tecnica. Possiamo parlare, infatti, di tecnica di programmazione. Questo fatto, però, si presta a generare una certa confusione. Per questo motivo, in seguito, limiteremo la definizione di tecnica all’esecuzione di un atto motorio: un procedimento definito e riproducibile, in quanto rappresenta essa stessa la riproduzione di un movimento (modello), ritenuto corretto, e finalizzato ad uno scopo.

 

 

 

LA STRATEGIA COME PROGRAMMA

 

Abbiamo definito la strategia come il procedimento per raggiungere uno scopo. In realtà, quando facciamo qualcosa, anche senza esserne consapevoli, stiamo già adoperando un programma, un procedimento: ma è giusto dire che stiamo applicando una strategia?

Come prima cosa, osserviamo che possono esserci più strade per raggiungere lo stesso obiettivo. Alcune, però, saranno migliori delle altre: perché ci daranno il risultato voluto ad un costo minore; o perché, allo stesso costo, ci faranno andare più vicino all’obiettivo.  Una buona soluzione è, ovviamente, quella che ottiene il massimo risultato con il minimo costo.

Esistono, quindi, procedimenti buoni e meno buoni. Lo stratega è colui che lavora per ottimizzare il suo procedimento: la strategia è il procedimento ottimizzato.

Procedimento, abbiamo detto, equivale a programma: i programmi per i moderni elaboratori elettronici, scritti in un linguaggio, come il basic, abbastanza vicino al nostro modo di ragionare, possono darci degli esempi utili e significativi.

Un programma, tipicamente, è composto da una serie ordinata (in sequenza, ad esempio) di istruzioni. Le istruzioni rappresentano operazioni che il computer è in grado di riconoscere ed eseguire: le nostre tecniche. Fra queste, alcune sono finalizzate all’acquisizione di dati (informazioni), che permettono di effettuare delle scelte tra le successive istruzioni: sino ad arrivare al raggiungimento dello scopo del programma, o al blocco del programma stesso per impossibilità di raggiungerlo.

Quel che si può fare con un programma dipende, in primo luogo, dalla potenza del calcolatore impiegato, che può essere più o meno veloce, dotato di poca o molta memoria, ed altro: quello che comunemente viene indicato come hardware.

In secondo luogo, dalle possibilità del programma, che può essere più o meno capace di sfruttare al meglio le potenzialità del computer.

In terzo luogo, dall’abilità di chi usa il programma, per sfruttarne al meglio le possibilità; e per modificare il programma stesso, quando necessario.

Proviamo ad applicare alla scherma quanto è emerso finora.

L’hardware corrisponde, evidentemente, ai mezzi fisici dell’atleta, al momento di salire in pedana. Può essere migliorato con l’allenamento, ma è necessario conoscere e valutare lo stato di forma del momento, per sapere quanto si può chiedere al fisico.

Le possibilità del programma sono legate alle istruzioni eseguibili, e cioè alle tecniche realmente a disposizione dell’atleta: non quello che potrebbe fare, ma quello che sa fare. Anche in questo caso, è importante una precisa e realistica autodiagnosi.

L’abilità di chi usa il programma (l’atleta), o lo modifica, è legata alla sua intelligenza, al suo addestramento mentale (e quindi anche all’organizzazione della sua memoria), ed alla conoscenza più o meno approfondita dell’avversario e del problema: le regole del gioco. Vedremo in seguito che quest’ultima parte, la più importante, è legata indissolubilmente alla tattica. Non possiamo approfondire l’argomento se non dopo aver approfondito il discorso sulla tattica.

Tuttavia, è già possibile tracciare un primo schema dei compiti dello schermitore, nel definire la propria strategia.

In primo luogo, deve stabilire il livello della strategia da elaborare. In altre parole, se ad esempio deve affrontare un match, i suoi programmi devono tener conto delle superiori finalità della gara. Se si punta alla vittoria finale in una gara lunga, sarebbe sciocco impostare  ogni match su una condotta molto dispendiosa.

In secondo luogo, deve valutare correttamente i propri mezzi: resistenza, velocità, tecniche disponibili, ecc.

In terzo luogo, dovrà valutare tutte le informazioni che possiede sull’avversario, e sulla situazione (arbitro, regole, tempo, spazio,  vantaggio, ecc.).

A questo punto, dovrà programmare le tattiche e le tecniche (tra quelle realmente disponibili) per le varie fasi prevedibili: attacco, difesa e contrattacco, situazioni varie.

Infine, durante il match, dovrà approfittare di tutte le pause per apportare le necessarie correzioni alla sua strategia, grazie alle nuove informazioni accumulate, e al variare della situazione.

 

STRATEGIA E PSICOLOGIA DELLO SPORT

La scherma è uno sport, un’arte, una disciplina, che si fa con la testa, prima che con le gambe, la mano, o il cuore. Non è l’unica, certamente. Ma l’elevata velocità richiesta dalla scherma al sistema nervoso per elaborare le sue strategie la pone in una situazione di privilegio per osservare i meccanismi mentali. Trovo giusto, quindi, capovolgere il normale approccio alla scherma. Prima della tecnica, sono da comprendere i processi mentali che la determinano.

La psicologia dello sport, in tempi relativamente recenti, ha posto particolare attenzione ai processi mentali che stanno a monte del gesto sportivo.

I processi mentali sono tutti quei meccanismi che il cervello usa per raccogliere le informazioni dall’ambiente (interno o esterno), analizzarle e compararle con altre già in memoria, decidere la risposta motoria da emettere, o da non emettere, in funzione degli scopi, programmare la risposta stessa e controllarne l’esecuzione.

Un procedimento, come si noterà, molto simile a quello strategico prima descritto: potremmo dire che questo procedimento è la strategia, il programma, del cervello per raggiungere gli scopi prefissati col minimo sforzo.

Secondo questa prospettiva, infatti, il gesto sportivo può essere analizzato in funzione dell’impegno mentale che richiede ogni fase del processo, e dell’ottimizzazione di tutti gli stadi, che vanno dalla presa d’informazione  all’esecuzione del gesto.

Un atto motorio, quindi, o una risposta motoria, è preceduto da una fase di presa di informazione, cui segue una fase di elaborazione. Gli effetti dell’atto motorio sono riutilizzati, per il controllo dell’esecuzione, nella successiva presa di informazione (feedback).

Quando i dati relativi al proprio movimento sono la parte più rilevante dell’informazione in arrivo, la disciplina si classifica come a Closed Skill (ad esempio i tuffi, la ginnastica). Se, invece, prevalgono i dati esterni, si classifica come a Open Skill (tra queste, la scherma). Fin qui, le definizioni della Psicologia dello sport.

Proporrei, a questo punto, una ulteriore suddivisione. Infatti, se in generale, nelle Open, l’atleta deve interagire con un ambiente esterno mutevole, è pur vero che c’è una sostanziale differenza tra un ambiente che muta le sue caratteristiche indipendentemente dall’azione dell’atleta (che si limita ad adattarvisi, per meglio dominarle: ad esempio il windsurf, al di fuori della competizione), ed ambiente che muta proprio in funzione (opposta) di questa azione.

Esiste, in questo caso, non solo una informazione di ritorno (feedback) all’atleta sugli effetti della sua azione; ma anche, importantissima, una informazione di ritorno all’ambiente, o meglio a quella parte determinante dell’ambiente esterno che è l’avversario: che regolerà la sua azione successiva sulla base di queste informazioni, per opporsi (per collaborare, nel caso di compagni di squadra).

L’avversario, per definizione, si oppone. Una tecnica, per essere applicata, richiede invece, il più delle volte, una sua collaborazione, o non opposizione, che non può essere data di proposito (se non di seconda intenzione), ma deve essere carpita con l’inganno: l’avversario collabora credendo di averne un vantaggio, e si sbaglia. Viene indotto a sbagliare: il caso in cui viene forzato a sbagliare è anche possibile, ma generalmente molto più costoso.

Le discipline Open con avversario, dunque, si basano sull’inganno, che è il fondamento della tattica, come tenterò di dimostrare: le chiamerò, quindi, discipline tattiche, per distinguerle da quelle senza avversario (nel senso sopra definito), che sono solo strategiche. Risulterà chiaro, in seguito, che le discipline tattiche si avvalgono della strategia, necessariamente; mentre è falso il contrario. Per servirsi della tattica è necessario un avversario pensante, e quindi ingannabile.

 

LA TATTICA E L’INGANNO

Abbiamo definito la tattica come il procedimento per ottenere da altri quanto si desidera.

In uno sport di opposizione, come la scherma, quel che si desidera dall’avversario è esattamente quel che lui non vuole dare: una collaborazione che lo aiuti a perdere. Questa “collaborazione” autolesionista non può essere ottenuta, come in altri casi (in assenza di competizione), grazie alla persuasione, ma solo in due modi: con la forza o con l’inganno. Il primo mezzo non sempre è utilizzabile, ed è comunque generalmente il più dispendioso. Inoltre, se si presuppone che l’avversario non sia in grado di opporsi alla forza, non potremo dire di aver “ottenuto” alcunché, ma solo di averlo preso. Questo esclude dal campo della tattica l’uso della forza, limitandolo all’ambito strategico. Ridefiniamo, quindi, come segue, il termine “tattica”, limitandone l’uso al campo degli sport di opposizione.

 

LA TATTICA E’ IL PROCEDIMENTO PER TENTARE DI CARPIRE (GRAZIE ALL’INGANNO) LA COLLABORAZIONE DELL’AVVERSARIO, AL FINE DI RIDURRE I COSTI NECESSARI PER IL RAGGIUNGIMENTO DELL’OBIETTIVO.

 

Si rende necessario quindi, prima di continuare, chiarire cosa è, e come funziona, l’inganno, per poi applicare alla scherma le nostre conclusioni.

Una buona definizione dell’inganno è la seguente:

 

L’INGANNO E’ L’ACCETTAZIONE DEL TENTATIVO CONSAPEVOLE DI DEFORMAZIONE DELLA REALTA’ PERCEPITA, FATTO DALL’ALTRO PER IL PROPRIO VANTAGGIO.

 

Ora, alcune considerazioni. La realtà percepita dipende dai sensi e dal cervello, che interpreta i dati, ricevuti attraverso i sensi.

Per fare il suo lavoro, il cervello richiede:

 

a)  dati utili;

b)  un programma (modo per elaborare i dati);

c)  tempo sufficiente;

d)  costi limitati.

 

Perché le probabilità di riuscita dell’inganno aumentino, si deve agire su uno o più dei fattori citati:

 

a) falsando i dati che l’ingannato riceve;

b) evitando che, attraverso la ripetizione, l’ingannato impari (=modifichi il programma) a riconoscere ed evitare l’inganno;

c) diminuendo il tempo a disposizione;

d) aumentando i suoi costi.

 

Ora, i sensi portano al cervello una enorme quantità di dati: di questi, solo alcuni sono realmente utili. E’ il programma che, stabilendo quali sono da ricercare e quali da ignorare, pone un filtro, per così dire, sull’attenzione. Questo filtro fa si che solo una parte di ciò che coinvolge i sensi emerga a livello cosciente. Il resto, è come se non esistesse, o quasi. La priorità data al programma ci riporta, quindi, alla necessità di conoscere bene le vere regole del gioco, per individuare i punti essenziali sui quali focalizzare l’attenzione.

D’altra parte, una volta stabilito il dato, l’informazione da cercare, accade, il più delle volte, che l’informazione venga fornita in modo incompleto. Se non c’è il tempo, o nel tentativo di ridurre i costi della elaborazione, il cervello è costretto a scegliere (rischio): accettare come buona l’informazione incompleta, o rifiutarla. In entrambi i casi, la conseguenza può essere un errore.

La possibilità di ingannare o essere ingannati deriva proprio da questa necessità, o convenienza, del cervello di semplificare: per mancanza di tempo o, più in generale, per ridurre i costi dell’elaborazione.

Il costo viene definito come il consumo di risorse durante il processo elaborativo: è rilevabile soggettivamente dalla sensazione di fatica, oggettivamente, tra l’altro, dal tempo di esecuzione e dal numero di errori prodotti durante la prestazione.

L’ingannatore, dunque, si propone di falsare la realtà percepita dall’ingannato presentandogli modelli fasulli della realtà, e sperando che l’altro li percepisca come reali, per la sua necessità di semplificare.

Proviamo a fare un esempio più concreto, in relazione alla scherma.

Come distinguere un attacco vero da uno simulato? Il modello (dell’attacco) che abbiamo in memoria ha una serie di caratteristiche, alcune delle quali sono più significative: il cambiamento di velocità, l’entrata in misura, la minaccia col ferro. Queste caratteristiche, a loro volta, non sono semplici: il cambiamento di ritmo (forse il segnale più importante), è rivelato, preceduto, accompagnato, da un abbassarsi del centro di gravità, da un protendersi in avanti del busto e della testa (stimoli visivi), da un diverso rumore dei piedi sulla pedana (stimoli acustici), spesso da una pressione o un urto sul ferro (stimoli tattili).

Quando l’attacco incomincia, il fattore tempo diventa prezioso: riconoscimento e decisione devono essere molto rapidi, e non si può controllare l’esistenza di tutte le caratteristiche dell’attacco reale. Dobbiamo semplificare, riconoscendo le caratteristiche più importanti, che si manifestano più precocemente, e presumendo che ci siano anche le altre. E’ questo che permette alle finte (agli inganni) di essere efficaci: il processo di semplificazione che la mente è obbligata a fare, per ridurre i costi dell’elaborazione, dipendenti in questo caso principalmente dal fattore tempo. La mente è quindi costretta (in mancanza di tempo) ad assumersi una certa percentuale di rischio, nel decidere: non può farne a meno, e questo determina la grande importanza della tattica, e dell’inganno, quando i rapporti di forze non sono troppo sbilanciati.

Veniamo ora ad una sommaria descrizione delle modalità dell’inganno, per ampliare e completare quanto appena esemplificato.

Fondamentalmente, esistono due tipi di inganno, e il secondo comprende il primo: nascondere il reale, ed esibire il falso. Lo scopo, alla fine, è che l’ingannato, come conseguenza dell’inganno, faccia o non faccia qualcosa: che l’illusione, una volta accettata, sortisca l’effetto desiderato.

Nel classico esempio del pescatore, c’è un amo, un’esca, e un pesce che deve abboccare. Il pesce non deve vedere l’amo (nascondere il reale), e deve credere che la mosca di plastica (esibire il falso) sia una mosca vera. Ma se il pesce è di quelli che mangiano vermi, e non mosche, non abboccherà neanche se la mosca dovesse sembrare vera: l’inganno è riuscito, ma l’effetto non è quello sperato.

Per il pesce, e per lo schermitore, possiamo catalogare gli effetti sperati in tre categorie fondamentali: quelli che attirano (il pesce mangia l’esca), quelli che respingono (il pesce fugge via), quelli che lasciano nell’incertezza, esitanti o indifferenti.

L’ingannatore, nel confezionare il suo inganno, ricorre ad alcuni potenti alleati. Il primo è il tempo. Se l’ingannato deve comunque reagire, e il tempo è poco, le possibilità di reagire nel modo sbagliato aumentano vertiginosamente.

Il secondo alleato è il costo. La tendenza a semplificare, riducendo i costi, aumenta proporzionalmente la possibilità di errore, e quindi di inganno. La possibilità (offerta) di realizzare uno scopo del programma con facilità molto superiore a quella prevista, è un’esca cui è difficile resistere. Tra i fattori soggettivi (e utilizzabili per confezionare delle esche) del costo dell’elaborazione o della prestazione, possiamo includere quelli legati alle emozioni (desiderio, avidità, paura, ansia) e alle abitudini, tra cui i pregiudizi, che è sempre difficile modificare.

Il terzo alleato è l’insufficienza del programma dell’ingannato. Un programma incompleto o mal congegnato è lento, e si blocca facilmente.

 

LA TECNICA E GLI AUTOMATISMI

Un’azione apparentemente semplice, come ad esempio camminare, o scrivere, è data in realtà da una somma di azioni automatiche ed automatizzate. L’indipendenza dall’attenzione cosciente consente a questa di dedicarsi alle finalità del movimento, anziché al controllo dell’esecuzione.

L’integrazione ed automatizzazione di azioni ad un livello sempre più complesso permette all’attenzione di applicarsi (con costi inferiori) a livelli più alti della strategia: più vicini agli scopi finali.

L’addestramento non dovrebbe mai perdere di vista il fatto che è proprio questo il fine che si persegue: automatizzare e integrare per rendere disponibile l’attenzione ai livelli superiori.

Nella scherma, l’automatismo sembra quasi una brutta parola. Lo schermitore, quello bravo, “ragiona”: e quindi, si conclude, non può fare le cose automaticamente.

Se ci intendiamo sul significato delle parole, però, le nostre conclusioni cambiano radicalmente.

Secondo le ricerche della psicologia applicata allo sport, il nostro sistema di elaborazione opera secondo tre modalità: automatica, automatizzata, controllata. E, da bravo stratega, sceglie, tra queste, la più adatta alla situazione e agli scopi, per ottenere il massimo risultato col minimo costo.

Come si “misura” il costo della elaborazione? Attraverso indici oggettivi, che sono il tempo impiegato e il numero di errori rilevati; e indici soggettivi, come la sensazione di fatica, e l’intensità dell’attenzione necessaria, che a loro volta si traducono, ancora, in aumento di tempo e di errori.

La modalità di elaborazione automatica è quella che ha i costi minori. Non arriva alla coscienza se non abbiamo fatto lo sforzo di ricordare e analizzare quel che è successo. Per esempio, se qualcosa ci passa improvvisamente davanti agli occhi, battiamo le palpebre. Non abbiamo imparato a farlo, e il più delle volte non ce ne accorgiamo nemmeno. Ma, se ci ripensiamo subito dopo, possiamo ricordare di averlo fatto.

Quella automatizzata ha costi molto bassi, ed è perciò molto veloce. Ma si chiama automatizzata proprio perché c’è voluto tempo e lavoro perché lo diventasse. Quando ripetiamo molte volte un’azione, anche complessa, finiamo con l’imparare a farla, bene e velocemente, senza doverci più pensare. Ha un difetto: una volta creata o innescata, è difficile intervenire per modificarla o correggerla. Bisogna fare un lavoro lungo e noioso, per distruggere un automatismo; e ci vuole molta attenzione per riportarlo sotto controllo cosciente e modificarlo. In compenso, ci permette di eseguire un’operazione mentre pensiamo ad un’altra, più importante, gradevole o interessante. Ad esempio, quando guidiamo l’auto, non siamo quasi più consapevoli dei complessi movimenti che facciamo col volante e coi pedali, mentre ci concentriamo sui movimenti del traffico, o sulla musica, o sulla conversazione. Se guidiamo una macchina nuova, con il pedale della frizione che “stacca” in modo diverso, con il cambio ed i comandi sul cruscotto diversi dai soliti, dovremo fare una certa fatica, prestando più attenzione del solito, per manovrare i comandi con la solita abilità. E commetteremo anche più errori, e questo ci impedirà di conversare tranquillamente come prima, almeno fino a quando non avremo preso confidenza con i nuovi comandi: fino a quando non si saranno creati i nuovi automatismi.

La modalità controllata è quella con il costo più alto, ed è perciò la più lenta: richiede tutta la nostra attenzione, e quindi non possiamo pensare ad altre cose contemporaneamente. Ma possiamo farle, a condizione che siano operazioni automatizzate.

E’ quando si opera in questa fase che si prendono le decisioni più importanti. I maggiori costi sono ben giustificati, ma questo obbliga a non sovraccaricare con incombenze non necessarie il momento più “nobile” dell’elaborazione. E’ un bene che il dirigente di un’azienda, ad esempio, quando deve scrivere una lettera, possa preoccuparsi solo dei contenuti, lasciando ad altri il compito di batterla a macchina, comprare e incollare il francobollo, e spedirla. A queste cose provvederanno, autonomamente, le persone incaricate. Lo stesso ruolo di queste persone viene svolto, nello svolgere la nostra attività, dalle azioni automatizzate. Una organizzazione efficiente ci permetterà di automatizzare operazioni sempre più complesse, a beneficio del centro che decide, e quindi, in definitiva, per raggiungere gli scopi col minimo costo.

Gli automatismi, quindi sono non solo utili, ma indispensabili. Nessuno può farne a meno. Sono servi che possono rendere al massimo, se bene organizzati. Una organizzazione funzionale di vari automatismi ci permette di inglobarli in modo da poterli considerare, nell’insieme, come un solo automatismo di livello più elevato. E la stessa cosa si può fare con questi ultimi, organizzandoli per creare un automatismo di livello ancora superiore. Ad esempio, le lettere sono usate per formare le parole; le parole le frasi; le frasi i concetti; i concetti per fare un articolo di una rivista. Chi scrive l’articolo non deve certo occuparsi coscientemente del modo di scrivere le singole lettere o parole, e neanche della grammatica: deve concentrare la sua attenzione su quel che vuole comunicare.

Anche chi legge l’articolo, però, non si preoccupa di analizzare le singole parole: bada al significato che esprimono, ed ha automatismi (conoscenza del linguaggio e del contesto) che lo aiutano ad estrarre questo significato senza perdersi nei dettagli.

Torniamo al punto di partenza, cioè alla scherma.

Gli automatismi che ci interessano sono importanti nella fase di raccolta ed elaborazione delle informazioni, e nella fase di esecuzione e controllo del movimento. Sono necessari perché queste operazioni, nella scherma, devono essere eseguite a gran velocità.

L’atleta principiante, non esperto, possiede pochi automatismi, integrati ad un livello molto basso. La sua attenzione dovrà portarsi a questo livello, con costi molto alti. Quando raccoglie informazioni, la sua visione d’insieme è limitata. Analizza gli indizi uno ad uno, e spende molto nel tentativo di controllare una realtà che evolve troppo rapidamente per i suoi mezzi. Ha scarse possibilità di prevedere, e quindi di agire in tempo: reagisce, ed agisce quasi sempre di prima intenzione, perché non riesce a prevedere la misura. Quando esegue l’azione che ha deciso, è meno preciso e meno flessibile, se c’è necessità di correggersi.

L’atleta esperto, che possiede molti automatismi ben integrati a un livello alto, è in grado di estrarre molta più informazione dai segnali in arrivo. Sa cosa è importante e cosa non lo è, e non spende fatica inutile a controllare dati inutili. I suoi automatismi gli consentono di controllare la misura, ma anche di prevedere con maggiore anticipo gli effetti del movimento di entrambi. Lavora prevalentemente di seconda intenzione, perché padroneggia e prevede molto meglio le variazioni di misura, e perché conosce e interpreta con più profondità e realismo le vere regole del gioco.

Un esempio schermistico. Decido di partire in controtempo, perché posso prevedere il contrattacco del mio avversario: ho capito quando lo fa e come. Per prima cosa, devo procurarmi la misura necessaria. Poi parto in controtempo, paro il contrattacco e rispondo al bersaglio scoperto. Tutte queste operazioni sarebbero impossibili da eseguire alla velocità richiesta se non fossero completamente automatizzate e integrate fra loro tutte le azioni (entrata in misura, cambio di ritmo, parata, risposta, movimenti delle gambe, coordinazione) implicate nel concetto “controtempo”, che posso trattare come una entità autonoma. Il mio cervello è libero di lavorare con i concetti di attacco, difesa, contrattacco, seconda intenzione, e così via, perché ne padroneggio l’esecuzione: ho minimizzato i punti di controllo e posso passare dall’uno all’altro con il minimo sforzo. Posso dire di padroneggiare una tecnica, nella scherma, quando sono in grado di eseguirla ad una velocità che solo le azioni automatizzate posseggono.

Quando penso, ed ho bisogno di tempi più lunghi, mi porto ad una misura più lunga, dalla quale eseguo, in automatismo, altre azioni che vanno sotto l’etichetta globale “controllo”; da qui potrò decidere che è il momento di passare alla fase “entrata in misura” e poi, per esempio, alla fase “finta in tempo”. Se, ad azione risolutiva avviata, qualcosa non va per il suo verso, saranno ancora gli automatismi ad offrirmi una via di scampo: la rimessa, o la controparata, ad esempio, eseguite prima di formulare un pensiero, alla massima velocità possibile.

Ancora, è importante rilevare che non si parla solo di automatismi motori. Vi sono automatismi anche per valutare, come per programmare. Quello che prima ho definito un automatismo di livello più elevato è in realtà un programma: una serie di istruzioni in sequenza, con possibilità di controllo. Ogni istruzione rappresenta un automatismo, una tecnica; i controlli sono i punti di decisione. Un punto di controllo conferisce flessibilità al programma, togliendo però un po’ di velocità. Nelle armi convenzionali è preferibile, nella fase conclusiva, maggiore flessibilità (si può aver ragione anche se non si arriva prima); nella spada, sempre in fase conclusiva, conta invece di più la velocità e la precisione.

Ad esempio, il programma che lega gli automatismi per la parata e risposta può prevedere un punto di controllo, per la scelta del bersaglio, durante la parata: nella spada questo ritardo può essere controproducente, perché espone alla rimessa; nel fioretto o nella sciabola, invece, è ammissibile, perché ci si può permettere di arrivare insieme, o con leggero ritardo, rispetto alla rimessa.

La tecnica, abbiamo detto, è il come si fa delle cose. Le tecniche (della scherma), per comune intendimento, sono le azioni schermistiche descritte nei trattati. Queste azioni sono di complessità variabile: alcune includono finte, coordinazione, ecc.

Una tecnica schermistica (azione) è veramente utile quando è possibile eseguirla alla massima velocità: e questo vuol dire averla automatizzata. Più tecniche possono essere legate insieme per un’azione più complessa (ad es. il controtempo), che a sua volta può essere automatizzata, per eseguirla molto velocemente, e permetterci di utilizzare (durante l’esecuzione) il sistema elaborativo, liberato dalla necessità di controllare l’esecuzione della tecnica nelle sue fasi intermedie. Anche in questo caso possiamo affermare di possedere “una tecnica”.

Anche il sistema elaborativo, in certe situazioni, può agire seguendo schemi predisposti (programmi): e perché ciò avvenga velocemente, è necessario l’addestramento, mediante ripetizioni. Si creano, così, automatismi di programmazione, che lasciano la parte del sistema elaborativo delegata al controllo (e quindi lenta) libera di occuparsi di altri problemi. Anche in questo caso, se è possibile descrivere, trasmettere ed automatizzare il procedimento, potremo parlare di tecnica.

Tecnica non è, quindi, sinonimo di automatizzazione: lo è quando il requisito richiesto è la massima velocità di esecuzione, come avviene per gran parte delle azioni schermistiche.

Nota bene: la velocità massima non è sempre un fatto positivo, nella scherma, dovendosi sincronizzare l’azione con quella dell’avversario. Ma dove non c’è velocità massima del movimento, è richiesta velocità dal sistema di controllo o di elaborazione: si richiedono cioè automatismi di tipo più complesso, come quelli sopra descritti.
FATTORI DELLA SCHERMA

IL TEMPO

 

TEMPO OGGETTIVO E SOGGETTIVO

Il tempo è una parola con molti significati e molte implicazioni.

Ha una sua realtà oggettiva, in quanto misurabile con l’orologio; ed una realtà soggettiva (che fa sembrare gli intervalli temporali più brevi o più lunghi di quelli oggettivamente misurabili) che dipende principalmente dallo stato mentale ed emozionale dell’individuo.

Nella scherma misuriamo intervalli di tempo che hanno significato in ambiti diversi: la durata della gara, del match, del tempo residuo, del tempo effettivo, degli intervalli, hanno importanza strategica, perché determinano le scelte tattiche e tecniche da fare, in funzione dello scopo che ci si propone.

Le due dimensioni del tempo (oggettiva e soggettiva), si fondono insieme nel fenomeno scherma, ed in tutti gli sport di opposizione (e non solo in questi), per determinare quella che viene definita come “scelta di tempo”: un fattore tanto importante quanto mal definito, che è però misurabile e migliorabile con l’allenamento, a condizione di comprenderlo a fondo.

Per definire con precisione la scelta di tempo, è necessario, prima, parlare del tempo di reazione e della stima del tempo.

 

IL TEMPO DI REAZIONE

Prefissato uno stimolo sensoriale, stabiliamo un semplice compito da eseguire nel più breve tempo possibile dallo stimolo: ad esempio, si accende una luce, dobbiamo premere un pulsante. Il tempo trascorso si chiama tempo di reazione semplice per quel canale sensoriale. Gli stimoli importanti per la scherma sono, nell’ordine, visivi, tattili, uditivi. Il tempo di reazione più breve è però per gli stimoli tattili, seguito da quelli visivi e auditivi.

Un eccellente tempo di reazione per stimoli visivi, che sono  i più numerosi, si aggira sui 150 millesimi di secondo: un decimo di secondo e mezzo. Il tempo limite del colpo doppio di spada è tre volte inferiore: meno di 50 millesimi di secondo.

Il tempo di reazione aumenta notevolmente se dobbiamo scegliere tra due o più opzioni: se le luci sono due e i pulsanti anche, ad esempio. La maggior difficoltà del compito (legata al processo  di elaborazione, principalmente) richiede, come è logico, maggior tempo.

Il tempo di reazione per un individuo non è sempre lo stesso: dipende dallo stato fisico e da quello psicologico (concentrazione, motivazione). Dipende anche dal momento della giornata: in alcuni è migliore al mattino, in altri la sera.

Interessanti ricerche commissionate dalla FIS (e che purtroppo non hanno avuto sviluppi) hanno messo in relazione un aumento del PIL (frequenza di fusione retinica) col maggior rendimento degli schermitori. In breve, si è notato che una luce (un led) che si accende e si spegne un certo numero di volte al secondo viene vista come fissa e non più lampeggiante al di sopra di un certo valore di frequenza, chiamata frequenza di fusione retinica (PIL). Il PIL, negli schermitori che proseguivano la gara, si alzava progressivamente, ed era mediamente più alto in quelli più bravi.

Molto probabilmente un PIL elevato è in relazione sia con un miglior tempo di reazione che con una migliore scelta di tempo.

Un ulteriore, auspicabile sviluppo della ricerca, dovrebbe essere, a mio parere, lungo due direzioni: un sistema più preciso per rilevare il PIL; la sperimentazione su diversi tipi di riscaldamento (non solo muscolare, ma anche mentale ed emozionale) per trovare quelli che più rapidamente fanno innalzare il PIL.

Il tempo di reazione, semplice o di scelta, è l’intervallo (misurabile) tra l’apparizione dello stimolo e la risposta richiesta. E’ l’indice della prontezza di riflessi, troppo spesso confusa con la scelta di tempo.
LA STIMA DEL TEMPO

La stima del tempo è un dato soggettivo, ma misurabile dalla differenza fra il tempo richiesto (oggettivo) e quello stimato (soggettivo) nelle diverse situazioni. L’ansia, ed altre emozioni, possono portare ad un considerevole peggioramento della precisione di questa stima, e quindi della scelta di tempo.

E’ possibile predisporre facilmente un test di valutazione per misurare la stima del tempo nell’atleta o nel bambino, e poi verificare la variazione della prestazione al variare della situazione esterna (premio, punizione, vari tipi di pressione psicologica, stanchezza, ecc.).

Lo schermitore deve essere in grado di stimare correttamente intervalli di tempo di diversi ordini di grandezza: i tempi del match, ad esempio, piuttosto lunghi, o i tempi di esecuzione di azioni schermistiche (o di frazioni di esse), molto più brevi.

La vista e il movimento forniscono un importante aiuto per migliorare la stima del tempo. Può essere utile addestrare l’atleta con esercizi ad occhi chiusi per eliminare questo aiuto e sviluppare l’attenzione.

 

LA SCELTA DI TEMPO

Un artigliere è sulla sommità di una collina, col dito pronto sul pulsante di sparo del suo cannone, che è puntato con precisione assoluta su un punto della sommità della collina di fronte, a cinque chilometri di distanza. A intervalli esatti di venti secondi una sagoma bersaglio viene innalzata per due secondi esatti, dopodiché viene nascosta. Il proiettile, che viaggia alla velocità di un chilometro al secondo, impiega esattamente cinque secondi per arrivare sul bersaglio. Come farà l’artigliere a colpirlo? Non potrà certo basarsi sulla sua prontezza di riflessi: vista la sagoma, passeranno più di cinque secondi prima che il colpo, sparato con un ritardo di almeno un decimo e mezzo (tempo minimo di reazione), arrivi sul bersaglio. A quel punto, la sagoma sarà sparita da più di tre secondi. Se ha un orologio, l’artigliere potrà, misurando gli intervalli, accertare che la sagoma appare, resta su e poi sparisce con un ritmo preciso. Poi, calcolati i tempi, sparerà quando l’orologio gli indicherà che mancano circa quattro secondi all’apparire del bersaglio (così, come vedremo meglio poi, se anche dovesse avere una scelta di tempo un po’ scadente, farebbe centro lo stesso: è necessario averla anche per premere il pulsante quando l’orologio indica il secondo voluto).

Non avendo orologio, invece, dovrà fare i conti mentalmente: quando sarà convinto di aver bene imparato il ritmo, all’apparire della sagoma inizierà a contare mentalmente, per poi fare il suo tentativo quando il suo orologio interno gli dirà che mancano, appunto, circa quattro secondi alla nuova apparizione.

Perché si possa parlare di scelta di tempo è necessaria quindi la presenza di un ritmo, una sequenza di eventi che si ripete sempre nello stesso ordine. L’azione in tempo comporta il riconoscimento del ritmo, che viene interiorizzato, per intervenire insieme all’evento prestabilito.

La differenza fondamentale tra tempo di reazione e scelta di tempo, ai fini della possibilità di misurarla, è proprio questa: nel primo caso la reazione avviene dopo lo stimolo, in un tempo non inferiore al tempo di reazione semplice. Nel secondo caso (scelta di tempo) avviene insieme allo stimolo, e quindi può avvenire a volte prima, a volte dopo, a volte esattamente nello stesso istante.

Quindi, la scelta di tempo è misurabile dall’intervallo tra l’apparizione dello stimolo, di cui è prevedibile il tempo di apparizione, e la risposta. Questo intervallo può essere positivo, nullo o negativo, contrariamente a quanto succede per i tempi di reazione (intervallo sempre positivo).

Alcuni altri esempi possono contribuire a meglio chiarire il problema: in un’orchestra, l’intervento di uno strumento durante la sinfonia non può che avvenire con perfetta scelta di tempo. Chi interviene, ad esempio, con un colpo di tamburo, conosce il ritmo, lo ripete dentro di sé, fa partire il colpo di tamburo prima di sentire la nota che deve accompagnare.

Due ragazzi fanno girare ritmicamente una corda. Un terzo si accinge a saltare: è appena fuori dal raggio d’azione della corda, la guarda, ne asseconda il movimento con la testa e col corpo, quando è sicuro parte con perfetto tempismo.

Nei due esempi che precedono può sembrare che l’udito o la vista, accompagnando tutto lo svolgersi dell’azione, siano l’unica cosa indispensabile: mentre invece il senso del ritmo interiorizzato è la parte più importante, come appare più chiaro dal primo esempio, quello dell’artigliere.

Tuttavia, vista, tatto e udito rappresentano un aiuto importante, se è possibile adoperarli: per scegliere il tempo, dobbiamo prima scegliere il segnale di partenza del ritmo (quello da cui riconosciamo che è partito il ritmo atteso, o un ritmo noto); poi, nel più breve tempo possibile, prima dell’intervento, sincronizzarci. Tempo e stimoli sufficienti ci permettono di perfezionare la sincronizzazione. Fondamentali, perciò, sono i segnali di avvio: quelli che ci permettono di riconoscere in anticipo, e ci danno più tempo per sincronizzarci.

Ci sono ritmi semplici e ritmi complessi: un orologio che scandisce i secondi; una palla che viene lanciata e ricade secondo i ritmi imposti dalla forza di gravità; un’arma che viene maneggiata con una velocità che dipende dal suo peso, dalla sua struttura e dalla forza di chi la impugna; uno schermitore che parte in frecciata o in passo avanti e affondo.

Nella scherma, riflessi e scelta di tempo sono entrambi importanti, in modo diverso: nella fase di studio, quando ci si controlla, le variazioni impreviste del ritmo dell’avversario vengono seguite grazie alla prontezza di riflessi, ed è perciò che in questa fase la distanza è maggiore. Quando i ritmi vengono assimilati (o così si crede) la distanza si accorcia notevolmente: o meglio, lasciamo che la distanza si accorci quando crediamo di poter prevedere il ritmo dell’azione che si svilupperà, ritenendo di poter intervenire grazie alla scelta di tempo. Ci serviamo dei riflessi quando siamo al margine dell’azione; della scelta di tempo dentro l’azione.

Si può migliorare la scelta di tempo? Per rispondere a questa domanda possiamo fare alcuni esperimenti, e qualche considerazione. Un semplice modo per misurarla ci è dato dall’orologio. Prendiamo un cronometro digitale, che misuri anche i centesimi di secondo. Mettiamolo in moto. e proponiamoci di fermarlo allo scoccare esatto del secondo, quando decimi e centesimi sono sullo zero. Per ogni tentativo, che darà risultati precedenti o seguenti lo zero cercato, e talvolta coincidenti, annotiamo lo scarto, tenendo conto del solo valore assoluto. Dopo un buon numero di prove, e probabilmente anche qualche centro perfetto (cosa mai possibile per i tempi di reazione), facciamo la prova con qualcun altro, e annotiamo anche i suoi risultati. Probabilmente anche lui, dopo un certo numero di prove, farà qualche centro, o ci si avvicinerà molto.

Una prima considerazione: la media degli scarti è generalmente un valore molto basso. Come ordine di grandezza, è inferiore alla metà del decimo di secondo, che è il tempo limite per il colpo doppio di spada.

Secondo: quasi tutti si mantengono agevolmente al di sotto di questo valore.

Terzo: le prime prove sono le peggiori, poi si arriva ad un risultato ottimale, poi si peggiora di nuovo. Una facile interpretazione è che ci vuole un po’ di tempo per imparare il ritmo, dopodiché i risultati migliorano, poi subentra la noia o la stanchezza, e si ha un peggioramento.

Quarto: i più emotivi (preoccupati, più che del risultato, del  giudizio temuto) ci mettono più tempo ad avvicinarsi ai risultati migliori.

Sembra quindi che tutti disponiamo di una buona scelta di tempo, ma che vari da un individuo all’altro la capacità di mantenersi concentrati, e la velocità ad imparare un nuovo ritmo: quest’ultima cosa è fortemente influenzata dall’emotività.

Imparare rapidamente ad osservare e ad interiorizzare ritmi diversi sembra quindi la qualità più importante da sviluppare, per migliorare la propria scelta di tempo: chi ha a che fare sempre con lo stesso tipo di ritmo (ad esempio, un tuffatore) potrà non essere d’accordo, e troverà vantaggioso allenarsi sempre di più sul ritmo noto. Uno schermitore, che deve adattarsi in fretta a ritmi sconosciuti, dovrà invece puntare su questo obiettivo.

Se il suonatore di tamburo dell’esempio precedente può limitarsi a battere i suoi colpi in tempo, il ragazzo che deve saltare la corda dell’esempio successivo, deve prima verificare una condizione: essere sufficientemente vicino, per avere il tempo di entrare prima di un nuovo giro di corda. Non gli basta “sentire” il momento giusto, deve anche essere lì alla distanza giusta.

Lo schermitore, in più, deve fare i conti con un avversario che si oppone (il più delle volte) alla sua ricerca della misura giusta: per lui la scelta di tempo non ha significato se non è preceduta dalla scelta della misura.

Ma c’è una ulteriore difficoltà. Quando i tempi sono molto ristretti, e l’azione molto rapida, la capacità di riconoscere (dopo, e quindi in ritardo) l’esistenza delle condizioni di misura preliminari, può non bastare. Invece di riconoscere, occorre provocare la variazione di misura: a quel punto il ritmo potrà partire o non partire (essere diverso da quello atteso) ma, in caso affermativo, partirà proprio quando ce lo aspettiamo.

La scelta di tempo è quindi legata ad una azione che si svolge in sincronismo con un’altra. L’azione, però, può non essere semplice come un colpo di tamburo, ma complessa come un pezzo di sinfonia. Una volta entrati in tempo in un certo istante della sequenza, può essere necessario restarvi agganciati per un tempo più o meno lungo: di modo che tutte le azioni di chi è entrato in tempo siano sincronizzate con il ritmo che prosegue.

Un esempio di azione schermistica: lo sciabolatore entra in misura (o permette che l’altro entri), tira un tempo al braccio, para e risponde e, sulla controparata e risposta dell’avversario, contropara ancora e risponde. Una analisi dei tempi di svolgimento dell’azione (eseguita ad alta velocità) ci porta ad escludere la possibilità di eseguirla affidandoci ai tempi di reazione. L’unica possibilità è che l’intera sequenza sia eseguita in tempo, cioè prevedendola e sincronizzandosi con essa.

Cosa si può fare per migliorare la scelta di tempo? Identificati i fattori che la determinano, si perfezionano singolarmente. Nella scherma:

1) Riconoscimento dell’esistenza delle condizioni preliminari (vedi oltre: misura) o, meglio, provocare e preparare le condizioni preliminari.

2) Identificazione rapida del ritmo (osservazione e conoscenza delle caratteristiche significative; tempo di reazione di scelta; memoria).

3) Sincronizzazione (stima del tempo, feedback, controllo, coordinazione).

4) Intervento “in tempo”.

Allo stesso modo, deve essere possibile falsare o rendere più ardua la scelta di tempo dell’avversario, ricorrendo al controllo o all’inganno. Il controllo, infatti, rende difficile la preparazione delle condizioni preliminari (misura). L’inganno consiste sostanzialmente nell’alterare volutamente i ritmi (velocità, coordinazione) delle proprie azioni nella fase preparatoria ed in quella risolutiva.

 

LA VELOCITA’ E IL RITMO

E’ superfluo dare definizioni della velocità. Più utile è definire quando è giusto utilizzare la massima velocità di cui possiamo disporre, e quando è sbagliato.

Se ricorriamo agli automatismi (come generalmente, ma non sempre, accade quando veniamo sorpresi), la massima velocità è proprio quello che ci serve: ed è proprio per questo che si ricorre alle azioni automatizzate.

La velocità massima dipende dalla coordinazione (più difficile, evidentemente, con l’aumentare della complessità dell’azione), prima ancora che dalla massima potenza esprimibile.

E non bisogna dimenticare che, più della velocità effettiva, conta quella percepita dall’avversario: una partenza può apparire molto più veloce, semplicemente perché non è stata preceduta da segnali premonitori.

Se agiamo “in tempo”, se cioè abbiamo previsto e agiamo in sincronismo, la massima velocità ci serve (e può anche non essere necessaria) solo alla fine di un’azione complessa. Durante l’azione la velocità si regola su quella dell’avversario, e non deve essere superiore né inferiore.

Il cosiddetto “tempo falso” è semplicemente un ritmo diverso da quello che, per abitudine, conserviamo in memoria come “normale”. Diciamo “tempo falso” solo quando è più lento del normale, ma funziona lo stesso, anzi, funziona proprio per questo. Il caso tipico è quello della insolita coordinazione tra il braccio armato e la gamba anteriore: il colpo arriva al bersaglio solo dopo che il piede anteriore ha toccato terra, quando anche la parata è passata in anticipo. La soluzione è nella più accurata osservazione del ritmo, e nella migliore sincronizzazione dei movimenti. Ma si deve stare attenti a non confondere un attacco con tempo falso (spesso involontario, anche se efficace) con un attacco “a vedere”, che ottiene lo stesso effetto, pur basandosi su principi diversi.

La velocità ci serve, naturalmente, in fase di controllo, per adeguarci ai cambiamenti di velocità dell’altro: si reagisce dopo lo stimolo, e tanto meglio quanto più si è veloci. Della massima importanza è la capacità di vedere subito lo stimolo atteso: l’interferenza di pensieri ed emozioni è determinante, e merita uno studio a parte, che esula dai fini di questo lavoro.

Per superare il controllo esercitato dall’avversario, più che la velocità è importante la sua variazione: il cambio di ritmo (in aumento, o in diminuzione) è molto più difficile da controllare che non un ritmo costante. Per questo motivo è più efficace (perché consente variazioni maggiori, affaticando di meno) una bassa velocità di base che una alta. Lavorare su ritmi alti è invece utile se l’obiettivo è quello di fiaccare la resistenza di un avversario poco allenato.

Quindi, per la scherma è più importante sviluppare la capacità di cambiare il ritmo, piuttosto che quella di sviluppare la velocità massima.

Il ritmo di un’azione non è semplicemente dato dal movimento delle gambe. Questo deve essere coordinato con i movimenti del braccio armato, e di tutto il corpo. L’insieme di tutte queste cose (di tutti gli aspetti significativi dei movimenti di braccio, gambe, corpo) determina il ritmo.

Analoga, ma più complicata, la descrizione del ritmo di un’azione che comprenda anche il movimento dell’avversario, e quindi le variazioni di misura: lo studio del meccanismo del controllo ci darà gli strumenti necessari a comprendere le variazioni di misura, nell’interazione tra i due avversari.

Il ritmo dei movimenti delle gambe è il più importante per la misura: per il controllo e per il superamento del controllo.

I movimenti del braccio armato e gli spostamenti del tronco e del baricentro, durante le azioni di controllo o superamento, hanno importanza ai fini dell’inganno.

La coordinazione braccio gambe è determinante, invece, nelle fasi conclusive, o comunque in quelle che si svolgono “in misura”, quando si può lavorare sul ferro, o si deve evitarlo.

Infine, una considerazione facilmente verificabile: essere nel ritmo, a parità di lavoro svolto, dà una sensazione di fatica minore. E’ facile verificarlo ballando. Forse questo avviene perché la mente, quando si è dentro l’azione, e quindi nel ritmo, non può prestare attenzione alle sensazioni di fatica, perché è completamente assorbita da quanto sta facendo. Soggettivamente, si ha una sensazione di maggior “presenza” e vitalità.

Ci sono assalti che si svolgono ad alta velocità, ed altri a bassa velocità. La sensazione di alta o bassa velocità viene all’osservatore, più che dalla massima velocità osservata nelle singole azioni, o dal tempo effettivo del match, dal numero di pause e dalla durata della preparazione. In questo senso, un assalto veloce comporta minor elaborazione, ma compiuta più rapidamente.

L’aumento di velocità va di pari passo con una decisa iniziativa, comporta un maggior ricorso ai riflessi, e rende più difficile la scelta di tempo. Diminuisce le possibilità di previsione, per carenza di dati. Ma aumenta le opportunità, per chi ne è al corrente, di sfruttare le reazioni automatizzate. E migliora le possibilità di chi ha migliori automatismi, perché aumenta le possibilità di errore tecnico in chi è più lento, anche se ragiona meglio.

Quindi, lo schermitore più bravo tatticamente tenderà a rallentare i ritmi; quello meno bravo, ma anche quello che dispone  di migliori automatismi, avrà convenienza ad accelerarli.

 

LA MISURA

 

INTRODUZIONE

La misura è il termine che, nel gergo schermistico, viene usato per indicare la distanza tra i due avversari.

Si definiscono, generalmente, tre misure: stretta (per toccare basta allungare il braccio), giusta (occorre anche l’affondo), e camminando (quando è necessario il passo avanti e affondo). Per altri, bisogna aggiungere altre due misure: sotto misura (si tocca anche a braccio piegato), e fuori misura (superiore a quella camminando).

Una prima constatazione: queste definizioni danno della misura un’idea statica. E’ un po’ come se misurassimo la distanza in una fotografia: i due avversari sono fermi, e solo uno dei due si muoverà, per raggiungere l’altro, che aspetta.

Questa condizione, in realtà, non esiste, o è molto rara. I due che si fronteggiano si muovono, reagiscono, prevedono, e si sforzano di annullare i tentativi dell’altro di regolare la misura a proprio piacimento. Se uno dei due parte per toccare, raramente l’altro resterà ad aspettarlo: andrà indietro, o verrà avanti.

Il risultato è che la distanza da coprire, per chi attacca, non è quella che vede al momento di partire: è quella che prevede, a ragione o a torto, se ha visto giusto, o se è stato ingannato.

Un esempio. Se vedo che il mio avversario è a misura camminando, posso decidere di partire con un’azione di passo avanti e affondo. Ma il mio avversario, quando mi vede partire, ha tutto il tempo di fare un passo indietro, e mandarmi a vuoto. Ma può anche decidere di tirare un colpo di arresto, durante il passo, con un suo affondo. In entrambi i casi, il bersaglio non sarà, al termine dell’azione, là dove era all’inizio: eppure la mia percezione della distanza non era sbagliata.

La misura è quindi una realtà dinamica, e dipende da quel che faranno entrambi gli avversari. Per fini didattici (lezione tecnica e coordinativa: vedi oltre) può anche bastare la descrizione tradizionale. Ai fini tattici è del tutto insufficiente e fuorviante. Il concetto realistico della misura deve essere dinamico, includere il fattore previsione e quindi il fattore inganno; e deve rispecchiare le modalità e le possibilità operative che variano al variare della distanza e della velocità.

La descrizione tradizionale della misura è quindi una fotografia della situazione di partenza. Appena un po’ più utile, come punto di riferimento per l’atleta, ma non sempre possibile, una descrizione alternativa che consideri i punti di incrocio delle lame: punte che si sfiorano, lame che si incrociano al punto medio debole, punte che raggiungono le cocce, col braccio in avanti ma non in linea.

Una vera, e utile, classificazione della misura è quella che tiene conto del movimento previsto dell’avversario (per cui quasi mai la distanza da percorrere è quella che appare alla partenza)   e del tempo a disposizione per agire. Infatti la distanza, la misura, si traduce in tempo: distanza maggiore vuol dire più tempo per elaborare e reagire; distanza minore, poco tempo, o insufficiente, e quindi reazioni necessariamente automatizzate.    Distanza minore vuol dire infatti anche maggior credibilità delle finte, più efficacia dello scandaglio, più sincerità nelle reazioni.

 

IL CONTROLLO E LE VARIAZIONI DI MISURA

Nel corso dell’assalto, quando i due avversari ancora non si conoscono, e non vogliono correre rischi eccessivi, si stabilisce fra loro una certa distanza, che tende a mantenersi, e poi a diminuire gradualmente entro certi limiti.

Quale è il significato di questa distanza? Per dirlo, dobbiamo prima definire il termine “controllo”.

Con questa parola riassumiamo le operazioni con cui si mantiene l’avversario a distanza di sicurezza (si può evitare la stoccata, volendo), pur restando abbastanza vicini da conferire realismo e pericolosità alle azioni di scandaglio.

Non si conosce ancora l’avversario, e quindi non si può prevederlo; oppure, si preferisce che sia lui ad assumersi i rischi  dell’iniziativa; oppure ancora, si desidera far trascorrere il tempo per amministrare un vantaggio; e così via.

Quelle di chi controlla saranno “reazioni”, sempre in ritardo rispetto allo stimolo. Chi controlla, per reagire ha bisogno di tempo: e possiamo parlare quasi sempre di tempo di reazione di scelta, che è piuttosto lungo.

Da una certa distanza in poi, ci si rende conto di non riuscire a reagire in tempo utile: si è troppo vicini, e qui le cose funzionano in modo diverso. Da questo punto in poi, diciamo che si  è “in misura”. A questa distanza è in forte vantaggio chi ha previsto, e quindi può permettersi di agire “in tempo”: l’altro deve reagire, e per farlo alla massima velocità possibile deve affidarsi a reazioni automatizzate.

Questa analisi è, per forza di cose, qualitativa e non quantitativa. Per stabilire, in metri e centimetri, il valore limite della misura di controllo (e per uno solo dei due), dovremmo conoscere i tempi di reazione, il tipo di stimoli cui si riferiscono, il tipo di decisioni da prendere, le doti di velocità e accelerazione di entrambi, le caratteristiche fisiche, eccetera. Ma a che servirebbe?

Chi è impegnato in operazioni di controllo vuole, innanzitutto, conoscere le capacità di accelerazione e di allungo del suo avversario, in rapporto alle proprie (l’avversario è più lento di me, o più veloce? Molto o poco?); poi, individuare i segnali che precedono la partenza, per reagire prima possibile; infine, comprendere tipo e ritmo dell’azione, per opporre, ad esempio, una eventuale parata (che va eseguita “in tempo”, cioè insieme al colpo).

Il vantaggio di un maggiore allungo (tipico di chi è più alto) può essere compensato dal vantaggio di una maggiore accelerazione (tipico di chi è più piccolo e leggero). Questo vantaggio consiste nell’avere un raggio di azione efficace maggiore dell’altro: il primo è “in misura” ad una distanza per cui l’altro ancora non lo è. La differenza fra queste due “misure” è un vantaggio per chi riesce a condurre il gioco da una distanza intermedia, avendo l’allungo maggiore. L’altro, tra la misura di controllo per entrambi, e la sua entrata in misura, dovrà percorrere una zona pericolosa solo per lui: il suo avversario è ancora in condizioni di controllo.

Il passaggio dalla misura di sicurezza (controllo) a quella di pericolo (essere “in misura”) determina l’efficacia delle finte, e delle azioni di scandaglio. E’ qui che si rivelano con il massimo realismo automatismi e intenzioni.

L’entrata in misura può avvenire di comune accordo: ognuno è convinto di aver compreso le intenzioni dell’altro, “vede” e quindi accetta l’entrata in misura. Dopodiché, avviene il confronto tra i due programmi motori, le due azioni schermistiche.

L’entrata in misura può avvenire anche per il superamento del controllo operato dall’avversario. E’ possibile forzare l’entrata in misura, grazie alle migliori doti di scatto: ma abbiamo visto come questo sia un sistema antieconomico, oltre che non sempre possibile: si può stabilire di aver maggiore velocità, ma non è altrettanto facile prevedere se l’altro, al momento dello scatto, andrà indietro oppure avanti.

Il più delle volte il superamento del controllo avviene grazie ad un errore dell’avversario, che può essere provocato con l’inganno.

Una volta in misura, si applica l’azione progettata, che è la “contraria” della scherma classica. Ma, preliminarmente, bisogna superare l’avversario sul piano della misura.

Come si determina, in pratica, la misura di studio e controllo? Da parte di chi controlla, abbiamo visto, la misura che si tende a stabilire dipende dal proprio tempo di reazione di scelta, rapportato alla propria velocità e a quella dell’avversario. Quando l’avversario scatta, devo avere il tempo di vederlo partire, per reagire e mandarlo a vuoto. Basterebbe, a questo fine, stare molto lontani: ma l’iniziativa dell’altro produce l’effetto opposto. Chi controlla non può solo andare indietro: si troverebbe in breve ad esaurire il terreno disponibile.

Da parte di chi ha l’iniziativa, c’è il costante tentativo di avvicinarsi: ma entro che limite? L’iniziativa non esclude il controllo, anzi! Chi ha l’iniziativa è alla ricerca delle condizioni ottimali per partire (misura, tempo, atteggiamento); ma, intanto, deve considerare una possibile imprevista controiniziativa dell’altro, e la necessità di sfuggire, volendo.

Per controllare non basta quindi essere lontani: bisogna essere, per l’efficacia dell’azione offensiva progettata, ma anche per l’efficacia della controiniziativa per riguadagnare terreno, al limite della misura di controllo. Questo fatto rende  quindi possibile, a chi si difende, il recupero del terreno e il mantenimento della distanza voluta per un tempo indefinito, determinato solo dal confronto di bravura degli avversari sul piano della misura. Chi si difende può, in alternativa all’arretramento, ed in risposta al tentativo dell’altro di avanzare, fingere a sua volta di avanzare: l’avversario, se non ha previsto, dovrà reagire riportandosi alla misura di controllo, e quindi arretrando.

Iniziativa e controiniziativa possono coesistere, quindi, mentre si confrontano strategie di attacco e di difesa e contrattacco (che in questo caso è bene definire “attivi”: vedi oltre): questa situazione porta ad una misura di controllo strettissima, tipica delle fasi più “calde” del match.

 

LE FASI DELL’ASSALTO

 

A VOI!

E’ iniziato il match, l’assalto. I due avversari si studiano, più a lungo se non si conoscono. Non sanno molto dell’altro, e    devono cercare di saperne di più. Cosa cercare, e in che modo?

Per prima cosa, si stabilisce una distanza abbastanza sicura: se l’altro dovesse partire, si farebbe in tempo a vederlo ed a reagire. Non conoscendolo, la prudenza  porterebbe a preferire, inizialmente, una misura abbastanza lunga: pressappoco quella del passo avanti e affondo (misura camminando), o poco più. La valutazione iniziale è influenzata dalle caratteristiche fisiche (altezza, muscolatura), dal modo di stare in guardia (piedi vicini, o lontani; piedi ad angolo retto, o più stretto; busto, e quindi baricentro, spostati in avanti, o all’indietro), dalla reputazione dell’avversario, indice della sua pericolosità.

Da questa distanza, si possono scegliere due strade, e alternarle tra loro: prendere l’iniziativa del movimento o subirla. Nel secondo caso, l’operazione prevalente sarà il controllo della misura: si seguiranno gli spostamenti dell’avversario, adeguandosi alle sue variazioni di velocità, al suo ritmo, per mantenere la distanza costante; intanto, si assimilerà il ritmo dell’azione dell’antagonista, e dai suoi tentativi si tenterà di intuire le sue intenzioni. Nel primo caso (se si prende l’iniziativa: ma è possibile farlo anche durante l’iniziativa dell’altro), si provocherà l’altro con azioni improvvise, ma non portate sino in fondo, per costringerlo a reagire, a mostrare le sue intenzioni e i suoi automatismi: lo scandaglio.

A questo punto, quando entrambi avranno un’idea più precisa di quel che l’altro sa e vuole fare, la misura si sarà notevolmente accorciata, ma saranno comunque entro i limiti del controllo: limiti entro i quali è possibile reagire con successo ad una azione non prevista. Al di qua di questo limite, ad una misura più breve, le azioni efficaci sono eseguite “in tempo”, o sono frutto di automatismi: non c’è il tempo di elaborare, di pensare. “Entrare in misura” significa varcare questo limite: e si può farlo (a parità di forze) solo se l’altro sbaglia, o collabora. Per farlo sbagliare, si dovrà ingannarlo o superarlo sul piano del controllo; per farlo collaborare, si dovrà ingannarlo sul piano delle contrarie: dovrà credere di aver capito l’azione che l’altro intende fare, e di poterla neutralizzare.

 

Possiamo esaminare le cose anche da un altro punto di vista. lo schermitore che inizia un assalto ha già, in qualche modo, ne sia o meno consapevole, un programma. Può conoscere  l’avversario, ed avere già qualche idea sulla strategia, le tattiche e le tecniche da adoperare: ma dovrà comunque affinare o modificare il programma sulla base di quanto accadrà in pedana, stoccata dopo stoccata. Controllo, iniziativa e provocazione sono gli elementi di cui si servirà nella fase preliminare, di ricerca delle informazioni, denominata scandaglio; ed anche  nella fase  detta preparazione, che precede l’azione risolutiva.
  

IL CONTROLLO E L’INIZIATIVA

Abbiamo già detto che il controllo, in quanto adeguamento dei propri ritmi a quelli dell’avversario, richiede una misura, una distanza, tale da darci il tempo di reagire alle variazioni di velocità dell’altro. Il controllo, da solo, ci porterebbe rapidamente ad esaurire lo spazio di manovra: se inteso come semplice processo per mantenere la distanza, quando l’altro preme. In effetti, è necessario anche mantenere sufficiente spazio dietro di sé, e quindi si deve recuperare terreno durante le pause (attese o provocate) dell’azione dell’avversario.

Distinguiamo quindi un controllo passivo, possibile quando l’avversario non ama situazioni di fondo pedana, e provvede da solo ad arretrare, o quando abbiamo spazio sufficiente per arretrare; e un controllo attivo, necessario per evitare di essere rapidamente portati in fondo. In questo caso, chi controlla prende apparentemente (inganno) l’iniziativa durante le pause nell’azione dell’altro, o durante la preparazione, entrando in misura per provocare l’arretramento dell’altro o l’attacco da mandare a vuoto.

Anche il controllo, quindi, può essere di vari livelli: al primo livello, il controllo è esclusivamente seguire, reagire. Vedere il movimento dell’altro e adeguarvisi, tenendosi sempre fuori portata.

Ad un secondo livello, il controllo è sostenuto dalla previsione: come nel caso della parata. L’azione di attacco viene seguita, come prima, per parare alla misura voluta: ma la scelta del tempo della parata è resa possibile dalla conoscenza, e quindi dalla previsione, del ritmo dell’azione dell’attaccante.

Ad un terzo livello il controllo è sostenuto, oltre che dalla previsione, dalla provocazione, che ci permette di determinare (anziché attendere) il momento esatto della partenza del ritmo su cui sincronizzarci. E’, ad esempio, il caso del controtempo (e di tutte le seconde intenzioni, finte comprese). Il controllo con provocazione (controllo attivo), oltre che a determinare l’azione dell’altro, serve anche ad interromperla, perché interferisce col suo controllo: se la provocazione corrisponde alle attese, partirà l’azione programmata; se non corrisponde, l’azione si fermerà.

L’iniziativa, visibile come tentativo di entrar in misura, e quindi come movimento in avanti, è efficace se interpretata dall’avversario come preparazione all’azione offensiva, e non preclude certo il controllo. Chi vuole entrare in misura vuol farlo alle sue condizioni, e cioè al momento previsto, quando l’altro assume l’atteggiamento previsto. Nel premere per superare il controllo, esercita a sua volta il controllo, vale a dire la facoltà di scegliere se continuare ad avanzare fino al momento di lanciare l’azione risolutiva, o ritirarsi se le cose non procedono come previsto. Iniziativa, controiniziativa e controllo sono quindi operazioni esercitate da entrambi. Quel che conta è identificare correttamente gli stimoli che fanno scattare la decisione di proseguire o desistere: gli stimoli che possono essere presentati al fine di ingannare, o riconosciuti per la giusta decisione.

 

Durante la fase di controllo si guardano (alla ricerca di informazioni utili) zone dell’avversario (corpo e arma) diverse da quelle che si guardano quando si è in misura. Direi che l’attenzione è focalizzata maggiormente sul corpo, genericamente (baricentro, gambe), durante il controllo; di più sul braccio armato, in misura. Nei momenti conclusivi, o durante la parata, si sposta sul bersaglio.

 

Cosa succede, cosa si vede dall’esterno, durante una fase di controllo? Ha l’iniziativa chi per primo (attaccante o difensore) provoca una variazione della misura, nelle due direzioni (ma anche lateralmente): l’altro segue il movimento con un certo ritardo, per riportarsi alle condizioni di partenza (mantenere la misura) o accentuare la variazione con un tentativo di controiniziativa (cui l’avversario può reagire controllando o concludendo). Più è stretta la misura di controllo, più aumenta la necessaria velocità delle reazioni, e quindi la possibilità di errori. Chi è più veloce ha vantaggio ad operare in queste ultime condizioni.

Quando invece la misura si stringe ulteriormente, ed il tempo a disposizione non permette più di elaborare, entriamo in zona di automatismi, o di azioni in tempo: rispettivamente per chi non ha previsto e per chi ha previsto.

 

Il controllo, attivo o passivo, può servire per riposarsi, per far passare il tempo, in mancanza di idee, in attesa dell’errore dell’altro, per fiaccarne la resistenza; o come preparazione all’azione. In questo caso, può essere effettuato dall’attaccante (o da chi ha l’iniziativa durante la preparazione: colui che inizia il movimento, che l’altro segue), durante la fase preparatoria per la conquista della misura; o da chi si difende, o segue il movimento.

Durante la fase di preparazione, quindi, il controllo è reciproco. Quando parte l’attacco, l’azione può essere imprevista, in quanto uno dei due (chi ha l’iniziativa o la segue) ha superato il controllo dell’altro; o prevista, perché ognuno è convinto di aver capito cosa farà l’altro, e accetta il confronto dei programmi, delle contrarie.
  LA PROVOCAZIONE

La provocazione è il terzo elemento che entra in gioco nelle fasi di scandaglio e preparazione. Possiamo definirla come un atteggiamento eseguito in tempo, e quindi in misura, per ottenere dall’avversario la reazione voluta. Il momento esatto per la variazione di atteggiamento è quello dell’entrata in misura. Ma è un efficace provocazione anche il semplice passaggio, repentino (cambiamento di ritmo), da una misura all’altra, senza variazione di atteggiamento: diventa significativo proprio per la variazione di misura.

La provocazione efficace richiede quindi, contemporaneamente, l’entrata in misura: chi la effettua si assume un rischio, accettabile perché ragionato, preventivato. Si crede, cioè, di poter prevedere, con buona probabilità, quali saranno le reazioni.

La provocazione può avere il fine di ottenere dall’avversario una reazione, un atteggiamento col ferro, che favorisca la nostra partenza. Oppure, può avere il fine di provocare la partenza dell’avversario, per parare, contrattaccare o ripartire ad attacco esaurito. In entrambi i casi, è parte della preparazione.

Tempo e misura sono dunque i fattori fondamentali per la sua efficacia, come vedremo meglio più avanti. La provocazione, però, non è sempre necessaria. La sua presenza o assenza ci permette di distinguere tra controllo attivo e controllo passivo, e quindi tra difesa (in senso generale, includendo i contrattacchi) attiva e passiva.

 

Riepilogando, controllo, iniziativa e provocazione sono il fulcro della preparazione dell’azione schermistica, e danno ragione delle variazioni di misura. Chi prende l’iniziativa si muove per primo, chi controlla segue con un certo ritardo. Se invece prende una controiniziativa, muovendo (per secondo) in avanti, può indurre il primo a concludere con l’azione, o ad allontanarsi riportandosi in situazione di controllo.

 

LO SCANDAGLIO

Lo scandaglio ha il fine di ricavare informazioni sull’avversario, oltre quelle che spontaneamente e involontariamente concede, necessariamente, nel preparare e mettere a segno le sue stoccate, e nel muoversi sulla pedana. Lo scandaglio si fa, dunque, preliminarmente, con una attenta osservazione e una buona memoria.

Altre preziose informazioni è possibile ricavare da una intelligente provocazione: un’azione eseguita col massimo realismo (misura, scelta di tempo, cambio di ritmo), e che si differenzia dall’azione vera solo per il fatto che chi la esegue baderà, nei limiti del possibile, a evitarne la fase conclusiva, e il rischio della stoccata.

Lo scandaglio, per forza di cose, non è esente da rischi: l’entrata in misura per una azione simulata può essere anticipata dall’avversario, e tramutarsi facilmente in una stoccata presa. Ma anche una stoccata presa può rappresentare la base per un assalto vittorioso, se sfruttata con maggior intelligenza e coraggio dell’avversario. Ad esempio, è comune il comportamento per cui chi mette una botta facilmente, tende a ripeterla: e gli eventuali successivi fallimenti vengono più facilmente attribuiti ad errori o sfortuna, piuttosto che alle contromisure dell’avversario.

Le azioni simulate che fanno parte del repertorio dello scandaglio sono azioni di attacco, di contrattacco ed anche di difesa: tutte le azioni che permettono, dopo la opportuna provocazione, di recuperare una distanza di sicurezza, e cioè la misura di controllo. In casi estremi, il tentativo fallito (perché si subisce la stoccata) di un’azione ad alta percentuale di rischio (per mancanza di informazioni), è da considerarsi anch’esso scandaglio.

Richiedendo un buon cambio di ritmo, per entrare realisticamente in misura, ed una grande prontezza a recuperare la distanza di sicurezza non appena l’avversario reagisce, l’efficacia dello scandaglio è notevolmente favorita (ed i rischi diminuiti) da un buon gioco di gambe.

Le azioni di scandaglio, rientrando (il più delle volte) nella categoria dei colpi simulati, e utilizzando quindi l’inganno per ottenere informazioni dall’avversario, sono da considerarsi azioni tattiche.

L’avversario accorto, rendendosi conto di aver reagito ad una azione di scandaglio, si predisporrà ad agire in modo diverso, o allo stesso modo, ma con un secondo fine. Perciò è opportuno non ripetere più volte un’azione di scandaglio ben riuscita, né applicare la contraria immediatamente dopo. E’ meglio, prima di applicare la contraria prescelta, fuorviare l’attenzione dell’avversario con altre azioni, perché dimentichi, o ritenga dovuta al caso, l’azione di scandaglio precedente.

Un altro errore comune ai principianti, dopo un’azione di scandaglio, è l’applicazione della contraria senza prima riprodurre accuratamente (misura, atteggiamento, ritmo, situazione) le condizioni precedenti. E’ possibile, ad esempio, che le reazioni dell’avversario cambino radicalmente se è mutata la posizione sulla pedana, o se è passato da una situazione di vantaggio ad una di svantaggio, o ancora se è scarso il tempo a disposizione.
  

LA PREPARAZIONE

e intenzionali che precedono il colpo, e che hanno il fine di predisporre le condizioni più favorevoli per la sua riuscita, vanno sotto il nome di preparazione.

Ogni colpo programmato richiede una preparazione: non la richiedono i colpi o le azioni istintive, eseguiti in automatismo quando si è colti di sorpresa.

La preparazione avviene dopo la scelta dell’azione, che a sua volta è preceduta dallo scandaglio, che fornisce le informazioni necessarie. Tenendo conto di entrambi gli avversari, la preparazione comporta l’iniziativa (per l’entrata in misura), il controllo, eventualmente la provocazione, e sempre la scelta di tempo.

L’entrata in misura, che precede immediatamente l’azione conclusiva, può ottenersi per iniziativa propria o dell’avversario. Ad esempio, l’attacco: si può portarlo dopo aver superato il controllo dell’avversario, o dopo aver controllato e lasciato esaurire la sua iniziativa, o durante una pausa dell’iniziativa stessa, o prendendo l’iniziativa durante l’iniziativa.

Durante la fase di controllo (di entrambi) si esegue il traccheggio: movimenti col ferro (pressioni, battute, inviti, linea, svincoli) e variazioni di misura per creare la situazione (posizione del ferro, misura) più favorevole alla riuscita dell’azione. Intanto, la percezione dei ritmi delle azioni dell’avversario ci aiuta a scegliere il tempo e il ritmo dell’azione: anche l’entrata in misura avviene “in tempo” per essere efficace. Va preparata, e quindi prevista.

Scandaglio e traccheggio possono estrinsecarsi in azioni molto simili, che si differenziano per l’intenzione che le muove.

Sostanzialmente, la preparazione può essere definita come l’insieme delle operazioni che permettono l’entrata in misura e che attivano la reazione richiesta dall’avversario.

 

IL TRACCHEGGIO

Il traccheggio, al contrario dello scandaglio, è parte integrante della preparazione. Di norma, è successivo allo scandaglio, ed è la base di partenza per il colpo risolutivo, in attacco, in difesa o in contrattacco. Le azioni impiegate, sul ferro oppure no, servono a predisporre nell’avversario la misura e l’atteggiamento necessari per l’azione di chi prepara; oppure a stimolare la partenza dell’avversario, nel modo voluto.

Di norma, il traccheggio riuscito si conclude con il colpo preparato. Ma c’è anche un altro tipo di traccheggio, differente solo per il fine: quando le azioni sono guidate dal proposito di contenere l’iniziativa dell’avversario per far passare il tempo o recuperare terreno, senza rischiare la botta. Se il primo tipo di traccheggio è di preparazione, il secondo tipo disturba, rende più ardua, la preparazione dell’avversario.

Entrambi i tipi di traccheggio (soprattutto il secondo), servendosi dell’inganno, sono da considerarsi azioni tattiche. Ma il primo, che chiameremo traccheggio di preparazione, avendo il fine di predisporre una precisa situazione, si servirà di azioni non troppo veloci, ripetute, con chiarezza, quanto basta (in  rapporto alla sensibilità dell’altro) perché l’avversario le comprenda e reagisca nel modo voluto. Il secondo, che chiameremo traccheggio di contenimento, dovrà, al contrario, essere veloce (per dar sempre all’altro la sensazione di essere esposto all’attacco o al contrattacco) e non ripetitivo (per confondere le idee, aumentare l’incertezza dell’altro).
  

L’ATTACCO, LA DIFESA E IL CONTRATTACCO

 

IL REGOLAMENTO

Due persone si fronteggiano, armate. Scopo, la morte dell’avversario, e la propria sopravvivenza. Nessuna regola a modificare strategia, tattiche e tecniche. Nessun giudice è necessario: vince chi resta vivo. Tutto è possibile.

Un codice cavalleresco, invece, pone delle regole: vieta dei colpi, impedisce di approfittare, in certi casi, della propria superiorità. Se uno solo dei due aderisce al codice, e quindi si limita, concede all’altro un notevole vantaggio. Per evitarlo, è necessario un giudice neutrale, accettato da entrambi. Oppure, c’è un rapporto di reciproco rispetto, per cui ognuno diventa giudice di se stesso, e si fida dell’altro sotto questo aspetto. Lealtà e senso dell’onore sono qualità morali importanti.

Un regolamento sportivo pone molte regole (oltre a presupporre le qualità morali implicite in chi accetta un codice cavalleresco), ed un giudice, o più, che ne controllano l’applicazione: principalmente stabilisce le modalità di svolgimento del match e le cose illecite.

Una convenzione pone ulteriori regole: in certi casi si stabilisce di dar ragione o torto ad uno solo dei due, anche se entrambi sono stati toccati. Aumenta il potere del giudice, che è anche interprete della convenzione: solo lui può giudicare, secondo la propria sensibilità, chi si è comportato correttamente, e quindi ha ragione, od ha la precedenza.

E’ importante, quindi, la conoscenza approfondita del regolamento, che nel caso della scherma è il regolamento internazionale della FIE per Olimpiadi e campionati del mondo; oltre alle variazioni decise dalle Federazioni nazionali per prove di minore importanza.

La convenzione rende però altrettanto importante conoscere il modo di giudicare dell’arbitro: la sua interpretazione del regolamento, la sua sensibilità nella percezione della precedenza relativamente al tempo ed alla minaccia. Anche l’arbitro si inganna o può essere ingannato, anche involontariamente: è un vantaggio non trascurabile la capacità di eseguire le azioni in modo da renderle visibili dall’arbitro e interpretabili a nostro favore. Nel paragrafo dedicato alle vere regole del gioco, analizzeremo le differenze di stile nel giudicare, ed i motivi per cui ciò accade.

E’ significativo, per dimostrare quanto conti l’interpretazione del giudice, considerare gli sforzi della FIE, a partire dall’introduzione al regolamento (aggiunta di recente), per uniformare i giudizi (che quindi non sono uniformi), e per meglio definire la minaccia e la precedenza.

 

 

LE VERE REGOLE DEL GIOCO

E’ abbastanza ovvio che la conoscenza dei regolamenti dia un concreto vantaggio a chi la possiede in grado maggiore. Meno ovvio, e proprio per questo molto importante, è il fatto che le regole scritte siano spesso considerevolmente diverse dalla loro applicazione pratica: l’interpretazione che l’arbitro dà delle regole scritte è determinante. Le vere regole del gioco sono quelle applicate: dall’arbitro, appunto. Questo fatto ha un peso determinante nelle armi cosiddette convenzionali (sciabola e fioretto), che affidano il rispetto della convenzione a doti soggettive come la percezione del tempo, che può variare da un’ora all’altra nella stessa persona.

E’ utile, perciò, che il tecnico e l’atleta conoscano le problematiche legate al giudizio, e sappiano adeguare ad esse le soluzioni tecnico tattiche; e che tengano nel debito conto il fatto che il giudice, come l’avversario, può essere tratto in inganno, ma anche essere “aiutato” a vedere l’intenzionalità e la precedenza di un’azione.

La precedenza di un attacco, il riconoscimento di un errore comune, la responsabilità di un corpo a corpo, la correttezza di una battuta o di una parata, la realtà di una minaccia, sono cose difficili da definire univocamente, oltre che da giudicare, malgrado i lodevoli sforzi per uniformare i giudizi.

La principale fonte di incertezze è data dal giudizio sulla precedenza e correttezza di un attacco. Secondo il regolamento internazionale, un attacco è “l’azione offensiva iniziale eseguita allungando il braccio e minacciando continuamente il bersaglio valido dell’avversario”. In realtà è difficile stabilire quando un braccio smette di essere “allungato” e inizia a diventare “piegato”; come è difficile stabilire quando una punta, invece di minacciare un bersaglio valido, ne minaccia uno non valido, o nessun bersaglio. E’ facile, invece, rilevare chi avanza per primo (entrando nel “territorio” dell’altro), magari cambiando bruscamente il ritmo: anche perché, dovendo controllare contemporaneamente due persone, è più facile cogliere il movimento del corpo che l’allungamento del braccio armato e la direzione della punta. Non deve quindi destare eccessiva meraviglia il fatto (molto frequentemente osservato) che molti giudici, e non per distrazione, diano ragione a chi si muove in avanti per primo, anche se il braccio non è disteso quanto basta perché l’avversario possa trovare il ferro per la difesa.

Se si accetta come vero (non come giusto, però) quanto detto sopra, si comprenderà anche perché si siano dovute trovare soluzioni tattiche poco ortodosse a problemi altrettanto poco ortodossi. Si è dovuto trovare il modo di far dare il ferro, per la parata, a chi, attaccando, non lo dava pur essendo, in teoria, obbligato a farlo: perché le contrarie giuste, come l’arresto, o l’attacco sulla preparazione, sono diventate controproducenti, quando punite da un giudizio erroneo quanto frequente. Si deve dare il tempo al giudice di percepire la precedenza di una linea, ad esempio, arretrando quanto basta per costringere l’avversario a fare più passi, senza una necessità giustificata dal regolamento. Si deve parare, quando una cavazione in tempo, che parte dal braccio piegato, rischia di non essere rilevata. E via di questo passo.

 

L’ATTACCO

Le varie azioni schermistiche possono essere classificate, per comodità didattica e per un inquadramento strategico, in tre categorie: azioni di attacco, di difesa e di contrattacco.

Come già detto in precedenza, è il regolamento internazionale della FIE che stabilisce, per le armi convenzionali, il modo corretto di eseguirle. Ma l’interpretazione dei giudici si sovrappone spesso in modo determinante al regolamento, a volte sovvertendolo. Purtroppo, è di questa interpretazione che occorre tener conto, per puntare alla vittoria. E la conoscenza dei meccanismi che determinano il giudizio arbitrale (escludendo la possibile malafede) dà un concreto vantaggio a chi se ne avvale.

Nella nostra classificazione, le azioni che più risentono delle interpretazioni arbitrali sono quelle di attacco. Vediamo quali sono le problematiche, e le possibili soluzioni.

Abbiamo già visto, in precedenza, le principali difficoltà del giudice nel rilevare la priorità e la correttezza di un attacco. Molto di frequente viene considerato corretto un attacco privo di reale minaccia col ferro: la vera priorità, in questi casi, diventa il movimento delle gambe. Un movimento che è, a rigore, parte della preparazione, diviene parte di un attacco.

Questo giudizio è fonte di un notevole vantaggio per l’attaccante, che può permettersi di avanzare correndo rischi minori, in quanto l’avversario non può, come avrebbe diritto, parare o ricercare il ferro per una battuta: o può farlo solo a prezzo di movimenti molto larghi, visibili in anticipo, e quindi penalizzanti. Né può, per lo stesso motivo, mettere il ferro in linea: è uno dei possibili stimoli visivi attesi dall’attaccante per concludere con il colpo.

In conseguenza di questo fatto, nella scherma moderna si sono sviluppate azioni di attacco sconosciute nella scherma di una volta, perché ritenute scorrette. Questo tipo di attacco, che chiameremo “a vedere”, sfruttando i vantaggi appena descritti, si basa su un’avanzata più lenta, anche prolungata, con partenza da una misura più lunga, col braccio piegato e il ferro distante dal bersaglio e dal ferro dell’avversario. Chi avanza attende che l’avversario si fermi, non potendo indietreggiare all’infinito, che cerchi il ferro per una battuta o per parare (in direzioni obbligate dalla posizione decentrata del ferro non in linea dell’attaccante, e quindi predeterminata da quest’ultimo), o che tiri un colpo di contrattacco. In questi casi, determinati dai pochi stimoli visivi previsti, e col tempo notevole a disposizione (si può arrivare insieme, o dopo, e aver ragione), l’attaccante concluderà il colpo con una cavazione (e un’angolazione o un’opposizione, per rendere difficile un secondo tentativo di parata) o un colpo diretto. Questo tipo di attacco, in circostanze particolari, è possibile anche nella spada, quando si ricerca il colpo doppio.

L’altro tipo di attacco, corretto anche secondo la lettera del regolamento, ha caratteristiche opposte. Non accetta correzioni, una volta avviato, perché è l’applicazione di una ben precisa contraria, preparata e programmata: l’alta velocità di esecuzione rende impossibili o problematiche le correzioni. La scelta di tempo necessaria è maggiore, perché più ristretti sono i limiti di errore. L’attacco parte da una misura più stretta, con il solo affondo o con un passo in più: le azioni con più di un passo avanti e affondo venivano, una volta, chiamate “disordinate”, e non erano prese in considerazione nei trattati. Chiameremo “programmato” questo tipo di attacco, anche in relazione a quanto diremo più avanti, parlando delle finte.

Per entrambi i tipi di attacco, grazie anche ad una maggior elasticità di vedute sul modo corretto di portare il ferro nella minaccia, e grazie alla particolare flessibilità e leggerezza delle lame, sono diventati di uso comune i colpi cosiddetti “di fuetto” (dal francese “fouet”, frusta). La lama viene usata come una sferza, e la punta riesce in tal modo a raggiungere bersagli con angoli apparentemente impossibili.

Di conseguenza, il bersaglio utile è aumentato, ed è diventato più avanzato: basti pensare alla spalla nel fioretto. Le parate sono diventate più difficili, e si è dovuta ampliare notevolmente la tecnica, dovendosi difendere, ad esempio, anche dai colpi alla schiena, in passato impensabili.

Un esempio renderà evidente tutto ciò: nei trattati tradizionali non è considerata bersaglio, dall’invito di prima, la spalla anteriore (facilmente raggiungibile da un colpo di fuetto). Infatti, non è contemplata la parata di mezzacontro dalla prima in terza.

Ma la stessa logica adottata nel descrivere i bersagli risente di questa limitazione: secondo i criteri descrittivi adottati nei trattati, un bersaglio come la schiena, che venga colpito a partire dall’invito di seconda di chi subisce l’attacco, sarebbe da considerare come petto in alto!

 

LA DIFESA

Quando usiamo il termine “difesa” ci riferiamo alle parate. Escludiamo la difesa di misura, che consideriamo parte della scandaglio, o della preparazione. Escludiamo anche il contrattacco, che è una difesa unita all’offesa. Escludiamo, infine, le cosiddette parate anticipate, che possono essere più correttamente considerate contrattacchi con battuta.

Esaminiamo la difesa in rapporto ai due tipi di attacco presi in considerazione: quello a vedere e quello programmato.

In entrambi i casi, dovendo il ferro di chi para deviar il ferro dell’avversario nell’attimo in cui sta per toccare il bersaglio, appare chiaro che chi para ricorre alla scelta di tempo (arrivare “insieme”) piuttosto che ai riflessi: caso possibile, ma dovuto ad un attacco mal eseguito. Scelta di tempo, abbiamo visto, richiede conoscenza del ritmo, e quindi previsione del movimento.

Un attacco programmato può essere atteso o provocato. In entrambi i casi, la parata dipende (salvo errori dell’attaccante) dalla corretta previsione, da un buon controllo, e dalla successiva sincronizzazione dei movimenti alla partenza dell’attacco.

Un attacco a vedere può essere parato efficacemente solo se il movimento finale viene provocato. La conclusione di questo tipo di attacco dipende da uno stimolo visivo (inganno), che deve essere fornito volutamente da chi si difende. Riprenderemo l’argomento nel trattare le finte.
  IL CONTRATTACCO

Secondo il regolamento internazionale, il contrattacco è l’azione offensiva, o offensivo difensiva, eseguita durante l’offensiva dell’avversario.

Alcuni termini possono dar adito a confusione, perché usati dai diversi autori con significati differenti. E’ il caso della controffesa, che per alcuni è sinonimo di contrattacco (LA SCIABOLA, pag.104; IL FIORETTO, pag.100), per altri di offesa dopo la difesa (LA SPADA, pag.163).

Qualche incertezza può esserci anche per le cosiddette uscite in tempo: locuzione che potrebbe far pensare ad una esecuzione necessariamente in anticipo di almeno un tempo sul finale dell’attacco, cosa non sempre vera. Tutte le uscite in tempo, riportate sui trattati, rientrano per definizione nei contrattacchi, ma non è vero il contrario: vari contrattacchi, necessari nella scherma moderna, non sono contemplati nei trattati. Ad esempio, il colpo in tempo (il tempo di sciabola), è di comune applicazione anche nel fioretto, e finisce generalmente alla spalla anteriore, che è un bersaglio avanzato. Un altro esempio è quello dei colpi tirati nell’ultimo tempo dell’attacco, ma sempre al bersaglio avanzato, sciogliendo la misura, e sfruttando un allungo maggiore, o una leggera opposizione (non una contrazione, quindi), mandando a vuoto l’attacco al petto.

Non è questo il luogo per descrivere tecnicamente i vari contrattacchi. Va rilevato, però, che i problemi legati al giudizio hanno imposto anche in questo caso delle modifiche. Poiché non è certo il giudizio sulla priorità del contrattacco (dipendente dal giudizio sull’attacco) sono state adottate misure di maggior sicurezza: si è data maggior importanza, anche nei contrattacchi con precedenza di tempo (opinabile, abbiamo detto, a causa dell’interpretazione del giudice), all’impedire in ogni modo al proseguimento dell’attacco di raggiungere il bersaglio. Tra i vari modi possibili, il più caratteristico è quello noto, in gergo, come “chiusura”: che consiste nel mettere insieme le caratteristiche del colpo in tempo, della schivata e della contrazione, chiudendo decisamente la misura.

 

LA SECONDA INTENZIONE E LE FINTE

La definizione che i trattati danno della seconda intenzione è estremamente riduttiva.

Secondo il trattato sul fioretto della FIS, la seconda intenzione è un’azione di offesa eseguita col proposito “di favorire le intuite tendenze difensive o controffensive dell’avversario per applicare a queste le azioni contrarie ritenute più adatte”.

Questa interpretazione già riduttiva (si escludono le azioni difensive o di controffesa) viene poi ulteriormente ridotta, definendo come seconda intenzione la controparata e risposta portata da chi, volutamente, è caduto sotto la parata e risposta abituale dell’avversario. Si concede, però, che il controtempo (parata e risposta che si oppone al contrattacco provocato) sia una specie di seconda intenzione, da distinguere dalla prima per evitare confusione.

Credo che sia più opportuno lasciare al termine “seconda intenzione” il suo significato più generale, che è il seguente: un’azione eseguita per ottenere dall’avversario una reazione prevista, di cui si intende approfittare.

Abbiamo già visto che l’avversario non concederà volontariamente una reazione per lui lesiva, collaborando con chi lo provoca. Potrà esservi indotto in due modi (il terzo essendo possibile solo se non si è avversari: la persuasione): la forza o l’inganno. Il primo modo è sommamente antieconomico, ma in particolari situazioni può essere una scelta strategica giustificabile; il secondo modo è il più economico, spesso l’unico praticabile.

Vediamo, quindi, che la definizione della seconda intenzione coincide, in pratica, con quella che abbiamo dato, in precedenza, della tattica.

La seconda intenzione, quindi, in quanto tattica, è arte dell’inganno allo stato puro. Comprende le finte, in senso molto più ampio di quello dei trattati; comprende seconda intenzione e controtempo; comprende scandaglio e traccheggio; e viene quindi utilizzata, in modi diversi, per preparare tutti i colpi schermistici di buon livello.

La definizione che i trattati danno del termine “finta” è anch’essa molto riduttiva: simulazione di un colpo.

Si possono, in realtà, simulare molte più cose: una battuta, una parata, un’attacco, stanchezza o disattenzione, una intenzione.

Lo scopo della simulazione può essere duplice: indurre una reazione motoria (automatizzata) di cui si vuol approfittare; indurre una elaborazione (programma) sbagliata, basata sulle false informazioni da noi fornite, che porterà in seguito l’avversario ad azioni strategicamente o tatticamente sbagliate.

Il primo tipo di simulazione comprende le finte, nel senso ristretto definito dai trattati. Queste simulazioni vanno eseguite in tempo, e cioè nel momento esatto in cui si entra in misura: quando si passa dalla misura di controllo alla misura di azione. Se la finta è imprevista, la reazione (tempo di reazione: dopo) dell’avversario sarà automatizzata: dalla distanza a cui avviene occorre reagire alla massima velocità possibile, e non c’è tempo per elaborare risposte diverse.

Se la finta era invece prevista, cioè inserita nel programma motorio predisposto da chi la subisce, quest’ultimo potrà intervenire in tempo (scelta di tempo: insieme) per neutralizzarla.

Questo primo tipo di finte non è limitato ai colpi in attacco: si può fingere, allo stesso modo, e nello stesso tempo, di scoprire un bersaglio, in difesa, per indurre l’attaccante a colpirlo, per poi parare. Si può fingere un attacco deciso, per poi interromperlo e parare (controtempo). Si può fingere un contrattacco, per causare la conclusione diretta di un attacco “a vedere”, e poi parare; o per dare a intendere di aver subito il controtempo, e invece fare la finta in tempo. Si può simulare una ricerca del ferro, sull’avanzata dell’avversario, per indurlo a concludere con una cavazione, e pararla; o a tirare indietro il braccio, dando spazio al contrattacco. Si può simulare un attacco deciso, riservandosi la possibilità della controparata e risposta (seconda intenzione dei trattati). E via di questo passo.

Le finte dello scandaglio, e quindi le finte finalizzate alla ricerca di informazioni, rientrano in questo primo gruppo: mirano ad ottenere una reazione, ancora ignota, da sfruttare in seguito.

Tutte queste finte hanno in comune una cosa: non c’è il tempo di pensarci su. Si è pronti, oppure no: si agisce in tempo, o si reagisce di riflesso, e quindi in ritardo. In quest’ultimo caso, le possibilità di rimedio sono legate all’errore dell’avversario, che ha eseguito male, o concepito male.

Definirei finte tecniche tutte le finte del primo tipo. Infatti, se il programma è giusto (cioè è nota la reazione automatizzata che avrà l’avversario) la difficoltà consiste nell’entrare in misura. E questo si ottiene o ingannando sul programma (per cui l’altro accetta di entrare in misura) o superando il controllo. L’inganno implicito nella finta è accettato per forza, dovendosi in quella circostanza reagire in automatismo, e cioè senza il tempo di elaborare.

Il secondo tipo di simulazione comprende tutte quelle finte che si eseguono allo scopo di far programmare all’avversario un’azione, una tattica, una strategia sbagliata. Programmare: cioè l’avversario ha il tempo di riflettere e prendere una decisione, al contrario di quanto succedeva con le finte del primo tipo.

Tutte le finte che si contrappongono allo scandaglio rientrano in questo secondo gruppo. Sfruttando tutte le possibilità dell’inganno, si risponderà allo scandaglio nascondendo il reale, e quindi evitando di dare informazioni giuste; e simulando il falso, e quindi dando informazioni sbagliate. Se però lo scandaglio dall’avversario avrà messo a nudo una reazione reale, si programmerà una risposta diversa.

Alla stessa categoria di finte (che definirei, più propriamente, finte tattiche) appartengono quelle fatte durante il traccheggio, allo scopo di far programmare all’avversario una reazione, difensiva o controffensiva, voluta dall’attaccante.

 

Esaminiamo ora il caso di un’azione di finta e cavazione, che tocca. Abbiamo detto che lo scopo della finta è indurre l’avversario in errore. Qual’è l’errore di chi subisce la stoccata, nel caso preso in esame? Non è un errore esecutivo, perché la sua parata di quarta, elusa dalla cavazione, può essere stata perfetta. Non è un errore di scelta di tempo, perché, se la finta è stata ben programmata, è stata fatta di sorpresa: e quindi chi l’ha subita ha reagito (prontezza di riflessi, non scelta di tempo) in modo automatizzato, e non avrebbe potuto fare altrimenti.

Per rispondere, dovremmo prima sapere se l’entrata in misura, da parte di chi ha subito la botta, è stata accettata, e quindi programmata, credendo che l’avversario stesse preparando la botta dritta; o se non è stata programmata, e quindi è avvenuta in un momento imprevisto, lasciando spazio solo alle reazioni automatizzate.

Nel primo caso, parleremo di errore di programmazione: era sbagliato parare quarta; si doveva programmare una parata differente, o un contrattacco.

Nel secondo caso, diremo che l’errore è stato quello di farsi rubare la misura: tutto il resto è avvenuto di conseguenza, perché programmato dall’avversario. Sarebbe assurdo, infatti, far di tutto per entrare in misura, senza aver idea di cosa fare. L’insuccesso dell’attaccante, che ha avuto successo nell’entrare in misura, può dipendere dalla cattiva esecuzione, o dal programma sbagliato: credeva che l’avversario avrebbe parato quarta, e così non è stato.

Per favorire, quindi, l’errore dell’avversario, possiamo battere due strade (o entrambe): portarlo al limite (o oltre) delle sue possibilità, per favorire l’errore tecnico (errore di esecuzione, o errore di misura); ingannarlo, per favorire l’errore di programma.

L’errore di programma è un errore di elaborazione, che può essere indotto rendendola più difficile, cioè aumentandone i costi: più fatica, meno tempo, meno informazioni; e fuorviandola, con informazioni false. E non si deve trascurare il fatto che il desiderio di minimizzare i costi (un’arma a doppio taglio) amplifica notevolmente l’efficacia dell’inganno.

 

LA DIDATTICA

 

INTRODUZIONE

Sono possibili molti modi di dar lezione. Il Maestro dovrebbe decidere, prima di iniziare, cosa si propone di ottenere, o di migliorare, nell’allievo. Durante la lezione può poi aggiustare il tiro, orientandosi più su certi aspetti che su altri, in funzione della risposta dell’allievo, o anche per le necessità della situazione: non dimentichiamo che, in una Sala di scherma, bisogna tener conto di tutti i fattori, perché l’attività d’insieme proceda senza intoppi. E non sempre il Maestro è in grado di fare tranquillamente quel che ha programmato.

Una lezione può contenere molti temi, anche se, generalmente, uno sarà quello prevalente.

Prescindiamo da una parte importante della preparazione dell’atleta, di pertinenza, quando c’è, del preparatore atletico.

E prescindiamo anche dalla componente educativa (comportamento), implicita in tutte le attività dello schermitore in quanto tale, in palestra e fuori.

Riferiamoci solo alla preparazione specifica.

Il Maestro può proporsi di sviluppare la tecnica del pugno, detta anche meccanica; la coordinazione mano gambe; il ritmo e la velocità, e quindi il tempo; lo studio delle contrarie; lo studio della misura; la tattica (provocazione e inganno); la resistenza.

Allo scopo, oltre alla lezione, sono utili gli esercizi competitivi, e gli esercizi preordinati, eseguibili con lo stesso Maestro o tra gli atleti.

La lezione meccanica e quella coordinativa addestrano l’allievo a reagire rapidamente a determinati stimoli, ma in modo automatico: sono infatti lezioni che mirano a creare automatismi. Non c’è provocazione, né elaborazione del significato dello stimolo ricevuto.

Altri tipi di lezione permettono di compensare questo effetto negativo, pur presentando, a loro volta, controindicazioni.

Non esiste lezione che corrisponda totalmente alla realtà del combattimento. Il Maestro, qualunque sia il tipo di lezione, finisce col farsi colpire, magari graduando la difficoltà. Collabora, non si oppone. E non potrebbe, con gli atleti più forti, competere sul piano della velocità e resistenza. Alla lunga, non può nemmeno con quelli più deboli, se deve fare un buon numero di lezioni.

E’ sempre lui che propone lo stimolo o l’esercizio. L’allievo si limita allo svolgimento di un tema, più o meno complesso, che gli viene assegnato. La sintesi finale spetta però all’allievo, che deve essere aiutato dal Maestro a vedere i vari aspetti ed a collegarli insieme in modo armonioso.

 

MISURA E ADDESTRAMENTO

Come si può desumere da quanto detto in precedenza, padroneggiare la misura richiede un addestramento differenziato. Escludiamo, dandola per scontata, la necessaria preparazione fisica che permette un efficiente gioco di gambe.

 

In primo luogo, ci si addestra alla valutazione della misura, seguendo lo schema classico: misura stretta, giusta, camminando.  Dapprima ad avversario fermo: l’allievo si pone alla misura richiesta, e successivamente verifica, eseguendo il movimento di gambe corrispondente e toccando. Poi, con l’avversario (Maestro) che si muove, in modo già noto, dopo l’inizio del movimento dell’attaccante. L’esercizio può essere fatto per portare la stoccata o, all’opposto, per tenersi appena fuori misura, o alla misura voluta per parare e rispondere.

 

In secondo luogo, ci si esercita al controllo passivo (difesa) della misura: il Maestro (o il compagno, in esercizio) si muove (“guida” lo spostamento in pedana, muovendosi per primo), senza preavviso, nei due sensi, con frequenti cambiamenti di ritmo, e l’allievo dovrà sforzarsi di mantenere costantemente la misura iniziale. L’esercizio si presta ad essere eseguito con o senza arma, in vari modi.

 

Successivamente, si passa al controllo in fase di iniziativa. In questo caso, è l’allievo che “guida”, nei due sensi, e tenta di raggiungere, con la stoccata, l’avversario, o il Maestro, partendo dalla misura camminando. Quest’ultimo ha la scelta fra tre possibilità: controllo; reazione prevista (il segnale che determina la partenza dell’azione offensiva), accettando di farsi colpire, fermandosi, rallentando o invertendo il movimento; reazione non prevista, che determina l’interruzione dell’iniziativa, e il controllo da parte dell’allievo.

Ad esempio, il Maestro tira, sull’attacco dell’allievo, un arresto sbagliato. Ma può farlo quando vuole, arretrando, fermandosi o avanzando; o può alternarlo con un’altra azione, come ad esempio la ricerca del ferro. L’allievo, che ha l’iniziativa dell’attacco, dovrà raggiungere il bersaglio con la botta dritta, oppure fermarsi per evitare la presa di ferro e controllare la misura per un eventuale attacco del Maestro. Quest’ultimo, regolandosi sull’abilità dell’allievo, anticiperà o ritarderà la (eventuale) segnalazione del movimento che permetterà all’allievo di portare la stoccata.

Un altro esempio è dato dall’inizio di un’azione in controtempo: l’allievo inizia provocando l’uscita in tempo. Il Maestro a volte asseconderà, a volte reagirà in modo diverso, costringendo l’allievo a riprendere il controllo della misura.

 

In una fase successiva, ci si esercita a superare il controllo dell’avversario: portando l’avversario in fondo, aumentando la velocità, accordando  il ritmo per poi alterarlo, ricorrendo a vari trucchi legati anche all’espressività corporea e al gioco di gambe. L’avversario inizialmente si limita a controllare la misura, lasciandosi colpire se non ci riesce. Ci si esercita prima con l’iniziativa (la “guida”) di chi porta il colpo, poi l’iniziativa del movimento passa a chi lo subisce: in questo secondo caso, chi porta il colpo inizia controllando, per poi passare al tentativo di superamento del controllo dell’altro.

 

Infine, gli esercizi per il controllo attivo. L’allievo dovrà, in questo caso, provocare le reazioni dell’avversario da controllare. Eccone alcuni esempi.

Il Maestro, o l’avversario, avanza “a vedere” per colpire, ad esempio con una sciabolata alla testa, partendo da una misura superiore a quella camminando. L’allievo, quando vuole, può reagire a sua volta con una sciabolata (che, per la convenzione, avrebbe torto), che provocherà la conclusione (sciabolata) del Maestro. Assimilato il ritmo dell’attacco, e della sua conclusione, l’allievo simulerà,  successivamente, la sciabolata sbagliata (allungando il braccio, fermandosi, sporgendo in avanti testa e tronco, battendo il piede, con emissione di voce…), per poi riportarsi rapidamente fuori portata, con un salto indietro, mandando a vuoto l’attacco.

Questo esercizio di base si può complicare in vari modi, avvicinandosi sempre più alla realtà dell’assalto. Ad esempio, si può aggiungere la ripresa immediata dell’attacco da parte dell’allievo; o la ripresa dell’altro, da misura questa volta ravvicinata, che si presta a contrattacchi vari, con o senza presa di ferro. Si può lavorare sui tempi comuni, in cui chi si difende, prima di parare, tenta di mandare a vuoto l’avversario avanzando, inizialmente, con analoga simulazione.

Un altro esempio, classico, del controllo attivo, si ha nel caso del controtempo, in cui il contrattacco, provocato, è seguito dal controllo necessario per la parata e risposta.

Come sempre, quando gli esercizi si fanno più realistici, misura e scelta di tempo sono tra loro inestricabili. Nell’ultimo gruppo di esercizi, l’efficacia è infatti legata alla misura cui la segnalazione (provocazione) avviene, e questa è legata al tempo (scelta di tempo, identificazione del ritmo dell’azione), che deve coincidere con l’entrata in misura.

 

TEMPO, RITMO E ADDESTRAMENTO

Come abbiamo già detto, la scelta di tempo, da un certo punto in poi, non può prescindere dalla misura. Tuttavia, è possibile identificare un buon numero di giochi o esercizi centrati sulla scelta di tempo: tutti quelli in cui l’intervento avviene in sincronismo con un ritmo noto in precedenza. Ne sono un valido esempio molti giochi con la corda, mossa ritmicamente da altri. E’ anche possibile trarre profitto dai normali esercizi ginnici, se eseguiti con il ritmo scandito da un metronomo. Sorvoliamo su questo aspetto, non senza aver prima fatto notare che gli esercizi eseguiti in tempo, richiedendo molta attenzione e “sintonia” con l’ambiente esterno, sono per gli atleti molto coinvolgenti, e permettono di lavorare a lungo con soddisfazione, eliminando la noia.

La classica distinzione tra azioni eseguite “a propria scelta di tempo”, oppure “in tempo”, è da rifiutare, per i motivi già esposti in altra parte di questo lavoro: ci si riferisce, naturalmente, alla terminologia, e non alla utilità didattica di tali azioni. Ma occorre aggiungere che, se la cosiddetta partenza “in tempo” è in realtà una partenza non in sincronismo (insieme), ma per reazione (subito dopo), ciò che segue, nel caso di un’azione composta da una o più finte, è necessariamente un’azione sincronizzata sulla prevista reazione dell’avversario. Non è pensabile, ad esempio, che una finta e cavazione efficace sia più lenta o più veloce del corrispondente movimento di parata da eludere.

Tra le applicazioni specifiche, con l’arma, appare scontato che possiamo considerare utili tutte quelle basate sulle uscite in tempo, che quindi non approfondiremo. Meno scontata è la necessità di considerare la parata come azione da eseguire in tempo.

E’ noto che, a stretta misura, è pressoché impossibile parare un colpo dritto lanciato correttamente: senza “telefonare” il movimento, e alla massima velocità. A misura camminando, la parata è più agevole perché, alla partenza dell’azione offensiva, chi si difende è in grado di sincronizzarsi col ritmo, noto, dell’azione, e arrivare in perfetto sincronismo all’incontro dei ferri. Se, però, l’attaccante cambia la velocità e la coordinazione, e quindi il ritmo della sua azione, il difensore, che prevede un ritmo diverso, si ritrova in anticipo o in ritardo.

L’addestramento alla parata, quindi, dopo una prima fase meccanica, per l’apprendimento delle posizioni corrette e del sentimento del ferro, dovrà prevedere lo studio del ritmo dell’azione di attacco. In una fase successiva, occorrerà che l’allievo passi dalla difesa passiva (controllo e sincronizzazione) alla difesa attiva (controllo, provocazione e sincronizzazione): alcuni esempi sono esposti in seguito.

Parallelamente, per l’attaccante, un utile arricchimento del bagaglio tecnico sarà dato dallo studio accurato delle possibili variazioni del ritmo dell’attacco: la coordinazione del braccio armato con le gambe (non sempre il primo precede le seconde), le variazioni di ampiezza e velocità del passo avanti (ritmi diversi anche per gamba anteriore e posteriore) e dell’affondo.

 

TIPI DI LEZIONE

 

 

LEZIONI STIMOLO-RISPOSTA

 

 

LA LEZIONE MECCANICA

Con questo termine (lezione meccanica) mi riferisco alla tecnica del pugno e delle gambe: il maneggio dell’arma, la correttezza delle posizioni (atteggiamenti) e dei movimenti di gambe, l’acquisizione dei necessari automatismi della mano armata. Le nozioni necessarie deriveranno dai trattati o dalla pratica schermistica del Maestro, e non è il caso di riprenderle ora.

E’ necessario che il Maestro abbia (e dia all’allievo) punti di riferimento precisi, che li controlli con frequenza, e che faccia ripetere i movimenti un numero sufficientemente alto di volte. Una difficoltà di esecuzione può essere superata scomponendo il movimento nelle sue componenti più fini, esercitandole separatamente, e poi ricomponendo il tutto nell’insieme e col ritmo originario.

E’ bene iniziare con un esempio visivo, affidandosi all’imitazione dell’allievo, e proponendo una posizione, o un movimento, senza eccedere con le spiegazioni: solo se l’allievo paleserà delle difficoltà si scenderà nei dettagli. Nel correggerlo, si lavori su una difficoltà alla volta, trascurando per il momento gli altri errori, e focalizzando la sua attenzione sul punto stabilito.

Si può desiderare di insegnare all’allievo tutto lo scibile schermistico ma, più realisticamente, si finirà con l’insegnargli un ventaglio di azioni più limitato. Quale può essere il criterio guida?

Per il principiante, si può iniziare insegnando poche semplici azioni di attacco e difesa, per metterlo in grado di iniziare rapidamente a tirare, superando così la noia e l’impazienza di lunghi periodi preliminari di apprendimento; ed anche per renderlo al più presto autonomo.

Successivamente, sarà l’osservazione a darci l’idea delle sue attitudini e dei suoi difetti: imparerà con maggior velocità e più piacere le azioni di cui comprenderà la necessità, grazie alla sua esperienza di pedana. Per questo motivo sarà utile stimolarlo affinché ponga delle domande. Utilissimo, anche, obbligarlo a giudicare, per costringerlo ad osservare e capire.

In alternativa al lavoro precedente, anche se più noioso per l’allievo, il lavoro di preparazione allo sviluppo di future abilità: azioni che non sarà ancora capace di applicare in pedana, ma che preparano il terreno per futuri sviluppi.

Una fase avanzata di questo lavoro meccanico è quella dei colpi multipli, e dell’attrito continuato: come ad esempio una serie prolungata di parate e risposte, con o senza le controparate del Maestro. Dovendo tirare più colpi in successione, l’allievo sarà costretto a mantenere più a lungo il controllo dell’arma (modulando la stretta in tempo della mano, per non stancarsi troppo), e non esaurirà la sua attenzione dopo aver portato il primo colpo, come accade ai principianti.

Un esempio per il fioretto o la spada. Per ogni parata, senza interruzione, risposta prima al distacco e poi di filo. Per la quarta, dall’invito dell’allievo, a stretta misura, il Maestro tira al petto, l’allievo para e risponde, poi torna a parare (il Maestro può controparare oppure ritirare il braccio e tirare di nuovo: l’allievo non deve variare per questo il suo compito) e risponde di filo al fianco (il Maestro varia la posizione della sua coccia, per favorire le due differenti risposte).

Dopo che l’esercizio è stato eseguito per le singole parate, si può fonderlo in un unico esercizio complessivo (ed eseguirlo anche in movimento: vedi lezione coordinativa): per esempio passando dalla quarta alla terza (dopo il filo di quarta al fianco il Maestro dirige la stoccata alla spalla anteriore dell’allievo, per la parata di terza e risposta al distacco), poi alla seconda e alla prima, per un totale di otto colpi.

 

La lezione meccanica può essere eseguita in due modi, indicati tradizionalmente con due locuzioni che non condivido: azioni “a propria scelta di tempo” ed azioni “in tempo”.

Nel primo caso, l’allievo esegue la sua azione a partire da un atteggiamento suo e del Maestro, quando si sente pronto. Il coefficiente di difficoltà è minore, perché l’allievo inesperto ha il tempo di controllare se la sua posizione è corretta, e di visualizzare l’azione che sta per eseguire, che per lui non è ancora sufficientemente automatizzata.

Nel secondo caso, il segnale di partenza è dato dal cambiamento di atteggiamento del Maestro, che propone lo stimolo atteso, a cui l’allievo reagisce nel modo richiesto. Non di scelta di tempo, dunque, si tratta (nel senso precedentemente definito), bensì di azione in cui lo stimolo precede sempre, necessariamente, la risposta: prontezza di riflessi, tempo di reazione.

 

LA LEZIONE COORDINATIVA

Scopo della lezione coordinativa è, appunto, quello di ottenere la coordinazione dei movimenti di mano e di gambe, nel minor tempo possibile, e con la maggior efficacia: coordinazione e ritmo dell’azione richiesta.

Perché uno schema motorio si fissi (cioè divenga un automatismo, eseguibile con grande velocità e costo ridotto) è necessario un elevato numero di ripetizioni. Troppe spiegazioni, in questa fase, possono ottenere un effetto contrario. Questo tipo di lezione limita al massimo la necessità di spiegazioni, e permette di sviluppare moltissime azioni rapidamente. Cambiando semplicemente azioni, ritmo, velocità e quantità di lavoro, si ottiene un’ottima esercitazione per lo sviluppo della resistenza (lezione allenante). Le notevoli possibilità di variazione dei temi, della misura e del ritmo, costringono l’allievo a mantenere sempre viva l’attenzione. Il suo limite, come per la lezione meccanica, è nella mancanza di realismo, per quanto concerne la ricerca della misura e la tattica: da sviluppare in altri tipi di lezione, quando i problemi di coordinazione sono meno urgenti.

 

In questo tipo di lezione il primo punto da osservare è che il segnale parte sempre dal Maestro. L’allievo segue il movimento attenendosi a due regole: muove il ferro in risposta immediata allo stimolo dato, col ferro, dal Maestro; muove le gambe seguendo il movimento delle gambe del Maestro.

Prendiamo, ad esempio, un’azione semplice che ben si presta allo scopo: la battuta di quarta e botta dritta. L’azione può essere proposta a partire dalla posizione di invito di terza dell’allievo e invito di seconda del Maestro.

In un primo tempo, il Maestro, a stretta misura, alza il ferro in terza, esponendolo alla battuta di quarta. L’allievo deve immediatamente battere e tirare. Il Maestro non procede se la reazione non è immediata. Quando è soddisfatto dell’esecuzione, la fa ripetere a misura di allungo.

A questo punto inizia la sincronizzazione dei movimenti delle gambe. Il Maestro si muove, avanti e indietro, avendo molta cura di inserire delle brevi pause, a volte dopo un passo, a volte dopo due o più passi, e controllando che l’allievo esegua allo stesso modo movimenti e pause. Quando è soddisfatto dell’esecuzione,  e della sincronizzazione, inserisce l’azione preparata in precedenza, ma inizialmente solo d’allungo.

Poi, se tutto funziona bene, inizia a presentare il ferro per la battuta insieme all’inizio del proprio passo indietro: ciò porterà automaticamente alla battuta dell’allievo insieme all’inizio del passo avanti.

Senza dir niente all’allievo, il Maestro varierà il momento della battuta, presentando il ferro talvolta insieme al movimento del primo piede, talaltra insieme al movimento del secondo piede: ottenendo così la battuta in primo o in secondo tempo. L’azione camminando va alternata spesso con quella d’allungo, in modo che l’allievo non possa prevedere il movimento che dovrà fare con le gambe.

A questo punto si potrà anche inserire la parata e risposta dell’allievo, sempre in alternativa alle azioni precedenti, nello stesso esercizio: il Maestro, di tanto in tanto, non si limiterà a sollevare la punta, ma dirigerà con decisione, avanzando, una botta dritta al bersaglio interno dell’allievo, che dovrà parare e rispondere. Il Maestro dovrà, in questo caso, prestare la massima attenzione alla precedenza della punta, se vuole che l’allievo pari senza prima iniziare ad arretrare.

Lo stesso procedimento si può applicare ad altre azioni più complesse, di due o tre movimenti. La sincronizzazione dell’allievo porterà ad ottenere azioni coordinate e col ritmo impresso dal Maestro, che dovrà star bene attento a non sbagliare la propria coordinazione, se non vuole trasmettere inevitabilmente l’errore all’allievo.

Va fatta una considerazione sulle differenze nel coordinare un principiante o un atleta esperto. Il Maestro dovrà variare l’anticipo nel presentare lo stimolo, regolandosi sulla velocità del braccio dell’allievo: infatti i principianti hanno maggior difficoltà per i movimenti del ferro, che tende a ritardare rispetto alle gambe, più veloci.

Ad esempio, per la battuta di quarta e cavazione, eseguita marciando da un principiante, potrebbe essere opportuno presentare il ferro per la battuta prima di iniziare il passo indietro, anziché sul primo piede, perché il tempo necessario per la cavazione è più lungo.
  

ESEMPIO DI LEZIONE AD UN PRINCIPIANTE

Diamo ora un esempio dei principi della lezione meccanica e coordinativa, supponendo di dare una lezione ad un bambino con pochi giorni o settimane di scherma. Diamo per scontato che abbia già appreso il saluto, il passo avanti, il passo indietro e l’affondo.

Iniziamo i primi esercizi col ferro: all’inizio il bambino deve imparare a conoscere e controllare le reazioni del fioretto. Quando la lama si curva per il colpo portato sul bersaglio, la mano riceve sollecitazioni insolite, e bisogna imparare a stringere in tempo e a tener fermo il pugno.

Dalla stretta misura, gli facciamo eseguire un legamento, inizialmente quello di terza. E’ preferibile che sia lui a legare, e non il Maestro: perché l’allievo ancora non sa dare il ferro, e perché così può tenere sempre sotto controllo la copertura (il Maestro lo tocca all’esterno, se si scopre) e la misura (il Maestro può toccarlo all’interno, ad esempio, se si lascia avvicinare troppo quando dovrebbe mantenere la misura di allungo).

A questo punto il Maestro stacca il ferro dal legamento, e invita di quarta (il braccio del Maestro arretra, così che l’allievo non senta questa variazione come una minaccia): l’allievo tocca allungando il braccio. L’esercizio, sempre restando a stretta misura, può comportare tre livelli di difficoltà: l’allievo tocca senza allungare il braccio completamente; allungando il braccio completamente; allungando in avanti anche il tronco. Il Maestro controlla i seguenti punti: l’allievo non si solleva dalla guardia, anzi tende a scendere di più per i colpi più lontani; il pugno riesce a conservare la direzione della lama e l’opposizione iniziale della coccia anche a lama piegata, con la concavità verso il basso (avendo cura di spiegare che la stretta delle dita si fa al momento del colpo, e non continuamente, pena dolori e irrigidimenti della spalla); il movimento della punta precede quello del busto, necessario solo nel terzo caso; il colpo è accompagnato dallo slancio del braccio posteriore.

Quando queste difficoltà sono ben superate, si fa arretrare l’allievo a misura di allungo, e si inizia, con la stessa semplice azione, la lezione coordinativa, alternando la botta dritta in affondo con quella di passo avanti e affondo.

Successivamente, sempre seguendo i principi della lezione coordinativa, si prosegue con azioni di maggior difficoltà: la cavazione in tempo, quando il Maestro cerca il ferro in contro di quarta; la cavazione, quando il Maestro solleva la punta e fa pressione dal lato opposto al legamento; la finta e cavazione, quando il Maestro, come prima, passa dal legamento all’invito; la battuta e colpo, quando il Maestro svincola e dà il ferro, o la linea, con l’esecuzione in primo o in secondo tempo. Questo ultimo esercizio e, più difficile, quello della battuta e cavazione, sono utili per esercitarsi a dare il ferro nel momento giusto (primo e secondo piede del passo); ed anche per verificare le differenze tra un principiante (che deve ricevere il segnale con maggior anticipo) e un atleta più esperto.

 

LA LEZIONE CON ALTERNATIVE

Questo lavoro è introduttivo allo studio delle contrarie, con i limiti che vedremo.

In questo tipo di lezione il Maestro propone stimoli sempre diversi all’allievo, che dovrà opporre, immediatamente, una possibile contraria. Ad esempio, il Maestro può allineare, per una battuta e colpo; può tirare botta dritta, per la parata e risposta; può invitare, per far tirare botta dritta all’allievo. Ad ognuna di queste reazioni può opporre una contraria, cui l’allievo dovrà opporre direttamente un’altra contraria: nel primo caso, ad esempio, il Maestro può eludere la battuta con una cavazione, e l’allievo dovrà parare e rispondere; analogamente, nel secondo caso, il Maestro potrà attaccare con una finta, per la parata e risposta o il contrattacco appropriato dell’allievo; nel terzo caso potrà tentare, ad esempio, una parata, o una ricerca del ferro sul passo di preparazione (nel caso di misura più lunga), e l’allievo dovrà eluderla cavando.

La velocità massima raggiungibile in questo tipo di lezione è più bassa che nelle altre: dover elaborare una contraria in tempo reale aumenta notevolmente il tempo di reazione (che è qui tempo di reazione di scelta).

Il limite principale di questo tipo di lezione è il modo di falsare la realtà dell’assalto, in cui i tempi disponibili sono troppo brevi per elaborare durante l’azione: non si riesce a decidere, ad esempio, se parare semplice o di contro mentre l’avversario cava o circola. L’elaborazione avviene prima, ed anche nel caso delle azioni “a vedere” le alternative attese sono limitate. Tuttavia, il pregio di questa lezione è nel mantenere sempre sveglia l’attenzione dell’allievo; nel costringere l’allievo a ragionare in termini di contrarie, e nel velocizzarne la ricerca, nella memoria a lungo termine. Inoltre, è sempre possibile inserire, ove si riveli necessario, la lezione meccanica o quella coordinativa.

 

LA LEZIONE CON STUDIO DELLE CONTRARIE

In questo tipo di lezione il Maestro propone, come stimolo di partenza (ed a partire da un atteggiamento prestabilito dell’allievo) uno dei tre atteggiamenti, oppure un attacco semplice. L’allievo deve reagire, al cambiamento dell’atteggiamento del Maestro, con l’azione opportuna, precedentemente preordinata.

Ad esempio, il Maestro può cambiare invito, e l’allievo dovrà attaccare di botta dritta; può allineare, e l’allievo dovrà battere e tirare; può tirare botta dritta, e l’allievo dovrà parare e rispondere; può cercare il ferro, e l’allievo dovrà cavare. Ad ognuna di queste azioni il Maestro potrà opporre una contraria, avendo cura di ripeterla finché l’allievo non avrà trovato a sua volta la contraria, che potrà essere discussa e modificata. Ad esempio, il Maestro può controparare, con una parata a sua scelta, e rispondere ad un certo bersaglio; la volta successiva (anche non subito dopo, per esercitare la memoria) che si ripeterà la stessa situazione, l’allievo dovrà applicare la contraria, ad esempio rispondendo di cavazione, nel caso proposto.

Da ogni punto della lezione, se necessario, si può tornare alla lezione tecnica o coordinativa, per affinare azioni o movimenti mal eseguiti.

La lezione si può complicare quanto si vuole (o quanto si riesce) finché l’allievo si dimostra in grado di seguire e ricordare. Può, volendo, essere collegata alle modalità operative della lezione coordinativa o della lezione con alternative: tenendo presente che le alternative possibili ritarderanno il tempo di reazione dell’allievo, e quindi la lezione nel suo complesso.

Un livello di difficoltà superiore, e una maggior aderenza alla realtà, si troveranno nelle lezioni tattiche, in cui l’iniziativa passa all’allievo.

 

LEZIONI TATTICHE

 

 

LEZIONE CON SCANDAGLIO E PREPARAZIONE

 

In questo tipo di lezione l’allievo prende l’iniziativa con uno scandaglio.

Il Maestro assume un atteggiamento, e l’allievo propone, con cambio di ritmo, una finta o una ricerca del ferro, senza concludere l’azione. Quando il Maestro reagisce, l’allievo scioglie misura. Se il Maestro cambia atteggiamento, l’allievo ricorre di nuovo allo scandaglio, memorizzando le nuove informazioni.

Successivamente, se e quando il Maestro riproporrà lo stesso atteggiamento di partenza, l’allievo partirà direttamente con la contraria, per toccare. Da questo momento tutto può procedere come nella lezione tattica di primo livello, per le successive varianti.

Infine, quando le difficoltà precedenti saranno agevolmente superate, si introdurranno le azioni di preparazione (traccheggio): una volta nota la reazione difensiva o controffensiva del Maestro a partire da un suo atteggiamento, si proveranno le azioni preparatorie per indurlo ad assumere quell’atteggiamento. Ad esempio, se l’allievo, con il precedente scandaglio, avrà appurato che il Maestro, dall’invito di terza, reagisce alla botta dritta con la parata di contro, il problema da superare sarà quello di portare il Maestro all’atteggiamento richiesto: o con l’attesa, e un traccheggio di contenimento delle  sue eventuali azioni offensive; o con l’iniziativa, consistente in variazioni di atteggiamento, finte, o varie azioni sul ferro.

 

LEZIONE CON PROVOCAZIONE

In questo tipo di lezione è nota la reazione (difesa o contrattacco) che il Maestro opporrà ad un certo tipo di azione dell’allievo, che avrà il compito di simulare efficacemente l’azione di partenza.

La reazione dell’allievo sarà comunque un’azione conclusiva di offesa, difesa o controffesa, mentre nel caso precedente lo scandaglio mirava a scoprire le reazioni difensive o controffensive, per utilizzarle in un secondo momento.

Casi tipici di questo tipo di lezione sono i controtempi e le seconde intenzioni, le parate e risposte o i contrattacchi su attacchi provocati, gli attacchi e la difesa “a vedere”, con modalità differenti.

Nel caso della seconda intenzione, la provocazione consisterà in un attacco realmente portato, con tutte le caratteristiche di cambio di ritmo e scelta di tempo. L’allievo dovrà però curare la misura, leggermente più lunga, e l’equilibrio finale, per un’agevole controparata.

Nel caso del controtempo, la provocazione corretta è l’inizio di un attacco, con o senza ricerca del ferro; in pratica,  per i motivi esposti in precedenza, anche un invito, in certe condizioni, può avere la stessa funzione. Le caratteristiche efficaci della provocazione sono: l’entrata in misura e la brusca accelerazione, cui seguono la parata (arrestandosi, o continuando in avanti) e la risposta.

Analoghe provocazioni possono precedere un contrattacco sulla partenza del Maestro, o una parata e risposta, da fermi, arretrando o avanzando.

Gli attacchi “a vedere” dell’allievo (descritti in altra parte di questo lavoro) si servono di provocazioni che (salvo il caso della spada) sono generalmente al limite (e oltre) della corretta interpretazione del regolamento. La possibilità di effettuarli con successo dipende in larga misura dal modo di vedere del giudice. Ma offrono, se consentiti, un innegabile vantaggio. Nel caso di attacchi senza ricerca del ferro, la posizione del ferro di chi attacca (l’allievo, in questo caso), è nei casi migliori, avanzata, leggermente all’esterno del bersaglio: per obbligare l’avversario ad una ricerca del ferro quasi obbligata, e comunque più ampia e visibile. Il ferro può essere dato in corrispondenza della spalla avanzata, arretrata, del fianco avanzato o arretrato, per una ricerca obbligata da parte del Maestro, rispettivamente, in terza, quarta, seconda o prima, cui l’allievo reagirà con una cavazione, e con un colpo angolato per rendere più difficile un eventuale ulteriore tentativo di parata.

Altro attacco “a vedere”, che sfrutta una errata interpretazione del regolamento, è quello in cui il braccio dell’attaccante è decisamente piegato, per rendere impossibile la ricerca del ferro, ed estremamente difficoltosa la parata. L’attaccante avanza non troppo velocemente attendendo l’arresto per concludere l’azione. Infine (e valgono qui le stesse considerazioni fatte in precedenza), c’è l’attacco con ricerca del ferro fatta dall’attaccante: si provoca una cavazione in tempo di cui non si tiene conto (giudice permettendo) concludendo sul bersaglio.

In tutti i casi precedenti, caratteristica comune è la partenza  dell’attaccante da fuori misura, lenta, con avanzamento continuo ma non molto veloce.

Questi attacchi “a vedere”, pur criticabili, sono osservabili frequentemente, anche ad alto livello. Si può scegliere di non insegnarli: ma non si può evitare di insegnare a difendersene, e quindi vanno presi comunque in considerazione.

La chiave di volta della difesa da questi attacchi è nel loro punto debole: attendendo l’attaccante, per concludere l’azione, un  certo stimolo visivo (la ricerca del ferro, l’arresto, e la fine dell’arretramento, o l’avanzamento, del difensore), gli si dà esattamente (tempo, misura) lo stimolo richiesto, che provocherà il lancio della stoccata, cui si opporrà la contraria, o lo scioglimento della misura, per ripartire ad attacco esaurito.

Quindi, in lezione, il Maestro avanzerà come descritto in uno degli attacchi “a vedere” precedenti. L’allievo, ad un certo punto della sua marcia all’indietro, quando la misura sarà sufficientemente corta (misura d’allungo, circa), proporrà lo stimolo visivo, che potrà anche essere accompagnato, per aumentare l’efficacia, da stimoli sonori: voce, battuta del piede. Ad esempio, se il Maestro attende l’arresto per concludere, l’allievo fingerà l’arresto nel modo descritto, per poi parare con un salto indietro.

 

APPENDICE

 

 

ISTRUZIONI

 

Il listato del programma che segue, disponibile anche su disco, richiede, per funzionare, il GWBASIC, un diffuso e relativamente semplice linguaggio di programmazione. La struttura facile e leggibile del programma permette di rielaborarlo agevolmente, per adattarlo ad esigenze diverse, o di scomporlo nei singoli sottoprogrammi corrispondenti ai vari tests.

Il programma prevede un certo numero di tests, richiamabili con la pressione del tasto corrispondente.

Le misure sono più accurate e attendibili se il computer utilizzato è veloce. E’ quindi raccomandabile far girare il programma su un AT, piuttosto che su un XT.

 

Il primo test permette di misurare il tempo di reazione semplice per uno stimolo visivo: appare una scritta al centro dello schermo, si deve premere un tasto più rapidamente possibile.

 

Il secondo test ripropone la misura del tempo di reazione semplice, ma per uno stimolo uditivo.

 

Il terzo test permette di misurare la valutazione della durata per uno stimolo uditivo: bisogna premere un tasto dopo un tempo prefissato, a partire dall’inizio un segnale acustico continuo. Si misura la differenza fra il tempo reale e il tempo valutato.

 

Il quarto test misura il tempo di reazione di scelta per stimoli visivi. Sullo schermo possono apparire stimoli visivi nel campo destro o sinistro. In corrispondenza, si dovranno premere tasti diversi. Si misura, anche in questo caso, la differenza di tempo fra l’apparizione dello stimolo e la pressione sul tasto richiesto.

 

Il quinto test permette di misurare il tempo di reazione di scelta, per stimoli visivi e uditivi. Il segnale visivo appare in un momento identificabile esattamente grazie a un ritmo noto;  non è noto, però, se il segnale apparirà a destra o a sinistra, e quindi quale tasto si dovrà premere in corrispondenza.

 

Il sesto test permette di verificare il tempo di reazione semplice, per stimoli visivi, come il primo: ma permette di competere con un avversario, che reagisce allo stesso segnale, e registra i tempi di entrambi.

 

Il settimo ed ultimo test permette di misurare la scelta di tempo, basandosi sul ritmo dato da un orologio digitale. Registra lo scarto (in valore assoluto) tra il passaggio per lo zero dell’orologio e la pressione sul tasto.

 

 

LISTATO DI UN PROGRAMMA IN GWBASIC

 

1 ‘TESTS SUL TEMPO

2 GOTO 30000

5 ‘INTESTAZIONE E ISTRUZIONI

10 CLS: PRINT “TEMPO DI REAZIONE DI SCELTA PER STIMOLI VISIVI”

15 PRINT:PRINT:PRINT

20 PRINT”si gioca così:”:PRINT

25 PRINT “LO STIMOLO VISIVO E’ COSTITUITO DALLA PAROLA ”SBRIGATI!””

30 PRINT”CHE PUO’ APPARIRE A SINISTRA O A DESTRA, A META’ SCHERMO”

35 PRINT”se SBRIGATI! appare a sinistra premi la virgola, a destra il punto”

40 PRINT

45 PRINT:PRINT “PREMI UN TASTO PER INIZIARE”

55 I$=INKEY$:IF I$=”” THEN GOTO 55

200 ‘PARAMETRI STANDARD

210 PAUSAMIN=2

215 PAUSAGG=6

220 TMIN=149

300 CLS

310 NUM=1

320 W=0:X=15

325 TIMER ON   ‘ATTIVA L’OROLOGIO

330 RANDOMIZE TIMER

335 PAUSAVAR=PAUSAGG*RND

340 PAUSA=PAUSAVAR+PAUSAMIN

345 ON TIMER (PAUSA) GOSUB 355  ‘DOPODICHE’ ESEGUE LA LINEA INDICATA

350 GOTO 350   ‘SOSTA INDEFINITA, FINCHE’ PASSA IL TEMPO SCELTO

355 TIMER OFF:B=TIMER

360 C=INT (TIMER)

365 IF (C/2-INT(C/2))>0 THEN X=55

370 LOCATE 12,X:PRINT”SBRIGATI!”

375 IF X=15 THEN LAT$=”SINISTRA” ELSE LAT$=”DESTRA”

380 LATO$(NUM-1)=LAT$

385 A$=INKEY$:IF LEN (A$)=0 THEN 385

390 IF A$<>”.” AND A$<>”,” THEN GOTO 401

395 IF A$=”,” AND X=15 OR A$=”.” AND X = 55 THEN GOTO 405

400 IF A$=”,” AND X=55 OR A$=”.” AND X=15 THEN GOTO 401

401 CLS:LOCATE 10,10:PRINT”Hai sbagliato tasto. Premi un tasto e continua! (Q per smettere)”

404 TEMPO=0:GOTO 470

405 A=TIMER

410 LOCATE 16,1

415 PRINT”IL TUO TEMPO DI REAZIONE DI SCELTA E’: “;

420 TEMPO=INT (1000*(A-B))

423 PRINT TEMPO” MILLESIMI DI SECONDO”

426 IF A-B<.15 THEN PRINT”SEI UN BARO, O UN IMPAZIENTE!”

427 PRINT:PRINT “TEMPO DI ATTESA “;:PRINT USING “##.##”;PAUSA;:PRINT”  SECONDI”

428 LOCATE 22,1:PRINT”PREMI UN TASTO PER CONTINUARE, Q PER FINIRE”

470 A$=INKEY$:IF LEN(A$)=0 THEN GOTO 470

480 IF A$=”q” OR A$=”Q” THEN RUN

880 GOTO 300

2000 CLS  ‘PULISCE LO SCHERMO

2005 PRINT

2010 PRINT “PREMI UN TASTO PER INIZIARE”

2015 IF INKEY$=”” THEN GOTO 2015 ‘ASPETTA UN TASTO PER CONTINUARE

2020 CLS  ‘PULISCE LO SCHERMO

2025 PRINT”OCCHIO AL CENTRO DELLO SCHERMO, E TIENITI PRONTO A PREMERE UN TASTO”

2030 T=TIMER  ‘LEGGE IL TEMPO, IN SECONDI DA MEZZANOTTE

2035 RANDOMIZE (T-INT (T/3600))  ‘GENERA IL SEME DEI NUMERI CASUALI

2040 D=3+(7*RND)  ‘STABILISCE UN’ATTESA VARIABILE TRA 3 E 10 SECONDI

2045 TIMER ON   ‘ATTIVA L’OROLOGIO

2050 ON TIMER (D) GOSUB 2070  ‘DOPODICHE’ ESEGUE LA LINEA INDICATA

2055 GOTO 2055   ‘SOSTA INDEFINITA, FINCHE’ PASSA IL TEMPO SCELTO

2070 B=TIMER  ‘LEGGE IL TEMPO DI PARTENZA

2075 LOCATE 12,40  ‘POSIZIONA IL CURSORE AL CENTRO DELLO SCHERMO

2080 PRINT”VAI!”   ‘AVVIA IL GIOCO

2085 IF INKEY$ = “” THEN GOTO 2085  ‘ASPETTA CHE VENGA PREMUTO UN TASTO QUALUNQUE

2090 A=TIMER  ‘LEGGE IL TEMPO QUANDO VIENE PREMUTO IL TASTO

2095 CLS  ‘PULISCE LO SCHERMO

2100 LOCATE 12,30

2105 PRINT”IL TUO TEMPO DI REAZIONE E'”

2110 LOCATE 14,30

2115 IF A-B<.1 THEN PRINT”QUELLO DI UN BARO, O DI UN IMPAZIENTE!”

2120 LOCATE 16,29

2125 PRINT USING “###.#”;(100*(A-B)); ‘SCRIVE IL TEMPO DIFFERENZA

2130 PRINT ” CENTESIMI DI SECONDO”

2135 LOCATE 22,1:PRINT”PREMI UN TASTO PER RIPROVARE”

2140 LOCATE 23,1:PRINT”PREMI Q PER USCIRE DAL GIOCO”

2145 LOCATE 24,1:PRINT”TEMPO DI ATTESA =”;:PRINT USING”#.#”;D;:PRINT” SECONDI”

2150 E$=INKEY$:IF E$=”” THEN GOTO 2150

2157 IF E$=”Q” OR E$=”q” THEN RUN

2158 CLEAR

2160 GOTO 2020

3000 CLS:PRINT “PREMI UN TASTO PER INIZIARE”

3005 IF INKEY$=”” THEN GOTO 3005

3010 T=TIMER:RANDOMIZE (T-INT (T/3600))

3015 S=2+INT(8*RND):TIMER ON

3020 CLS:PRINT”PREMI UN TASTO DOPO “;S;” SECONDI DI SUONO”

3025 ON TIMER (3) GOSUB 3035

3030 GOTO 3030

3035 B=TIMER

3040 BEEP

3045 IF INKEY$ = “” THEN GOTO 3040

3050 A=TIMER

3055 LOCATE 12,30:PRINT”IL TUO TEMPO E'”

3060 LOCATE 14,29

3065 Q=(A-B):PRINT USING “##.###”;Q;:PRINT” SECONDI”

3070 LOCATE 16,30:PRINT”DIFFERENZA =”;:PRINT USING”##.###”;(Q-S);:PRINT” SECONDI”

3075 LOCATE 21,1:PRINT”PREMI UN TASTO PER RIPROVARE”

3080 LOCATE 22,1:PRINT”PREMI Q PER USCIRE”

3085 O$=INKEY$:IF O$=”” THEN GOTO 3085

3090 IF O$=”Q” OR O$ =”q” THEN RUN

3095 CLEAR:GOTO 3010

4000 CLS:PRINT “PREMI UN TASTO PER INIZIARE”

4005 IF INKEY$=”” THEN GOTO 4005

4010 CLS:PRINT”PREMI UN TASTO QUANDO SENTI IL SUONO”

4015 T=TIMER

4020 RANDOMIZE (T-INT (T/3600))

4025 D=3+(7*RND)

4030 TIMER ON

4035 ON TIMER (D) GOSUB 4045

4040 GOTO 4040

4045 B=TIMER

4050 BEEP

4055 ‘LOCATE 12,35:PRINT”VAI!”

4060 IF INKEY$ = “” THEN GOTO 4050

4065 A=TIMER

4070 LOCATE 12,30

4075 PRINT”IL TUO TEMPO DI REAZIONE E'”

4080 LOCATE 14,30

4085 IF A-B<.1 THEN PRINT”QUELLO DI UN BARO, O DI UN IMPAZIENTE!”

4090 LOCATE 16,29

4095 PRINT INT (100*(A-B))” CENTESIMI DI SECONDO”

4100 LOCATE 22,1:PRINT”PREMI UN TASTO PER RIPROVARE”

4105 LOCATE 23,1:PRINT”PREMI Q PER USCIRE”

4110 LOCATE 21,1:PRINT”TEMPO DI ATTESA =”;:PRINT USING”#.#”;D;:PRINT” SECONDI”

4115 Q$=INKEY$:IF Q$=”” THEN GOTO 4115

4120 IF Q$=”Q” OR Q$=”q” THEN RUN

4125 CLEAR:GOTO 4010

5000 CLS:PRINT “PREMI UN TASTO PER INIZIARE”

5005 IF INKEY$=”” THEN GOTO 5005

5010 CLS

5015 PRINT”se la parola SBRIGATI! appare a sinistra premi la virgola, a destra il punto”

5020 D=1:W=0:X=15

5025 TIMER ON

5030 LOCATE 6+W,35

5035 PRINT “TIENITI PRONTO!”:BEEP

5040 ON TIMER (D) GOSUB 5050

5045 GOTO 5045

5050 W=W+1

5055 IF W<4 THEN GOTO 5025

5060 B=TIMER

5065 C=INT (TIMER)

5070 IF (C/2-INT(C/2))>0 THEN X=55

5075 LOCATE 12,X:PRINT”SBRIGATI!”:BEEP

5080 A$=INKEY$:IF LEN (A$)=0 THEN 5080

5085 IF A$<>”.” AND A$<>”,” THEN GOTO 5140

5090 IF A$=”,” AND X=15 THEN GOTO 5110

5095 IF A$=”,” AND X=55 THEN GOTO 5140

5100 IF A$=”.” AND X=55 THEN GOTO 5110

5105 IF A$=”.” AND X=15 THEN GOTO 5140

5110 A=TIMER

5115 LOCATE 14,30

5120 PRINT”IL TUO TEMPO DI REAZIONE DI SCELTA CON PARTENZA IN TEMPO E’:”

5125 PRINT INT (1000*(A-B))” MILLESIMI DI SECONDO”

5130 IF A-B<.1 THEN PRINT”SEI UN BARO, O UN IMPAZIENTE!”

5135 LOCATE 22,1:PRINT”PREMI UN TASTO PER RIPROVARE, Q PER FINIRE”:GOTO 5145

5140 CLS:LOCATE 10,10:PRINT”Hai sbagliato tasto. Premi un tasto e ricomincia! (Q per smettere)”

5145 Q$=INKEY$:IF Q$=”” THEN GOTO 5145

5150 IF Q$=”q” OR Q$=”Q” THEN RUN

5155 CLEAR:GOTO 5010

6000 ‘NOME DEL PROGRAMMA: GARA

6010 CLS:PRINT” TEMPI DI REAZIONE DI DUE GIOCATORI IN GARA TRA LORO”

6020 DX$=”\”:SX$=”<”

6030 PRINT:PRINT” I TASTI DA PREMERE SONO  <  E  \  ”

6040 PRINT:PRINT” SE VUOI CAMBIARLI PREMI P”

6050 PRINT:PRINT” PREMI UN TASTO PER INIZIARE”

6060 I$=INKEY$:IF I$=”” THEN GOTO 6060

6070 IF I$=”p” OR I$=”P” THEN GOSUB 6320

6080 CLS:PRINT:PRINT”TENERSI PRONTI!”

6090 TIMER ON   ‘ATTIVA L’OROLOGIO

6100 RANDOMIZE TIMER

6110 PAUSAVAR=4*RND

6120 PAUSA=PAUSAVAR+2

6130 ON TIMER (PAUSA) GOSUB 6150  ‘DOPODICHE’ ESEGUE LA LINEA INDICATA

6140 GOTO 6140   ‘SOSTA INDEFINITA, FINCHE’ PASSA IL TEMPO SCELTO

6150 TIMER OFF:B=TIMER

6160 LOCATE 12,20:PRINT”PREMI IL TASTO PRECIPITEVOLISSIMEVOLMENTE!!!”

6170 A$=INKEY$:IF A$=”” THEN 6170

6180 IF A$=SX$ THEN P=TIMER:LOCATE 14,10:PRINT”VINCE LA SINISTRA! TEMPO = “;:PRINT USING”####.#”;(P-B)*1000;:PRINT” MILLESIMI DI SECONDO”

6190 IF A$=DX$ THEN P=TIMER:LOCATE 14,10:PRINT”VINCE LA DESTRA! TEMPO = “;:PRINT USING”####.#”;(P-B)*1000;:PRINT” MILLESIMI DI SECONDO”

6200 IF A$<>SX$ AND A$<>DX$ THEN LOCATE 14,10:PRINT”PRIMO TASTO SBAGLIATO!”

6210 B$=INKEY$:IF B$=”” THEN 6210

6220 IF B$=SX$ THEN S=TIMER:LOCATE 16,10:PRINT”SECONDA LA SINISTRA! TEMPO = “;:PRINT USING”####.#”;(S-B)*1000;:PRINT” MILLESIMI DI SECONDO”

6230 IF B$=DX$ THEN S=TIMER:LOCATE 16,10:PRINT”SECONDA LA DESTRA! TEMPO = “;:PRINT USING”####.#”;(S-B)*1000;:PRINT” MILLESIMI DI SECONDO”

6240 IF B$<>SX$ AND B$<>DX$ THEN LOCATE 16,10:PRINT”SECONDO TASTO SBAGLIATO!”

6250 PRINT:PRINT”DIFFERENZA = “;:PRINT USING “####.#”;(S-P)*1000;:PRINT” MILLESIMI”

6260 PRINT:PRINT “ATTESA = “;:PRINT USING “##.##”;PAUSA;:PRINT ” SECONDI”

6270 PRINT:PRINT:PRINT”PREMI Q PER FINIRE, Y PER CONTINUARE”

6280 I$=INKEY$: IF I$=”” THEN GOTO 6280

6290 IF I$=”q” OR I$=”Q” THEN RUN

6300 IF I$=”y” OR I$=”Y” THEN GOTO 6080

6310 GOTO 6280

6320 INPUT”TASTO DI DESTRA (premi ENTER dopo il tasto scelto)”;DX$

6330 INPUT”TASTO DI SINISTRA (premi ENTER dopo il tasto scelto)”;SX$

6340 RETURN

8000 ‘NOME DEL PROGRAMMA: OROLOGIO

8010 CLS:SCREEN 1:KEY OFF:PRINT:PRINT”PREMI UN TASTO QUANDO LE CIFRE”

8020 PRINT:PRINT”DOPO IL PUNTO SEGNANO ‘.000’

8030 TIMER ON

8040 LOCATE 12,15

8050 TEMPO=TIMER

8060 PRINT USING”#####.###”;TEMPO

8070 A$=INKEY$:IF A$<>””THEN GOTO 8090

8080 GOTO 8040

8090 PRINT:PRINT

8100 PRINT”DIFFERENZA = “;

8110 D=TEMPO-INT(TEMPO):CEN=INT(100*(1-D)):CENT=INT(100*(D))

8120 IF D>.5 THEN PRINT USING “##”;100*(1-D);

8130 IF D<=.5 THEN PRINT USING “##”;100*(D);

8140 PRINT ” CENTESIMI DI SECONDO”

8150 PRINT:PRINT

8160 PRINT” Q PER SMETTERE,”:PRINT:PRINT” UN ALTRO TASTO PER RIPETERE”

8170 I$=INKEY$:IF I$=””THEN 8170

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30102 LOCATE 20,40:PRINT “scritto da Giancarlo Toran”

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BIBLIOGRAFIA

Quella che segue è una bibliografia minima, per orientare il lettore interessato ai principali aspetti trattati in questo lavoro. Ho volutamente omesso un buon numero di testi sulla scherma, sulle arti marziali, sullo zen, sulla psicologia e sulla preparazione fisica, che mi sono stati utili per sviluppare altri aspetti della scherma, esclusi da questo lavoro, per non appesantirlo.

 

Bruna Rossi: PROCESSI MENTALI E SPORT. Ed. Scuola dello Sport.

Saibene, Rossi, Cortili: FISIOLOGIA E PSICOLOGIA DEGLI SPORT. Ed. EST Mondadori.

J. Barton Bowyer: LA MERAVIGLIOSA ARTE DELL’INGANNO. Ed. Sugarco.

Karl Von Klausewitz: DELLA GUERRA. Oscar Mondadori.

Edward N. Luttwack: STRATEGIA. Ed. Rizzoli.

Federazione Italiana di Scherma: IL FIORETTO. Ed. Scuola dello Sport.

Federazione Italiana di Scherma: LA SPADA. Ed. Scuola dello Sport.

Federazione Italiana di Scherma: LA SCIABOLA. Ed. Scuola dello Sport.

Renzo Nostini: SCHERMA DI FIORETTO. Ed. Mediterranee.

Kenji Tokitsu: LO ZEN E LA VIA DEL KARATE. Ed. Sugarco.

Miyamoto Musashi: IL LIBRO DEI CINQUE ANELLI. Ed. Mediterranee.

Baron, Byrne, Kantowitz: PSICOLOGIA. Ed. Piccin.

Giovanni Toran: LA SCHERMA PER LA SCUOLA. Edito dal Comitato Regionale Lombardo della FIS.

Giovanni Toran: SCELTA DI TEMPO, VELOCITA’ E MISURA NELLA SCHERMA. Atti del Corso internazionale per tecnici di spada, Roma, 20-28 ottobre 1985.

 

 

 

 

Articoli   Articoli   Articoli

1 – Dove guardare? Come guardare?

2 – La misura nella scherma

3 – La scherma e la scelta del tempo

4 – Le parate francesi ed italiane

5 – Gestire l’assalto di spada

6 – Contrattempi e controtempi

7 – Il cono di protezione

8 – Introduzione alla dimostrazione pratica – stage 4 – 1  1987

9 – Differenze fra le tre armi

10 – Scelta di tempo, velocità e misura nella scherma: differenze nelle tre armi

 

 

 

10 – SCELTA DI TEMPO,VELOCITA’ E MISURA NELLA SCHERMA:

DIFFERENZE NELLE TRE ARMI

 

Relazione tenuta a Roma, al corso internazionale per tecnici di spada (ACNOE, Associazione Comitati Nazionali Olimpici Europei), dal 20 al 28 ottobre 1985.

 

Scopo di questa relazione è l’analisi comparata delle tre armi, spada, sciabola e fioretto, con particolare attenzione alla spada, alla luce del regolamento internazionale.

L’accento sarà posto però non sull’aspetto tecnico della materia (tecnica schermistica, studio delle contrarie, funzionalità del gesto atletico) né su quello tattico (valutazione dell’avversario e della situazione, condotta di gara): la relazione si soffermerà principalmente su ciò che precede l’ideazione e l’esecuzione del gesto schermistico, e ne determina più di ogni altra cosa l’efficacia.

Mi riferisco alla scelta di tempo, la misura e la velocità, da sempre e giustamente ritenute il fondamento della scherma. Non c’è trattato che non sottolinei l’importanza fondamentale di questo trinomio.

Ma, per quel che mi risulta, l’argomento non viene approfondito ulteriormente: forse perché si ritiene che l’affinamento delle doti di tempo-misura, in particolare, avvenga indirettamente ed automaticamente (il che è vero) e nel migliore dei modi (il che non è sempre vero) attraverso la pratica della scherma.

Mi propongo quindi di definire e approfondire i concetti di scelta di tempo, misura e velocità, per poi vedere come questi tre fattori variano nelle tre armi, con particolare riferimento alla spada.

Prima di inoltrarmi nello studio dei tre fattori fondamentali, è opportuno però precisare che la suddivisione, l’isolamento di ognuno di questi fattori è del tutto artificioso: è impossibile parlare di tempo senza fare riferimento allo spazio, ed è priva di significato, ai fini dell’analisi del movimento, l’operazione opposta. D’altra parte, per poter realizzare una sintesi che il più possibile rispecchi la realtà dei fatti, è indispensabile farla precedere da un’analisi che isoli il più possibile i singoli elementi che entrano in gioco.

 

IL TEMPO

Questa parola assomma in sé molti significati che si sovrappongono, generando spesso confusione.

In primo luogo c’è il tempo inteso come durata dell’incontro, fattore che risulta importante soprattutto per le scelte tattiche. C’è poi il tempo inteso come “tempo schermistico”, che il regolamento definisce come tempo necessario per eseguire un’azione semplice: è un tempo soggettivo, che dipende dal livello dei tiratori, dalla convenzione e dalla sensibilità del presidente di giuria, come vedremo nell’analisi delle tre armi.

C’è il tempo di reazione, cioè l’intervallo che passa tra uno stimolo e la reazione: e può essere semplice (tempo di risposta più breve) se c’è un solo stimolo ed una sola risposta possibile, di scelta (tempo di risposta più lungo) se c’è più di uno stimolo e/o più di una risposta.

Infine, e siamo al punto che più ci interessa, c’è la scelta di  tempo, che è una facoltà più complessa che lega fra di loro il tempo di reazione di scelta, come lo abbiamo poc’anzi descritto, con il senso del ritmo.

Molti confondono la scelta di tempo con la prontezza di riflessi, per cui descrivono la prima pressappoco così: la capacità dello schermitore di riconoscere il momento giusto per lanciare il suo colpo, per cui reagiscono con la stoccata (o con la parata, o altro) non appena si accorgono che l’avversario ha compiuto un certo movimento.

Anche per ciò che riguarda la lezione di scherma, si fa generalmente questa distinzione: si definiscono come azioni a propria scelta di tempo (laddove la scelta di tempo non c’entra per niente) quelle eseguite partendo in un momento qualsiasi, magari ad avversario (o maestro) immobile; e si definiscono invece azioni in tempo (quando invece sarebbe più opportuno parlare di riflessi) quelle eseguite quando l’avversario o il maestro cambiano atteggiamento. Per chiarire bene questa differenza (tra riflessi e scelta di tempo) vi propongo un semplice esperimento mentale.

Supponiamo che io vi chieda di chiudere gli occhi e di reagire battendo un colpo sul tavolo quando batto le mani. E’ possibile misurare l’intervallo di tempo che passa tra il mio colpo ed il vostro: può ridursi un poco, aumentando la concentrazione e la motivazione, ma non scenderà mai al di sotto di un certo minimo (qualche decimo di secondo) che è il tempo di reazione semplice per questo tipo di stimolo.

Supponiamo ora che io vi chieda di battere un colpo sul tavolo quando batterò le mani per la quinta volta consecutiva, al termine di una sequenza ad intervalli regolari. Se misuriamo questa volta l’intervallo tra il mio quinto colpo ed il vostro, troviamo che in qualche caso il vostro precede il mio, in qualche caso lo segue, ed in qualche caso coincide con il mio. Con un po’ di allenamento, è possibile ridurre quanto si vuole questo intervallo, cosa impossibile nel caso precedente.

Supponiamo ora che il vostro colpo vada battuto al termine di una mia sequenza irregolare, ma ripetibile: per ottenere da parte vostra un buon risultato, sarà necessario che io ripeta più di una volta la sequenza, per darvi il tempo di assimilarla, cosi come succede con una nuova canzone che si vuole imparare.

Infine, per complicare ulteriormente le cose, potrei inserire questa sequenza, che ormai conoscete, dentro un’altra sequenza sconosciuta o comunque irregolare: per riuscire a “centrare il bersaglio” dovrete prestare molta attenzione, riconoscere rapidamente la sequenza giusta (tempo di reazione di scelta, ma applicato ad una sequenza), sintonizzarvi con essa e intervenire al momento giusto, con perfetta scelta di tempo.

Fondamentali, quindi, perché si possa parlare di scelta di tempo, sono: l’esistenza di una sequenza che si ripete, che abbia cioè un ritmo proprio, ben identificabile; la capacità di assimilare questo ritmo, dopo averlo osservato un certo numero di volte; la possibilità di intervenire esattamente in un certo punto della sequenza insieme allo stimolo, e non dopo un certo tempo di reazione. Osserviamo per esempio un bambino che sta imparando a saltare la corda: questa gira con un suo ritmo, impressole dai due che la reggono. Il bambino, che vuole iniziare a saltare ma ancora non è sicuro del fatto suo, osserva la corda con attenzione, per assimilarne il ritmo. Dopo qualche secondo, lo vedremo oscillare, con la testa e con il corpo, con lo stesso ritmo della corda, come se stesse riproducendo dentro di sé il movimento. Quando si sentirà sicuro, quando sentirà di essere in sintonia con il movimento, solo allora potrà fare il passo avanti per incominciare a saltare.

Nella scherma, le sequenze, i ritmi, che ci interessano sono costituiti essenzialmente da tre cose: l’atteggiamento con il ferro e col corpo, la misura e la velocità.

Ogni schermitore ha un suo stile, cioè un suo modo particolare di combinare questi tre fattori nelle varie azioni schermistiche, e tende a ripetersi: tende cioè a dare alla sua azione un ritmo particolare, identificabile. E perché il suo avversario possa contrastarlo facendo uso della scelta di tempo, deve avere la capacità di riconoscere in fretta questo ritmo, dopo averlo osservato; deve adeguarcisi, così che la sua contraria possa arrivare all’appuntamento col ferro o col bersaglio in perfetto sincronismo con l’azione dell’avversario.

La differenza tra questi ritmi, propri della scherma, e quelli prima esemplificati è principalmente nel fatto che sono più complessi, e quindi più difficili da riconoscere; che sono numerosi, perché variano per molti motivi, anche nel corso dello stesso assalto; che sono inseriti, spesso volutamente, all’interno di altri ritmi che hanno precisamente lo scopo di mascherare quelli significativi; e che possono essere modificati se l’atleta cui appartengono è di alto livello e ne è consapevole. Ma poiché questo processo di riconoscimento e di adattamento si svolge contemporaneamente in entrambi gli avversari, possiamo dire che uno schermitone sarà tanto più abile quanto più sarà capace di comprendere, conoscere i ritmi dell’avversario e, contemporaneamente, capace di impedirgli di comprendere i propri. In questo modo potrà, se e quando vorrà, accordare il proprio ritmo a quello dell’avversario, o rompere questo accordo se è l’altro che lo sta cercando.

La capacità di “rompere” ‘il ritmo dell’avversario, se da un lato ci permette di sottrarci al suo controllo, dall’altro ci apre la strada verso lo sfruttamento delle sue reazioni istintive. Vediamo come.

Un brusco cambiamento di ritmo (cambiamento di atteggiamento col ferro, di velocità, di misura) se siamo abbastanza vicini all’avversario che viene colto di sorpresa (e cioè che non ha ancora avuto modo di sintonizzarsi col vostro movimento, non avendolo potuto prevedere né neutralizzare tenendosi fuori misura) provoca in lui una reazione istintiva che si ripeterà (proprio perché istintiva) al ripetersi della situazione, fino a quando egli non riuscirà a “comprenderla”, a prevederla e controllarla.

Ad esempio, nella spada, una brusca accelerazione in avanti minacciando la gamba, se non prevista, può provocare come reazione istintiva sia l’arresto che la parata. L’aver stabilito che si tratta di una reazione istintiva (che cioè si ripeterà, se imprevista), permetterà al nostro spadista, dopo qualche azione diversiva (che servirà per impedire all’avversario di assimilare con facilità il ritmo di quell’azione), di organizzare un’azione di attacco o di controtempo con ottime probabilità di riuscita.

 

LA MISURA

Dopo aver detto del fattore tempo, affrontiamo ora il fattore spazio.

Tralasciamo lo spazio inteso come terreno e disposizione che, insieme al tempo (durata dell’incontro) è importante soprattutto per fini tattici.

Quel che ora ci interessa è lo spazio inteso come misura, e cioè come distanza tra due avversari che si fronteggiano.

Le tradizionali definizioni della misura (corpo a corpo, stretta misura, d’allungo, da frecciata, marciando, fuori misura) sono utili principalmente nell’insegnamento, quando è necessario ottenere dall’allievo il coordinamento braccio-gambe nel corso di azioni più o meno complesse.

Non sono però sufficienti quando dobbiamo descrivere la realtà dell’assalto, in cui ognuno dei contendenti gradisce una certa distanza e cerca di imporla all’avversario.

Per meglio definire il concetto di misura è quindi opportuno rifarci a quanto realmente avviene nel corso di un assalto.

Poniamo di fronte due avversari di buon livello, che non si conoscono, e ben motivati, cioè entrambi ben decisi a vincere.

Come prima cosa potremo osservare che la distanza fra loro all’inizio dell’assalto sarà maggiore che in seguito: all’inizio ognuno dei due cercherà di valutare bene le caratteristiche dell’altro, e lo provocherà a reagire, tenendosi però a distanza di sicurezza. Cosa vuol dire “distanza di sicurezza”?

Vuol dire una distanza abbastanza lunga da permettere di arretrare, di portarsi fuori dal raggio di azione efficace dell’altro; ma, nello stesso tempo, una distanza non troppo grande, così da poter tenere l’altro sotto la minaccia realistica del proprio raggio d’azione efficace.

Ai di là di questa distanza, ogni azione di scandaglio perde di credibilità, perché non viene intesa dall’avversario come il possibile inizio di una azione efficace.

Dopo un tempo più o meno lungo, la valutazione dell’avversario e del suo raggio di azione efficace si fa più precisa.

La distanza tra i due si fa più corta, ed assisteremo al confronto sul piano della misura che si svolgerà in questo modo: chi ha il raggio più lungo cercherà di tenersi al di fuori del raggio di azione dell’avversario, ma all’interno del proprio.

L’altro, invece, per non essere costantemente in pericolo, alternerà momenti di pausa, in cui si porterà, se possibile, al di fuori di entrambi i raggi di azione; e momenti di pressione, in cui cercherà di portare l’avversario all’interno del proprio raggio di azione, superando il più rapidamente possibile il tratto che rappresenta pericolo solo per lui.

 

—————————————————>                            <——————————–

Raggio d’azione efficace di A                                            Raggio d’azione efficace di B

 

 

Zona di pericolo per entrambi

A———————————-|—————–>| Zona di sicurezza per entrambi

<——————————–B

Zona in cui A cercherà di confinare B

 

Naturalmente, per ottenere questo, B dovrà fare buon uso di tutti i possibili accorgimenti tattici: ad esempio, variazioni improvvise del proprio ritmo; tenere l’avversario in fondo alla pedana; partire quando l’avversario avanza; e così via.

Quindi per poter meglio condurre o descrivere o comprendere un assalto, è necessario saper valutare il raggio d’azione dei due avversari.

Per raggio d’azione efficace di uno schermitore intendiamo la distanza entro la quale chi attacca è in grado di partire per un colpo efficace (che arrivi cioè sul bersaglio, o che costringa l’avversario a parare o schivare o contrattaccare) senza che l’avversario possa retrocedere a sufficienza.

Appare subito chiaro, alla luce di quanto detto, che il raggio di azione efficace dipende sia dalla valutazione delle nostre capacità sia dalla corretta valutazione delle capacità dell’avversario, cioè dei suoi ritmi.

D’ora in poi, quindi, diremo che uno schermitore è “entrato in  misura” quando ha portato l’avversario all’interno del suo raggio d’azione efficace.

Chiameremo invece “controllo della misura” la capacità di tenere l’avversario il più precisamente possibile ad una certa distanza prefissata, che è in stretta relazione con il suo ed il nostro raggio d’azione efficace.

 

LA VELOCITA’

Dei tre fattori presi in esame, la velocità è ritenuta la meno importante e la più facile da trattare.

Da un punto di vista fisico la velocità è definita come lo spazio percorso nell’unità di tempo.

Questo spazio è tanto maggiore quanto migliori sono le doti di potenza muscolare e coordinazione dell’atleta, fattori facilmente migliorabili con un lavoro appropriato.

Da un punto di vista schermistico, però, questi fattori non sono sufficienti.

Come abbiamo visto parlando della scelta di tempo, lo schermitore lavora intensamente nel tentativo di adeguarsi ai ritmi (atteggiamento, velocità, misura) dell’avversario, ed avrà maggiori difficoltà se questi ritmi sono mutevoli e non si ripetono spesso.

Più importante quindi della velocità, è la capacità di cambiarla. Le variazioni di velocità, quindi, sia in senso positivo (aumento) sia in senso negativo (diminuzione) sono più importanti (e meno dispendiose) della capacità di tenere un ritmo elevato ma costante dall’inizio alla fine.

La massima velocità è richiesta solo in caso di certe azioni semplici o di reazioni istintive, riflesse; oppure nel movimento finale di un’azione complessa.

In più, come è facile dimostrare con semplici esercizi, ad esempio studiando la botta dritta, più che la velocità è importante la capacità di non “telefonare” l’inizio del movimento all’avversario contraendo muscoli non necessari.

Un lavoro di preparazione efficace tenderà quindi ad ottenere un maggior affinamento del gesto atletico (più che una maggiore potenza, che può essere poi aggiunta facilmente); ed un addestramento alle variazioni di ritmo, con rapidi passaggi dal lento al veloce e viceversa.

Questo lavoro tornerà utilissimo (più che la capacità di raggiungere la velocità più alta in assoluto) proprio per riuscire più facilmente ad entrare in misura, malgrado l’attento controllo dell’avversario.

 

DIFFERENZE FRA LE TRE ARMI

Proviamo ora a trasferire questi concetti nella pratica delle tre armi, per vedere come le differenze stabilite dal regolamento influiscono e determinano, in varia misura, il tempo, lo spazio e quindi la velocità.

Le principali differenze fra le tre armi sono relative al bersaglio da colpire, al modo di colpire, ed alla convenzione.

 

DIFFERENZE RELATIVE AL TEMPO

La convenzione accomuna fioretto e sciabola, per cui vale le definizione di “tempo schermistico” (tempo di esecuzione di un’azione semplice), e differenzia la spada, per cui l’unico tempo significativo è il 20°/25° di secondo, oltre il quale non si può più registrare il colpo doppio.

Il concetto di “tempo schermistico”, così come stabilito dal regolamento, si presta in effetti a interpretazioni ambigue: nessuno è in grado di quantificarlo, per cui, in definitiva, dipende dalla sensibilità del presidente di giuria, dalla sua interpretazione della scherma, cui gli schermitori dovranno, nel loro interesse, adeguarsi rapidamente.

Comunque, indipendentemente da questo fatto, è possibile ed e anzi normale, nelle armi convenzionali, aggiudicarsi una stoccata anche se il proprio colpo arriva insieme o un poco dopo quello dell’avversario.

Ciò non è possibile nelle spada, dove i margini di tempo sono fissati al di sotto della metà di un decimo di secondo.

Questo tempo è notevolmente più piccolo del tempo di reazione semplice prima definito, che è di circa due decimi di secondo.

Lo spadista, quindi, deve essere in grado di percepire il tempo con maggiore sensibilità del fiorettista o dello sciabolatore. Un esempio può meglio evidenziare questo fatto.

Nella sciabola, una battuta sul ferro seguita da una sciabolata alla testa diretta, può essere anticipata (come fatto puramente cronometrico), da un tempo al braccio.

Ma, in questo caso, il presidente di giuria assegnerà il punto all’attaccante, anche se la sua stoccata è giunta dopo.

Nella spada, invece, un attacco di battuta e colpo al petto può essere preceduto sia come fatto cronometrico, sia agli effetti del punteggio, da una angolazione al braccio che anticipi l’attacco di un solo ventesimo di secondo.

Lo spadista è giustamente più incline al contrattacco che alla difesa, perché anche la risposta, dopo la parata, può facilmente essere preceduta, in assenza di convenzione, da una rimessa.

Ne segue che lo spadista ha la necessità di allenarsi a percepire il tempo meglio dello sciabolatore (e del fiorettista): e che non si tratti di prontezza di riflessi, ma di “tempismo”, nel senso di maggior scelta di tempo, come definita prima, lo dimostra il fatto che l’intervallo di tempo utile (il 20°/25° di secondo) è molto più piccolo del tempo di reazione semplice.

 

DIFFERENZE RELATIVE ALLA MISURA

Le differenze nella misura per le tre armi (differenze relative alla difficoltà di “entrare in misura” o di conservare il “controllo” della misura, come definiti in precedenza) sono legate alla differenza di bersaglio ed al modo di colpire, stabiliti dal regolamento.

Nella spada e nella sciabola abbiamo una maggiore estensione del bersaglio, come ampiezza, ma soprattutto come profondità (bersagli avanzati); nella spada e nel fioretto abbiamo una maggiore difficoltà a colpire per la necessità di colpire di punta, con la giusta pressione.

E la difficoltà è maggiore per la spada, proprio per l’esistenza di bersagli piccoli e coperti, che richiedono l’uso di angolazioni e altre tecniche di notevole difficoltà.

Quindi; nella sciabola, abbiamo una maggiore libertà in attacco, per la facilità con cui è possibile colpire, una volta entrati in misura, ed una maggiore difficoltà in difesa, per gli stessi motivi.

La prima preoccupazione per lo sciabolatore sarà quindi, più che per gli altri, quella di tenersi al di fuori del raggio d’azione dell’avversario.

Misura più lunga, quindi, e attenzione rivolta principalmente al problema tattico di entrare ed uscire dalla misura.

Per lo spadista, il discorso si capovolge: maggiore difficoltà a portare i colpi, maggiore estensione del bersaglio, posto a varie profondità, e assenza della convenzione che favorisce chi prende l’iniziativa dell’attacco.

Lo spadista entra più facilmente in misura, perché più facilmente l’avversario glielo consente: una volta entrato in misura deve ancora superare tutte le difficoltà tecniche legate al tipo di colpo che deve portare (quale bersaglio colpire; colpo di punta con la giusta pressione; copertura contro il colpo doppio); non può permettersi di arrivare in ritardo anche lieve sul contrattacco dell’avversario.

Quindi lo spadista combatterà normalmente ad una misura più breve rispetto allo sciabolatore: la sua maggiore preoccupazione è il controllo della misura.

Infatti pochi centimetri di precedenza (polso, piede, avambraccio, piega del gomito, braccio, maschera, spalla, petto) possono determinare la stoccata.

Inoltre, ogni spadista ha spesso nel suo bagaglio di colpi efficaci solo alcuni di questi bersagli, e dovrà quindi ricercare una misura adatta a questi colpi che, facilmente, non è la stessa distanza ricercata dall’avversario.

Relativamente al fioretto la misura dello spadista è generalmente più lunga, almeno all’inizio dell’incontro: ma, una volta precisata la valutazione dell’avversario e dei bersagli utili, può accadere che la misura si accorci di molto, più che nel fioretto, che per la convenzione si avvicina alle esigenze tattiche della sciabola.

 

DIFFERENZE RELATIVE ALLA VELOCITA’

Come abbiamo visto trattando il tempo e la misura, la convenzione e la facilità di colpire fanno sì che la distanza tra due sciabolatori sia molto grande.

Al diminuire di questa distanza, aumenta grandemente la velocità, che raggiunge il massimo quando i due sciabolatori sono “in misura”.

Nel vivo del combattimento, dunque, gli sciabolatori sono quelli con velocità maggiore, e per più lunghi tratti: sono tutt’altro che rare, nella sciabola, le lunghe rincorse attraverso tutta la pedana.

Lo spadista, invece, si trova ad una misura più ravvicinata, ed appare generalmente più statico e meno veloce: quel che a lui occorre, per rompere il controllo dell’avversario o per provocare le sue reazioni istintive, è la capacità di cambiare velocità.

Brusche accelerazioni, ma di breve durata, sono caratteristiche tipiche dello spadista esperto.

Il fiorettista, per evidenti motivi, è ad una via di mezzo: più veloce dello spadista, ma più lento dello sciabolatore; è capace invece di cambiare il ritmo sulle brevi distanze più dello sciabolatore, ma meno dello spadista.

 

CONCLUSIONE

In una panoramica generale, potremmo quindi definire la sciabola come l’arma che richiede in maggior quantità doti tattiche, velocità di fondo e, anche per il rapporto che si stabilisce con le giurie, carattere estroverso.

La spada, invece, richiede in maggior grado doti tecniche (controllo, precisione), tempismo e capacità di accelerazione.

Il fioretto è nel mezzo, e si avvicina alla sciabola per la convenzione, alla spada per il modo di colpire.

Per un insegnamento efficace, occorre poter selezionare in partenza, sulla base delle caratteristiche necessarie, descritte sopra, le attitudini dell’allievo, per poterlo indirizzare verso l’arma a lui più congeniale.

Successivamente, occorre puntare allo sviluppo di quelle caratteristiche che più sono determinanti nell’arma scelta.

Perché ciò sia possibile, è necessario che concetti come scelta di tempo, velocità, misura (sintetizzate mirabilmente nella scherma intesa come “arte”) possano scendere, grazie ad un’analisi più accurata, sul piano della “scienza”, per essere più facilmente compresi ed utilizzati.

Se, con questo mio lavoro, riuscirò anche di poco ad avvicinarmi a questo obiettivo, avrò raggiunto lo scopo che mi ero prefisso.

 

 

9 – DIFFERENZE FRA LE TRE ARMI

di Giancarlo Toràn

La Stoccata, agosto settembre 1980

 

Tutti concordano, credo, sul fatto che spada, sciabola e fioretto sono armi che differiscono tra di loro ben più di quanto se ne possa dedurre leggendo il regolamento. Le opinioni divergono moltissimo, però, quando si tenta di precisare meglio, e praticamente, l’argomento. Tenterò quindi di farlo, dal mio punto di vista, utilizzando sia i dati teorici che il frutto della osservazione e della esperienza personale. Una prima importante differenza tra la spada, da una parte, e il fioretto e la sciabola, dall’altra, è che la prima è un’arma non convenzionale. Questo vuoi dire, sostanzialmente, che, in caso di colpo doppio, il presidente di giuria non dovrà preoccuparsi di stabilire chi ha ragione e chi ha torto; o, nel caso non possa stabilirlo, non dovrà annullare le stoccate, ma dovrà invece assegnarle entrambe. Questo fatto comporta notevoli conseguenze sul piana tattico e sul piano tecnico. Soffermiamoci un po’ su quest’ultimo aspetto, riservandoci di tornare in seguito sul primo. Le azioni sul ferro, e cioè quelle precedute da battute e legamenti, i fili, i fili preceduti da trasporti, devono, nella spada, garantirci da possibili colpi dell’avversario che arrivino prima o insieme al nostro colpo. Ciò non è affatto facile, e si impone quindi allo spadista una padronanza della tecnica, in questo tipo di azioni, maggiore di quella necessaria al fiorettista e allo sciabolatore, tenuto conto anche del fatto che il tempo di registrazione delle stoccate, per la spada, è più piccolo della metà di un decimo di secondo: se lo spadista batte e tira mentre il suo avversario rimane in linea, può quindi capitargli di non riuscire neanche a realizzare un colpo doppio, con la stessa azione che al fiorettista o allo sciabolatore avrebbe fruttato una stoccata a favore. Una seconda suddivisione si può fare in base alla difficoltà nel portare i vari colpi. La possibilità di colpire di taglio e di controtaglio, oltre che di punta, dà allo sciabolatore in fase offensiva una libertà maggiore, non dovendosi egli preoccupare se la sua sciabolata arriverà coi gradi deboli o medi o forti, o, addirittura, data l’impossibilità del presidente di giuria di stabilirlo, se arriverà col taglio o di piatto. Sul versante opposto c’è la spada, che impone non solo il colpo esclusivamente di punta, come nel fioretto, ma anche il colpo di punta a bersagli piccoli, come il piede, o piccoli e coperti, come nelle angolazioni al polso. E dal momento che nella spada esistono bersagli avanzati e a diverse profondità, che richiedono colpi portati con tecniche differenti, si impone allo spadista anche un maggior controllo della misura, che è una cosa ben diversa dalla capacità di entrare in misura, come l’ho definita in un precedente articolo. Cercherò di spiegarmi con un esempio. Supponiamo che il nostro spadista sia in linea con la punta che minaccia il polso de1 suo avversario, che è sull’invito di seconda. L’avversario è intenzionato a prendere il ferro in terza per effettuare il filo al petto, ed il nostro spadista lo ha capito: gli dà quindi intenzionalmente la misura più corta per invitarlo a partire. Ma quale sarà la sua contraria, volendo evitare il colpo doppio? Se si sente molto più veloce del suo avversario, può tentare l’angolazione sotto, proprio nel polso, sciogliendo subito dopo la misura. Se l’avversario è un po’ più veloce, potrà tentare di angolare, dopo la cavazione in tempo, nella piega del gomito, dall’alto. Per un avversario ancora più veloce potrebbe tentare una cavazione in tempo seguita da contrazione sulla linea interna, alla spalla o alla maschera. Sapendo invece di non essere abbastanza veloce per eludere la presa di ferro e sciogliere la misura, potrebbe cedere in prima per poi rispondere. Sono solo alcune delle possibilità, certa mente, ma il fatto importante è che al nostro spadista un errore nella valutazione della velocità dell’avversario, e quindi della distanza a cui verrà a trovarsi nel corso dell’azione, può costare molto di più che allo sciabolatore e al fiorettista; è più facile per lui entrare in misura, perché più facilmente il suo avversario glielo consente; è più difficile controllarla nelle sue minime ma significative variazioni.

Se consideriamo ora la difficoltà nell’organizzare la difesa, in particolare modo le parate, vediamo che il quadro precedente si capovolge. E’ indubbiamente lo sciabolatore quello che ha più problemi, proprio perché è più facile per il suo avversario colpirlo, una volta entrato in misura, per i motivi detti in precedenza. E, come è logico, dal lato opposto c’è lo spadista, che può contare su un gioco molto più lineare dell’arma del suo avversario; quel che preoccupa lo spadista è non tanto la parata quanto la risposta, dovendosi preoccupare più degli altri di eventuali rimesse che possono raggiungerlo prima o insieme al suo colpo. E’ per questo motivo che lo spadista è portato più degli altri a fare uso dei colpi d’arresto, o comunque delle uscite in tempo, sugli attacchi dell’avversario, anziché delle parate. Minore difficoltà in attacco porta come conseguenza maggior velocità in pedana: gli sciabolatori sono quelli che si muovono di più, e gli spadisti quelli che si muovono di meno, provocando a volte il disappunto del pubblico i primi per le corse spesso scomposte, i secondi per la noiosità di certi assalti. Date queste differenze, ne viene che lo sciabolatore, avendo difficoltà maggiori nell’organizzare la difesa, dovrà preoccuparsi molto di più di evitare che l’avversario entri in misura, a meno che non sappia già con certezza che contraria applicare. E difatti la misura nella sciabola è molto più lunga che nelle altre armi. Inoltre, poiché nella sciabola è più facile attaccare che difendersi, colui che subisce l’attacco, non potendo arretrare all’infinito, dovrà prima o poi accettare la misura ravvicinata impostagli dall’avversario. E poiché sarebbe per lui estremamente svantaggioso lasciargli l’iniziativa, sarà costretto a difendersi attaccando a sua volta, provocando così quei tempi comuni così frequenti negli incontri di sciabola. Da qui lo sviluppo delle tattiche applicabili nei tempi comuni, che lo sciabolatore più degli altri deve conoscere e saper utilizzare. Con l’introduzione della monetina e delle priorità, la sciabola si è, in un punto, avvicinata alla spada: chi è in vantaggio ha interesse a provocare tempi comuni, perché il calcolo delle probabilità gli è favorevole. Quando però il livello dei contendenti è alto, ed entrambi sono quindi molto abili non solo in fase offensiva ma anche in fase difensiva e controffensiva, i tempi comuni diminuiscono, e il gioco si sposta prevalentemente sul piano della misura e quindi sul piano dei cambiamenti del ritmo dell’ azione, che favoriscono l’errore dell’avversario. Il nostro Michele Maffei è, a mio avviso, bravissimo proprio in questo; e da questa sua abilità, più che da perfezione tecnica o potenza atletica, derivano la sua scioltezza in pedana e i suoi successi. Ho parlato poco del fioretto, sinora, perché è questa un’arma che sta nel mezzo. Più difficile tecnicamente della sciabola, ma meno della spada; più varia, come gioco di misura, della spada, ma meno della sciabola. Un tempo più simile alla spada e quindi più statica, più complessa nella tecnica, va via via accostandosi alla sciabola, acquista ritmo, movimento, e si semplifica nelle azioni. Resta ancora l’arma di base, da cui si può partire per apprendere la spada o la sciabola, anche se le sue maggiori affinità le ha oggi con la sciabola, a mio parere. Vorrei chiarire meglio un punto: quando dico che la sciabola è arma tattica, mentre la spada è arma tecnica, non voglio certo dire che la tattica è estranea allo spadista, o la tecnica è estranea allo sciabolatore. Voglio dire che un errore tecnico (ad esempio una sciabolata portata male) ha per lo sciabolatore conseguenze meno gravi che per lo spadista; e che un errore tattico, d’altra parte, è meno grave per lo spadista, perché il suo avversario, che per esempio è riuscito ad entrare all’improvviso in misura, dovrà ancora superare, a questo punto, la difficoltà tecnica legata al tipo di colpo che vuole portare (quale bersaglio; colpo di punta con la giusta pressione; copertura contro il colpo doppio). Una controprova la si ha nel fatto che è facile nella spada, e difficile nella sciabola, trova re schermidori che raggiungono buoni livelli agonistici senza essere in possesso di un ampio bagaglio tecnico. Uno spadista in possesso di due, tre colpi efficaci e magari non ortodossi, cioè insoliti da vedere, può andare molto avanti perché il suo avversario non è capace di trovare la contraria giusta, o, avendola trovata, non è addestrato a portare quel colpo in modo efficace. Ed ecco infatti il nostro spadista, capace di mettere in difficoltà con quei suoi colpi fior di campioni, crollare magari davanti ad uno sprovveduto che però è capace di neutralizzare quei colpi. Concludo cercando di rispondere ad una domanda che si sente spesso: qual è l’arma più difficile?

Abbiamo visto che ogni arma ha caratteristiche diverse, e se per esempio la sciabola è arma difficile sul piano tattico, la spada lo è su quello tecnico, partecipando il fioretto alle difficoltà di entrambe. Ma non si può rispondere partendo da qui: non siamo di fronte ad un quiz con la sua soluzione, ma ad atleti di fronte ad avversari e il problema, che non può mai considerarsi definitivamente risolto, aumenta di difficoltà con l’aumentare dell’abilità dell’avversario. Si può cercare una risposta affidandosi ai dati statistici; e questo mi porta a dire che, ancora una volta, è il fioretto che sta nel mezzo: la spada ha il maggior numero di concorrenti, e maggiore è il numero dei Paesi che partecipano alle competizioni; ma è più facile nella spada vedere l’exploit di un atleta poco conosciuto che si porta ai vertici. Viceversa, nella sciabola è più facile restare ai vertici, una volta raggiunta la cima, ma è molto più difficile la scalata al successo. A questo stato di cose contribuisce in modo determinante il tipo di giuria, e il rapporto che si stabilisce tra giuria e atleta, scarso nella spada, importante nella sciabola; da cui il carattere estroverso prevalente fra gli sciabolatori, contro il carattere generalmente più chiuso e introverso degli spadisti.

 

 

8 – INTRODUZIONE ALLA DIMOSTRAZIONE PRATICA DEL MAESTRO GIANCARLO TORAN

FIUGGI – STAGE DI SPADA DELL’AIMS – 04/01/1987.

 

Come prima cosa vorrei ringraziare voi tutti per la vostra presenza e per la vostra attenzione, e l’Aims per l’opportunità che mi ha dato di esporre qualche mia idea sulla spada, arma forse un po’ trascurata nel passato recente, ma ora decisamente in rialzo, grazie ai buoni risultati degli atleti azzurri negli ultimi anni.

Parlare di tecnica schermistica ad altri tecnici non è facile, ma è sicuramente utile, in mancanza di quelle “scuole” di scherma che hanno caratterizzato i primi decenni di storia della scherma sportiva italiana.

Oggi esistono ottimi maestri, ma non esistono scuole. Perciò è importante precisare una volta per tutte che quanto dirò è solo un’opinione personale, che deriva da un’esperienza di molti anni prima come atleta, poi come insegnante all’interno di una società, poi come allenatore in raduni collegiali degli azzurri e degli azzurrini in varie occasioni, infine come curioso che cerca di capire sempre di più come funziona questo affascinante gioco che è la scherma.

Ho detto scherma, e non spada, perché il mio interesse va in ugual misura alle tre armi, ed anche ad altre discipline che hanno alla base molti punti in comune con la nostra.

Un’introduzione come questa è necessaria per inquadrare quanto di pratico faremo in seguito ma è, per forza di cose, molto sommaria. Mi affido alle domande che vorrete farmi per meglio precisare i concetti che ora posso solo sfiorare.

Da esperienze precedenti (mi riferisco in particolare allo Stage europeo di Roma sulla spada di circa un anno fa) ho imparate che la teoria può essere molto noiosa. Chi assiste a raduni come questo vuole vedere, più che sentire, Meglio ancora sarebbe se potesse fare, oltre che vedere. Il relatore potrebbe quindi sentirsi tentato di preparare una esibizione ad effetto, bella da vedersi ma poco utile per chi cerca di trarne qualche spunto per il proprio lavoro quotidiano .

Più fruttuoso quindi credo che sia il tentativo di introdurre in teoria, prima degli esempi pratici, un’analisi della spada nei suoi temi fondamentali, ed un’analisi della lezione di scherma.

 

LA SPADA

 

Riassumo in breve quanto ho già pubblicato sull’argomento in due miei lavori precedenti: un articolo sulla differenza fra le tre armi, ed un fascicoletto su tempo, misura e velocità per lo stage sulla spada dell’ACNOE.

Saltando direttamente alle conclusioni, lo spadista ha maggiori doti di controllo rispetto al fiorettista ed allo sciabolatore (per controllo intendo la capacità di uniformarsi ai cambiamenti di ritmo dell’avversario mantenendo con precisione la misura entro i limiti voluti.

Non avendo una convenzione da rispettare, lo spadista è anche necessariamente un buon tempista. La difficoltà tecnica per la gran varietà di colpi possibili (in attacco come in difesa, ai bersagli avanzati come al bersaglio grosso, con la necessità costante della copertura del proprio bersaglio anche quando si offende, non avendo l’aiuto della convenzione) determina un’esaltazione delle doti tecniche a scapito di quelle tattiche.

I movimenti dello spadista, più controllati, portano alla necessità di scatti più veloci ma in spazi più brevi.

Le stesse difficoltà tecniche di cui parlavo prima portano ad una maggiore difficoltà nell’insegnamento della misura e del tempo.

 

LA LEZIONE

 

Si dice “la” lezione di scherma, ma sarebbe meglio dire “le” lezioni. Ci sono vari tipi di lezione, e l’allenatore dovrebbe avere ben chiaro in mente quale tipo di lezione vuol dare ad un certo tipo di allievo: altrimenti si finisce col fare eseguire solo una serie di esercizi meccanici che sono faticosi ma poco utili.

E’ bene che anche l’allievo sappia a cosa gli serve quel che sta facendo .

 

Individuo tre tipi di lezione: quella tecnica, quella tattica e quella allenante. Ogni lezione è centrata prevalentemente su uno di questi aspetti, pur comprendendoli tutti .

Il rapporto maestro-allievo non si esaurisce qui, naturalmente, ma non è il caso di andare troppo fuori tema.

Per lezione tecnica intendo quella che si sofferma principalmente sulla precisione dei gesti, sulla meccanica e sulla coordinazione braccio – gambe.

La lezione tattica trasferisce le abilità acquisite con la lezione tecnica sul piano della realtà dell’assalto: studio delle contrarie, del tempo e della misura, della situazione.

La lezione allenante ripropone alcuni temi ad una velocità molto alta, offrendo all’allievo varie alternative fra cui decidere in tempi brevi, curando soprattutto la quantità del lavoro svolto.

Si potrebbe ancora dir molto sull’argomento; spero che le vostre domande me ne diano l’occasione. Ora qui vorrei ancora sottolineare due punti.

Il primo è l’importanza di una attrezzatura adeguata. Quella fornita dai produttori di materiale schermistico è insufficiente. Ognuno dovrebbe migliorarla da sé, ma è difficile trasformarsi in artigiani: ci vuole tempo e voglia, Comunque è importante essere ben protetti in tutti i bersagli utili, o si finisce per limitare l’arco delle azioni proposte, per non farsi male.

Il secondo punto riguarda un aspetto dell’insegnamento spesso trascurato. La struttura psicologica di ogni allievo differisce da quella degli altri e l’insegnamento deve adeguarsi per essere efficace. Alcuni allievi vogliono soprattutto sapere il “perché” di ogni cosa che devono fare, altrimenti non rendono come potrebbero. Altri vogliono sapere solo “cosa” devono fare, e le spiegazioni sono un di più spesso addirittura nocivo. I primi vogliono un insegnamento “analitico”, con molte spiegazioni, mentre i secondi vogliono un insegnamento “formale”. I primi vogliono principalmente “capire”, i secondi vogliono “fare”, e si può risparmiare molta fatica comprendendo ed assecondando le loro attitudini.

Per semplificare parleremo di ciò che differenzia la spada dalle altre armi, trascurando ciò che ha in comune con esse.

La tecnica delle gambe ci porta ad una cura maggiore dei dettaglio, con passi più piccoli e controllati. Attacchi con più di un passo che precede l’affondo sono per la spada controproducenti ed è anzi opportuno anche limitare gli attacchi marciando sostituendoli spesso con la frecciata.

L’affondo deve essere più equilibrato (posizione del piede più arretrata rispetto al ginocchio) e deve permetterci di continuare l’azione in avanti o tornando indietro.

Per azioni al bersaglio avanzato è opportuno utilizzare il mezzo affondo, che è poi un affondo corto, che ci permette più agevoli rientri o continuazioni.

Anche la riunita è un movimento da coltivare, anche se da alcuni ritenuto superato; credo che sia ancora molto utile se non porta ad irrigidimenti statici, come vedremo meglio in pratica.

La coordinazione braccio-gambe richiede particolare cura, sia per le maggiori esigenze di controllo dello spadista, sia per la necessità della precedenza della punta. In più ci sono particolari esigenze sconosciute alle altre armi, che richiedono un esercizio specifico: arrestare tornando in guardia o parare lanciando l’affondo sono necessità sconosciute ai non spadisti.

La tecnica del pugno, la cosiddetta meccanica, si differenzia nello spadista soprattutto per la necessità di coprire il proprio bersaglio mentre si cerca di colpire quello dell’avversario. E’ quindi importante assimilare bene concetti come opposizione, angolazione, contrazione, cono di protezione, che permettono di attaccare difendendosi e difendersi contrattaccando.

Il cono di protezione è un concetto geometrico che ci aiuta a comprendere il perché di tanti colpi andati a vuoto, quando non si tratta di errori di misura. Il bersaglio coperto dalla coccia dell’avversario è tutto quello che si trova all’interno di un cono immaginario che ha per vertice il centro della nostra coccia (il punto da cui parte la lama), e lunghezza indefinita passando per il bordo della sua coccia. Questo cono diventa quindi più ampio all’avvicinarsi delle due cocce, e va considerato nell’attimo in cui il colpo dovrebbe arrivare sul bersaglio. Qualche figura e degli esempi pratici possono illustrare meglio il concetto.

E’ possibile comunque scavalcare in parte questo cono immaginario con i colpi cosiddetti di fuetto che sfruttano l’elasticità della lama: colpi di non facile esecuzione, rischiosi anche per chi li esegue.

Un altro problema specifico per lo spadista è il lavoro sul ferro. La convenzione non lo aiuta, perciò una battuta deve essere efficace, un filo deve garantirlo fino in fondo, la sensibilità deve essere sviluppata al massimo per svincoli, cedute, parate di tasto o di picco, trasporti e così via.

 

LA TATTICA

 

Questo è un argomento così vasto che si rischia di naufragare, o di abbandonare l’allievo al suo estro, alla sua intelligenza. E’ forse il lato più difficile dell’insegnamento.

Come ho già precisato prima, dote fondamentale dello spadista è il controllo, la capacità cioè di tenersi ad una distanza molto precisa dall’avversario, seguendo e prevedendo i suoi cambiamenti di ritmo. Lo spadista può impostare interi assalti su questo tema, sfruttando gli inevitabili errori di avversari meno avveduti. Chi controlla è in grado di portare colpi efficaci al bersaglio avanzato mantenendo una buona copertura al proprio. Gradisce una misura leggermente più lunga e la controlla molto attentamente: infatti è proprio nel tentativo di colmare questo spazio che l’avversario compie gli errori decisivi. E’, in genere, questo del controllo, un atteggiamento tattico preferito dagli schermitori alti, capaci di portare colpi efficaci ad una distanza maggiore. E’ più agevole condurre il gioco (sia per il “controllore”, sia per il “controllato”) quando l’avversario “dà il ferro”; quando cioè ha un’impostazione di tipo classico, col braccio in avanti: impostazione tipica di chi usa la spada anatomica. Chi usa il manico liscio tende invece a non dare il ferro, a condurre un gioco più volante, e ciò crea gravi difficoltà a chi non è abituato a lavorare prevalentemente sul tempo e sulla misura.

 

Tempo e misura sono fondamentali per tutte le armi, ma per la spada vanno trattati con precisione maggiore. Per scelta di tempo si può intendere la capacità di “sintonizzarsi” col movimento dell’avversario, così da prevedere ciò che farà in determinati momenti e reagire “prima di vedere”, in perfetto sincronismo col suo movimento. Oppure si può intendere la capacità di reagire con immediatezza nell’attimo in cui sì presenta la situazione favorevole, dovuta ad un errore, o ad un calo dell’attenzione dell’avversario. In entrambi i casi appare evidente l’importanza del controllo della misura, premessa necessaria perché si possa agire in tempo quando si presenta l’occasione favorevole. Controllo della misura quindi non significa semplicemente mantenersi fuori misura, ma ad una precisa distanza che ci permetta di “rientrare” in misura col minimo sforzo.

 

Diceva prima di situazioni favorevoli dovute ad un calo dell’attenzione dell’avversario. E’ un punto molto importante. L’attenzione non è al massimo per tutta la durata dell’incontro: ha oscillazioni notevoli. Lunghi periodi di tensione vengono seguiti da una fase di riposo. Un forte sforzo di concentrazione, come quello che accompagna la fase finale di un attacco che “deve” toccare, è seguito inevitabilmente da una pausa, da un forte calo, estremamente favorevole all’avversario che prende l’iniziativa in quel momento. Quando, parlando di controtempo e seconda intenzione, ne diamo una definizione meccanica, quella dei trattati, ne cogliamo solo l’aspetto meno importante. Perché queste azioni siano efficaci, vanno fatte sfruttando la pausa nell’attenzione di cui parlavo prima. Questo è particolarmente importante per la spada, e vorrei chiarire con un esempio. Se tento un controtempo, inducendo l’avversario all’uscita in tempo sul mio attacco, la mia parata può essere resa inutile dalla rimessa dell’avversario che precede la mia risposta. Questa rimessa sarà possibile però solo se chi la effettua non ha dato tutto nel primo colpo, nell’uscita in tempo: in caso contrario, il livello di attenzione dopo il colpo parato, ma che “doveva” toccare, sarà cosi basso da impedire una continuazione naturale e immediata con la rimessa.

La seconda intenzione, quindi, nella spada ma anche nelle altre armi, va cercata ed ha significato solo se applicata al tempo ed alla misura: attacchi propri o dell’avversario che vengono utilizzati non allo scopo di toccare, ma per preparare le condizioni (di misura e psicologiche) necessario per lanciare l’azione “vera”, quella destinata a toccare.

 

Solo quando questi punti sono chiari risulta facile ed efficace l’insegnamento dei temi tattici fondamentali della spada: attacco-arresto; attacco-rimessa; attacco al bersaglio avanzato seguito da attacco al corpo; il colpo doppio; il controtempo, e così via.

 

Deve essere spiegato all’allievo il fatto fondamentale che la misura della lezione non è la misura dell’assalto. In assalto si verificano pochi attimi in cui la misura è quella giusta, cioè quella della lezione, e bisogna trovarsi pronti quando viene il momento. E il momento giusto non deve venire per caso, perché altrimenti la nostra reazione è in ritardo: il momento giusto viene preparato mettendo in movimento l’avversario e giocando di seconda intenzione sulla misura che questo movimento viene a determinare.

 

7 – Il cono di protezione

 

Ripropongo oggi un articolo scritto nel 2013, su un argomento che ad alcuni è risultato alquanto indigesto. Mi affannai, allora, a trovare esempi e immagini che servissero a chiarire il punto, anzi, il cono, nella speranza di riuscire ad aiutare anche i più refrattari: l’argomento non l’ho inventato io, e per una comprensione della geometria della spada è necessario che almeno per chi la insegna lo conosca.

Una piacevole sorpresa l’ho avuta, inaspettatamente, leggendo l’articolo di Joseph Renaud, notissimo spadista, duellista  e scrittore francese dell’inizio del ‘900, pubblicato recentemente su questo sito: http://www.fraseschermistica.it/archivio/la-spada-joseph-renaud

Ebbene, proprio in questo articolo, verso l’inizio, il buon Renaud parla del “còne de protection”, e vi assicuro che proprio non lo sapevo. E’ però un po’ diverso da quello che descrivo nel mio articolo, perché pone il vertice del cono sulla punta della spada, anziché sul punto d’origine della lama avversa, ma l’errore, in tempi di scherma rigorosamente in linea, è accettabile.

Il cono di protezione

16 Aprile 2013

La spada, si dice, è l’arma più tecnica. Fiorettisti e sciabolatori potranno non essere d’accordo, soprattutto se non la praticano, ma ci sono buoni motivi per sostenere questa tesi. Il più importante, perché più gravido di conseguenze, è l’assenza di convenzione. Chi tocca ha ragione, senza le complicazioni della ragione e del torto, troppo diversamente interpretabili: che hanno come spiacevole conseguenza, spesso, l’abbandono delle armi convenzionali – fioretto e sciabola – e il passaggio alla spada.

Da questa assenza di convenzione nasce l’idea che la spada sia più realistica delle altre armi, pur con tutti i limiti più volte espressi, primo fra tutti la paura della morte che non c’è più. Ma limitiamoci ad un semplice fatto: nella spada, il colpo doppio vale un punto per entrambi. Se lo si vuole evitare, bisogna difendersi mentre si offende. E lo strumento principale, anche se non l’unico, con cui si può raggiungere l’obiettivo, è la coccia della propria spada.

Intendiamoci: anche nella altre due armi la coccia svolge, di fatto, la stessa funzione. Ma in modo meno determinante, e quindi possiamo qui trascurarla. Chi volesse approfondirne l’uso, può sempre rivolgersi alla spada. Qui ci occuperemo del concetto di “cono di protezione”, che non a tutti riesce chiaro, pur avendo grande importanza.

Nel corso dei secoli, la protezione della mano è diventata sempre più importante, man mano che si passava da una scherma prevalentemente di taglio, e con armi pesanti, ad una di punta, con lame molto leggere, e quindi capaci di movimenti più rapidi e stretti. Si è giunti, alla fine, alla coccia a tazza, tipicamente spagnola, che garantiva completamente la mano. Successivi perfezionamenti hanno decentrato il foro di uscita della lama, per consentire contemporaneamente una maggior protezione della mano e una linea (arma in linea) più coperta.

Vari autori si sono affannati a dimostrare geometricamente come fare una cavazione più stretta, o come e quanto la coccia fosse in grado di difendere il bersaglio: che è l’argomento che qui ci interessa.

Sarà quindi utile, e per molti interessante, vedere alcune immagini da trattati di autori che si sono occupati dell’argomento. Ferdinando Masiello, ad esempio, era un convintissimo assertore delle cavazioni con vertice nella spalla, e le sue dimostrazioni geometriche non fanno una piega. Athos di San Malato, invece, propugnava una scherma rigidamente in linea, e nelle sue immagini dimostra come la spada dell’avversario descriva un cono intorno alla coccia di chi è in linea. René Lacroix, in un articolo del 1904, dopo aver assistito ad una conferenza di San Malato, scrive: “Quando

lo  schermidore è in guardia, se dalla punta si traccia un cono che passi per la circonferenza esterna della coccia, la zona di protezione è tale che non si può esser colpito. San Malato, altrove, scrive di “Cono d’impenetrabilità”.

Ma è il siciliano Blasco Florio che si avvicina maggiormente alla moderna descrizione del cono di protezione, nel suo trattato “La scienza della scherma” del 1844.

Leggiamo la prima parte della sua dimostrazione:

“La coccia mentre da una parte difende dai colpi la mano che impugna la spada, fa divergere dall’altra la lama nemica dalla linea di offesa, ed in conseguenza (ch’è il suo principale  uffizio) allontana la punta dal bersaglio cui è diretta. La sola ispezione oculare basta a farlo conoscere, ma volendosene la dimostrazione, eccola dalla geometria.

Dati due schermitori, che chiameremo l’uno A e l’altro B, i quali trovandosi rispettivamente in perfetta guardia, a giusta ed eguale linea del bersaglio: se A vibra una botta dritta a B, questi per effetto della coccia della sua spada, non potrà esser colpito dalla punta di A.

Le posizioni date fan sì, che la lama di A debbe incontrarsi in quella di B, passar tangente alla sua coccia, e prendere una direzione obbliqua e divergente dal petto di B.

Quello che si deve trovare si è la misura di tale obbliquità, e con essa dello spazio difeso dalla coccia relativamente al petto di B, e questo dopo lo sbracciamelo della stoccata di A.

Dal movimento della lama di A si genera un lato d’un cono avente per apice l’ultimo punto d’incontro delle due lame, per base il semi-diametro del bersaglio, che ipoteticamente pel momento si suppone tangente alla punta della lama del detto A, e per altezza lo spazio interposto tra il bersaglio ed il punto d’intersezione delle due lame, il quale spazio viene rappresentato dalla lunghezza del braccio e mano di B, ch’è la distanza dal petto al polo della coccia, e da questa al punto d’intersezione suddetta.

Siccome la lama è la generatrice della superficie conica, in qualunque sua posizione viene a formare la ipotenusa d’un triangolo rettangolo, in cui la distanza dal punto d’intersezione delle lame al petto sulla linea di offesa, ed il diametro del bersaglio formano gl’altri due lati: ovvero l’asse del cono ed il diametro della base del cono, formano i lati adiacenti all’angolo retto. Le nostre considerazioni adunque, senza mancare punto di generalità, si possono restringere a quelle de’ due triangoli rettangoli… (tav. I, fig. 8).”

Vi risparmio il seguito. Dal Rosaroll-Grisetti in poi, in Italia, e per più di un secolo, le dimostrazioni geometriche hanno preso grande importanza, e sono servite a dare una veste di credibile ed apparente scientificità ad una disciplina che proclamava, per bocca dei suoi cultori, di essere “arte e scienza”. La Spagna, dal punto di vista della teoria schermistica, aveva preso le mosse dal nostro Agrippa, un ingegnere, per esasperarne oltre ogni dire gli aspetti geometrici: probabilmente – dovrò appurare la cosa – avranno anticipato ed esagerato questa tendenza, anche per quanto riguarda l’uso della coccia, che in fondo si deve a loro.

In tempi molto più recenti, nello scrivere le “Dispense di spada”, oggi “Complemento per la didattica” nel libro di testo di spada del Coni, per gli esami di istruttore e maestro di scherma, ho ritenuto di dover precisare ulteriormente il concetto: “Si immagini un cono, col vertice sulla coccia di chi porta l’offesa, nel punto in cui fuoriesce la lama, e con la superficie tangente al profilo esterno dell’altra coccia, prolungatesi indefinitamente sino ad incontrare il bersaglio, e oltre. Se l’arma viaggia verso il bersaglio nella direzione della propria lama [escludendo, quindi, i colpi sferzati, o di fuetto], tutti i bersagli interni alla superficie del cono risulteranno coperti. ”

 

Se proviamo a visualizzare questo cono, o magari lo disegniamo su un foglio di carta, in varie situazioni, vediamo che il cono aumenta notevolmente la sua ampiezza, e quindi il suo effetto protettivo, avvicinando le due cocce. In caso, poi, di offesa simultanea (attacco di entrambi, oppure offesa e controffesa), i coni di protezione da considerare sono due, e riguardano il bersaglio di entrambi gli schermidori. Inoltre, per effetto di leva, il primo che occupa lo spazio davanti a sé più facilmente devia la lama dell’altro: se entrambe le lame poggiano sulle cocce avverse, come spesso avviene.

Il  concetto di cono di protezione, quindi, serve a far comprendere, a chi tira e a chi insegna, l’importanza della copertura generata dalla coccia, e dai suoi spostamenti. Più precisamente, da entrambe le cocce: di cui l’una, quella di chi tenta di colpire, viene spostata per evitare che la punta della stessa spada vada in direzione di un bersaglio interno al cono; l’altra, quella di chi si difende, si sposta per ottenere l’effetto opposto. Ma i bersagli sono diversi, e a varie profondità, e inoltre difesa e offesa vanno a braccetto: nella spada è comunissima la situazione in cui chi si difende vuole anche offendere (controffesa), e chi offende vuole anche difendersi.

Si chiama opposizione, nella scherma, lo spostamento della coccia verso la lama dell’avversario, al fine di tenere il proprio bersaglio all’interno del proprio cono di protezione. Angolazione, invece, significa creare un angolo, o più angoli, se sono coinvolte più articolazioni (polso, gomito, spalla) per portare la propria punta sul bersaglio in condizioni più favorevoli, evitando il cono di protezione dell’altro. Nelle azioni di filo, di attacco o di risposta, e in certe contrazioni, è possibile che angolazione e opposizione coesistano.

Non sarebbe necessario teorizzare sul cono di protezione se il nostro occhio vedesse la stessa cosa che vede “l’occhio” della spada: che possiamo idealmente porre al centro della coccia, là dove ne esce la lama. Perciò, spesso, abbiamo percezioni errate circa l’effettiva vulnerabilità di un bersaglio che il nostro occhio vede, ma la nostra spada non vede. E viceversa: a volte non vediamo bersagli scoperti per “l’occhio” della nostra spada, ma coperti per il nostro occhio. Solo l’esercizio, la lezione e l’esperienza ci aiuteranno a “sentire” i bersagli scoperti, nostri e dell’avversario. E una chiara comprensione geometrica può darci una buona mano.

Si potrebbe obiettare che i colpi sferzati, o di fuetto, possibili grazie alla grande flessibilità delle lame sportive, permettono con relativa facilità di toccare anche bersagli coperti. Sono colpi che presentano vantaggi e svantaggi, ma non sono efficaci per tutte le mani, o a tutte le età. Mani troppo giovani, polsi deboli, o in generale meno forti, come nella maggior parte delle donne, sono poco adatti a questi colpi, da cui bisogna, in ogni caso, imparare a difendersi.

Ai giovani maestri suggerisco di curare sin dall’inizio, nell’allievo, il senso della copertura del bersaglio, durante ogni azione d’offesa: evitando di favorire troppo l’attacco o la risposta dell’allievo, ritirando il braccio, e quindi la coccia, per non creare ostacoli. Bisogna invece, a mio parere, esercitarsi a dare bene il ferro, senza togliere la linea, ma limitandosi a spostare la coccia nella direzione opportuna, affinché l’attacco o la risposta, o la controffesa, siano possibili, ma non troppo facili, come nelle reali condizioni dell’assalto.

La teoria è necessaria, come la pratica, e le due cose vanno insieme. Solo con una buona conoscenza teorica ci si può emancipare dalla necessità di copiare, sempre e comunque, le innovazioni altrui. Ma a molti il ragionamento astratto, o geometrico, proprio non va giù, pur insegnando della buona scherma. Per queste persone, gli esempi devono essere più pratici, più legati all’esperienza quotidiana, anche in altri campi. Per loro, potrebbe andar bene una metafora calcistica. Proviamoci.

Hai superato la difesa, entri in area col pallone e vedi il portiere tra i pali. Segnare sembra facile. Ma il portiere esce, e ti viene incontro. Così facendo, “chiude lo specchio” della porta, come si dice. Lo spazio utile per tirare, a destra e sinistra, si riduce o, se il portiere riesce a venirti ancora più vicino, si annulla del tutto. Per mandare la palla in rete, devi spostarti di lato, o far spostare il portiere in uscita, con una buona finta.

Stesso discorso per le cocce. La coccia dell’avversario è il portiere. Se viene avanti, chiude maggiormente il bersaglio. Nel calcio, il bersaglio è lo spazio fra i pali. Si possono immaginare due linee rette, che partono dal pallone al momento del tiro, e passano a destra e sinistra del portiere. Lo spazio utile per segnare è compreso fra queste due linee e quelle che arrivano a sfiorare i pali, dall’interno.

Nella scherma, le linee partono dal centro della coccia (dal punto di origine della lama) di chi tira la botta, e passano rasente la coccia dell’altro. L’insieme di tutte le linee descrive una superficie conica. Tutto ciò che è dentro questo cono, è coperto. I pali sono i limiti esterni del bersaglio. Se le cocce sono molto vicine, l’ampiezza del cono aumenta parecchio, e il bersaglio coperto è molto maggiore.

Ora non resta che calciare, o tirare la botta, al bersaglio giusto. Di velocità e precisione, parleremo un’altra volta.

 

Giancarlo Toràn

 

Commenti

jackoleary

San Malato a quanto pare di leggere dal Lacroix, mette il vertice del cono nella punta e i lati tangenti alla coccia di chi impugna la spada, mentre il Florio sembra affrontare il discorso alla rovescia.

Trattandosi di un cono “di protezione” non sarebbe in effetti più utile e chiaro vederlo come il Lacroix, cioè dal punto di vista di chi si protegge?

Nella metafora del portiere, più il portiere avanza verso il calciatore col pallone, più sa di allargare le linee immaginarie tangenti ai pali alle sue spalle e quindi di chiudere una porzione più ampia dello specchio della porta all’avversario…

Vedendo invece il tutto dalla prospettiva di chi calcia il pallone, le linee immaginarie sarebbero piuttosto quelle sulle quali dovrebbe viaggiare il pallone per superare il portiere… ovvero il disegno di un cono, come dire, “di attacco” più che di protezione…

…dal punto di vista puramente dell’efficacia descrittiva, non sembra più complicata la versione floriana, vista dalla parte di chi attacca, fermo restando il concetto in sé, che è indiscutibilmente valido?

Magis

Citazione:

Trattandosi di un cono “di protezione ” non sarebbe in effetti più utile e chiaro vederlo come il Lacroix, cioè dal punto di vista di chi si protegge?

Non sono d’accordo. Il discorso di San Malato filava perché partiva dal presupposto, oggi non più valido, che entrambi gli schermidori fossero in linea. Se uno dei due ponesse la propria spada fuori dal prolungamento della linea dell’altro, e mirasse ad un bersaglio più avanzato, il cono di cui sopra comprenderebbe bersagli non protetti. In sostanza, non si può parlare di cono di protezione, per uno, se non considerando le due spade insieme, e ponendo il vertice lungo la lama dell’altro. Florio lo pone sul punto di intersezione fra le lame, ma considera una linea d’offesa alla volta, per la sua dimostrazione. Il cono le comprende tutte, e non ha bisogno di punti di contatto fra le lame.

Citazione:

Nella metafora del portiere, più il portiere avanza verso il calciatore col pallone, più sa di allargare le linee immaginarie tangenti ai pali alle sue spalle e quindi di chiudere una porzione più ampia dello specchio della porta all’avversario…

No, quando il portiere avanza, allarga solo le linee tangenti il suo corpo, e quindi restringe lo spazio utile, che è compreso fra queste e quelle tangenti l’interno dei pali, che restano fisse. A meno che non sia il calciatore, quello che avanza. In entrambi i casi, l’avvicinarsi di portiere e calciatore aumenta lo spazio protetto, o riduce lo spazio utile.

Citazione:

Vedendo invece il tutto dalla prospettiva di chi calcia il pallone, le linee immaginarie sarebbero piuttosto quelle sulle quali dovrebbe viaggiare il pallone per superare il portiere…ovvero il disegno di un cono, come dire, di attacco più che di protezione…

Il “cono” qui non c’è: la zona protetta (quindi, di difesa, e non di attacco) ha vertice, sì, nel calciatore, ma passa tangente al portiere (che non ha forma circolare); e la zona utile, delimitata dall’interno dei pali, è una piramide a cui viene sottratta la zona protetta. Allo stesso modo, nella spada, tolta la zona protetta, quella d’attacco non ha la forma di un cono, ma i contorni del bersaglio.

Ma se continuiamo su questa strada, diamo ragione a chi sostiene che la teoria serve solo a complicare le cose, mentre basterebbe un po’ di sana pratica, e di buonsenso…

jackoleary

Una colta e convincente delucidazione per un concetto di affatto immediata comprensione, la cui sintesi, a mio avviso, sta proprio all’inizio ed alla fine del discorso: se col buon senso e con la pratica s’intendesse la coccia della spada per ciò che è, uno scudo da disporre sempre sulla linea da cui proviene la minaccia, anche il discorso di San Malato/Lacroix, ancorché fanciullesco, tornerebbe forse ad esser di una qualche valida ragione: naturalmente, tuttavia, la spiegazione geometrica è ben più affascinante e convincente.

Magis

Concordo, con una piccola aggiunta: lo spadista, spingendo avanti il suo scudo, la sua coccia, non si limita a difendere il proprio bersaglio, ma vuole anche offendere quello dell’avversario, a sua volta protetto dall’altra coccia. Dovrà quindi posizionare la sua, e la punta della sua arma, in modo da poter anche colpire un bersaglio scoperto, evitando pericolose “incocciate”. La geometria e la pratica aiutano a capire come.

 

 

 

6 – Contrattempi e controtempi

Scusate il ritardo: ho avuto un contrattempo. Quante volte abbiamo sentito questa frase?

Contrattempo è un buon esempio di parola che ci viene dalla scherma, e che poi ha assunto un altro significato. Ma il primo, quello originario, leggendo la definizione, si intuisce ancora: “Avvenimento, circostanza che sopravvenendo al momento inopportuno interrompe, impedisce o ritarda il normale svolgimento di un’azione” (dal Gabrielli). Una descrizione che meglio si attaglia alla nostra “uscita in tempo”, o azione di controffesa: azione che impedisce la buona riuscita dell’azione di offesa, e che si effettua durante quest’ultima, “sul tempo” di quest’ultima. E c’è un motivo: andando indietro nel tempo, troviamo, già nel trattato del Docciolini, del 1601, questa parola, insieme al “tempo” e al “mezzotempo”: “Il contrattempo è quella occasione di tirare in quel medesimo istante, che l’avversario vi tira; ma bisogna avvertire che se l’avversario tira una punta al petto, e voi volete tirare ancora voi di contrattempo, è necessario il voltare il filo diritto della vostra spada, inverso la spada dell’avversario per urtarla in fuora, e anco nello stesso tempo, è necessario che voi vi gettiate in sul traverso, secondo la regola de’ traversi, e così agevolissimamente, e con sicurtà lo verrete a ferire”. Azione, questa, che ricorda la nostra inquartata: che è una contrazione sulla linea interna, accompagnata da una schivata laterale (a destra, per i destri), mentre quella del Docciolini è dal lato opposto. Una “uscita in tempo”, appunto.

Sul tempo, e ancor più sul controtempo, come oggi lo chiamiamo, poco hanno scritto gli autori del passato, e spesso in disaccordo tra loro, data la difficoltà del tema. Atteniamoci, allora, alle definizioni più recenti ed universalmente accettate: quelle che ci derivano dal trattato del Masaniello Parise, riprese e modificate poi dal più recente testo di Pignotti e Pessina, ancor oggi testo ufficiale per gli esami di maestro di scherma.

Dice il Parise: “ La stessa denominazione di controtempo indica essere quest’azione la contraria, da opporsi a colui che vuole uscire in tempo.” La contraria, precisa, è “qualunque movimento, valevole a rendere vana l’azione di offesa e difesa dell’avversario, terminando con la stoccata”. E così lo descrive: “Lo schermire in controtempo sarà molto utile contro colui che facilmente si servirà dei colpi d’arresto o delle altre uscite in tempo. Giuocando d’astuzia, sarà facile avvedersi, quale sia il suo intendimento. S’inizierà con verità l’azione, avanzando un passo e difendendosi subito con una parata o di tasto o di contro dalla sua uscita in tempo; ed assicuratosi della difesa, si risponderà senza intervallo.”

Masaniello Parise era l’uomo simbolo della scherma napoletana, cioè delle scuole del sud. Sul versante opposto, Ferdinando Masiello era l’alfiere delle scuole del nord, e il più celebrato autore di trattati. Per lui il controtempo, pur sempre considerato la contraria dell’uscita in tempo, era invece un’altra uscita in tempo, da contrapporre alla prima (per fare un esempio pratico, supponiamo un’azione iniziale di battuta di quarta e botta dritta al petto, ed una possibile contraria, la cavazione in tempo, destinata a toccare il bersaglio esterno del petto: e che potrà, a sua volta, essere annullata con una passata sotto, o con una contrazione sulla linea di terza).

Le due scuole poi si fusero, di fatto se non di nome, nella Scuola Magistrale Militare diretta dal Parise, che fu affiancato dai migliori maestri delle scuole del nord (tra cui, vicedirettori, Pecoraro e Pessina). Non c’è da meravigliarsi, quindi, se la definizione moderna di controtempo comprende entrambe le versioni. A complicare le cose, per completare l’excursus storico, dobbiamo aggiungere che i cambiamenti avvenuti nella scherma moderna hanno dato spazio ad una terza contraria dell’uscita in tempo, che nessuno ancora ha (ri)battezzato come controtempo: infatti, sia nelle armi convenzionali, in cui si assegna la ragione e il torto, sia nella spada, dove si ricerca spesso il colpo doppio, una possibile contraria dell’uscita in tempo è proprio la botta dritta, contro l’arresto “sbagliato”: dove il “contrattempo” si gioca tutto sul piano dell’intenzione, senza che nulla si intraveda dall’esterno. Per un approfondimento di questo punto, potete leggere l’articolo che trovate qui:

http://www.fraseschermistica.it/articoli/scherma-contro-natura-arte-di-colpire-quando-si-e-colpiti

Il controtempo, si sente spesso dire, ed a ragione, è l’università della scherma. Padroneggiare questa ampia famiglia di azioni schermistiche significa avere profonda conoscenza del tempo e della misura, oltre che della tecnica: attacco, parata, risposta, uscita in tempo. E dobbiamo aggiungere le finte, perché l’attacco iniziale è solo simulato.

Il controtempo è un’azione di seconda intenzione: si dà inizio ad un’azione (anticamente, ci si riferiva solo a quelle di offesa) non per raggiungere direttamente lo scopo cui tende quell’azione, bensì per provocare una reazione offensiva opposta, di cui approfittare. Ad esempio, si inizia un attacco allo scopo di provocare un contrattacco, e neutralizzare quest’ultimo. Cosa, evidentemente, più complessa di un’azione di finta e cavazione, per esempio. Ci si potrebbe chiedere come mai sia meglio percorrere una strada più complicata, quando ci sono possibilità più semplici: come, appunto, portare a termine l’attacco iniziale.

L’esperienza dimostra che chi è padrone del controtempo raggiunge livelli schermistici più alti, cioè vince più spesso, e con avversari più forti. Ma bisogna spiegare perché questo avviene. A mio parere, la risposta ha a che fare con i livelli dell’attenzione, che per il cervello ha un costo elevato, e non può essere mantenuta al massimo livello per tempi lunghi. Il cervello deve risparmiare e, per così dire, “spegne la luce” dopo un picco di attenzione: picco che avviene quando siamo sotto pressione, e quando “diamo tutto” per una stoccata che riteniamo conclusiva. Se in quel momento, ad esempio, subiamo una parata inattesa, difficilmente sapremo correre al riparo in tempo utile.

Come tutte le azioni di scherma, e più di tutte, il controtempo si compone dell’esecuzione finale, già accennata, e della preparazione. Prima di scegliere il tipo di controtempo (parata e risposta, o uscita in tempo) e le modalità esecutive (quale parata e quale risposta effettuare, o quale uscita in tempo contrapporre), bisognerà darsi da fare per conoscere le uscite in tempo cui di preferenza ricorre l’avversario. Una volta individuate, grazie alle azioni di scandaglio, o a precedenti osservazioni, bisognerà scegliere, nel proprio repertorio, le contrarie possibili. E ridurre il tutto ad una sola  possibilità: una alla volta, perché il sovraccarico del sistema elaborativo rallenta enormemente scelte ed attuazioni. Una buona flessibilità, da allenare specificamente, ci permette di passare da una decisione all’altra, in funzione della situazione (punteggio, zona della pedana, energie disponibili, variazioni comunque intuite del progetto dell’avversario): ma sempre una alla volta. A questo punto, fatta la scelta, bisognerà favorire l’uscita in tempo dell’avversario, fornendogli l’occasione giusta: cioè atteggiamento con l’arma, misura e tempo preferiti dall’avversario.

Un’analisi così dettagliata può sembrare in contrasto con la fulmineità dell’esecuzione finale del controtempo. Ma è un po’ come andare in bicicletta. Quando gli elementi necessari si sono fusi insieme efficacemente, mantenersi in equilibrio sembra la cosa più naturale del mondo, e ci si dimentica della fatica fatta per imparare i singoli dettagli. Pensate anche a quando avete imparato a guidare l’automobile, e ve ne farete un’idea.

Ma torniamo al tempo e alla misura. Argomenti di cui ho già scritto in passato, e di cui potete leggere qui:

http://www.fraseschermistica.it/articoli/don-enrico

http://www.fraseschermistica.it/articoli/la-misura-nella-scherma

http://www.fraseschermistica.it/articoli/la-scherma-e-la-scelta-di-tempo

Prima di presentare la finta (simulazione iniziale dell’attacco) che dà inizio al controtempo, bisogna vincere la battaglia preliminare, quella per la misura. In definitiva, entrare in misura non è difficile, perché la pedana ha una lunghezza limitata, e non si può scappare a lungo. Il punto, quindi, non è entrare in misura: ma entrarci nel momento voluto, e quindi pronti, quando l’avversario non lo è.

Ancora una volta, l’attenzione, e i suoi costi, determinano un decisivo vantaggio per chi assume l’iniziativa: per chi, in altre parole, non attende il verificarsi degli eventi, ma li provoca. E quindi, al verificarsi della situazione favorevole, avrà dalla sua il vantaggio di quei due decimi di secondo, che fanno la differenza: perché, invece di “reagire” con un ritardo minimo (tempo di reazione semplice) di circa due decimi, agirà “in tempo”, cioè “insieme” all’evento atteso. Chi “guida” il gioco, e sa dove guardare

(http://www.fraseschermistica.it/articoli/dove-guardare-come-guardare)

per evitare sorprese, spenderà meno, molto meno, anche in termini di attenzione, e potrà approfittare dei picchi negativi dell’attenzione dell’avversario, provocati ad arte.

Oltre ad aver chiaro in testa cosa si vuol fare, è bene conoscere alcune delle situazioni che possono essere create e permettono di raggiungere l’obiettivo. Ne ricordo o suggerisco alcune: partire quando l’avversario ha terminato un attacco, che è andato a vuoto; dopo uno o due attacchi simulati; sull’inizio del passo avanti dell’avversario (se è lui che “guida”); dopo un finto passo all’indietro (se l’altro “segue”); dopo aver portato l’altro a fondo pedana; rallentare il ritmo per poi accelerare bruscamente. Si potrebbe continuare, ma è importante dire, a questo punto, che nulla funziona senza una corretta valutazione della misura: l’errore più frequente, nei principianti come nei campioni sotto stress, è quello di non accorgersi di una misura iniziale troppo lunga.

Concludiamo, ora, occupandoci della parte più tecnica, con qualche suggerimento per l’addestramento. Il controtempo si può effettuare contro ogni uscita in tempo. Queste ultime sono state classificate in un modo che oggi sarebbe da aggiornare e razionalizzare, per adattarlo alle esigenze della scherma moderna, ma per l’esercizio iniziale sono più che sufficienti. Quanti maestri, ad esempio, insegnano il controtempo in opposizione alla contrazione? O alla passata sotto? Sarà anche vero che certe situazioni sono più frequenti di altre, ma non credo che sia un bene dimenticare quelle meno frequenti. Ogni uscita in tempo e ogni controtempo ha le sue infinite sfumature, e imparare a notarle e ad eseguirle è un ottimo esercizio, per quando l’allievo si troverà da solo di fronte a un nuovo avversario, con le sue caratteristiche uniche.

Il controtempo più comune, oggi, nelle tre armi, è certo quello che si conclude con la parata e risposta. I “tempi” dell’azione sono tre, e i movimenti del braccio armato devono essere ben coordinati con quelli delle gambe. Tuttavia, gambe e braccia devono essere indipendenti: se l’inizio di un attacco si accompagna spesso con l’avanzamento della gamba anteriore, la parata può essere effettuata a volte anche con un salto indietro, e la risposta con una frecciata. Per raggiungere lo scopo (coordinazione, e indipendenza), suggerisco di abituare l’allievo a contare: uno, due e tre, quanti sono i movimenti del braccio (da farsi per primi, in guardia, a stretta misura, senza muovere le gambe), e quelli delle gambe, da abbinare ai primi, nelle tante varianti, solo in un secondo momento. L’abitudine di contare ad alta voce renderà più facile, poi, al maestro, comunicare i necessari cambiamenti di ritmo, dal lento al veloce.

Possibile nelle tre armi, ma tipico della spada, infine, è il controtempo alla Masiello: l’uscita in tempo sull’uscita in tempo. Qui i tempi sono due, ma le varianti, nell’esecuzione, sono altrettanto numerose.

La teoria, in conclusione, aiuta a capire e ci dà le linee guida. Ma l’esercizio, e la pratica frequente, sono e saranno sempre insostituibili.

 

di Giancarlo Toràn

 

 

5 – Gestire l’assalto di spada

Postato il Thursday, 22 February 2007@ 06:27:45

“Gestire l’assalto di spada” (note per gli allievi del Maestro Giancarlo Toràn)

Più che la capacità tecnica (le azioni che sei capace di eseguire), è l’intelligenza tattica (la scelta dell’azione da eseguire, fra quelle che sai fare) a determinare il successo o l’insuccesso, nell’assalto di spada.

Non basta, però, saper scegliere l’azione giusta da fare: bisogna anche saper mantenere la decisione presa (è meno facile di quanto appaia), senza rivelarla inutilmente all’altro con prove (anche lui le vede, e ne trae le conseguenze) e ripetizioni (se ci hai provato e non ti è riuscita, mascherala fingendo altre azioni, così se ne dimentica).
Ricorda che devi saper valutare la tua “tenuta” fisica (per migliorarla, dovevi pensarci prima…) e quella psicologica. Se hai poca benzina, ma anche se ti senti al massimo, devi saperti amministrare. Ma anche l’altro ha lo stesso problema, e tu devi saper sfruttare i suoi errori e le sue debolezze. Sappi utilizzare le pause per il recupero, oltre che per riflettere. Ricorda sempre di respirare profondamente, per assorbire ossigeno, e per ritrovare la lucidità. Osserva te stesso e il tuo avversario, e poi decidi se è il caso di alzare o di abbassare il ritmo dell’assalto; se è il caso di rischiare, o se aspettare che sia lui a farlo.
Poiché anche l’avversario, come te, può decidere di prendere l’iniziativa, devi essere preparato a contrastarlo nelle varie circostanze.
Schematizziamole così:

1. Situazione di parità
2. Situazione di vantaggio
3. Situazione di svantaggio

Parità: è la situazione iniziale dell’assalto, ma può ripresentarsi anche più volte in seguito. Nella spada è bene, inizialmente, che i rischi maggiori li corra l’altro, se è più impaziente. Se non conosci ancora bene l’avversario, e le sue reazioni, lascia perdere, all’inizio, le botte al piede, e gli attacchi in profondità, soprattutto marciando, e su avversario che arretra: sono rischi che potrai e dovrai correre in caso di svantaggio, se il tempo è agli sgoccioli. Approfitta del tempo disponibile (durante l’assalto, nelle pause) per memorizzare informazioni sull’avversario e impostare la migliore strategia per le sue caratteristiche. Intanto, comportati come se tu fossi in vantaggio, utilizzando tecniche e tattiche tipiche della situazione seguente.

Vantaggio. Ricorda che in questa situazione il tempo lavora per te. Se l’altro non ha fretta, non tentare di dimostrargli a tutti i costi che sai essere più stupido di lui. Attendilo da una misura più lunga e sicura. Se non ci sta, premilo anche tu (controiniziativa), ma solo al fine di recuperare pedana, o farlo partire quando vuoi tu. In linea di massima, lascia che sia l’altro a partire, e cerca il doppio (quindi, con un po’ di coraggio, tira in avanti, e non arretrando), e sempre sulla sua avanzata. Non dare ferro, per costringere l’altro a tirare al corpo (attenzione, quindi, a non subire botte al piede!), pronto a tirare sul tirare, preferibilmente in avanti e in frecciata, al corpo (opposizione minima, o nulla: non importa se arriva anche l’altro). Poiché è probabile che l’avversario avanzi in controtempo, tira dritto al corpo prontissimo alla rimessa (esercitati sempre molto a far questo). Mai attacchi con finta, se non si è certi della parata dell’avversario. Meglio, comunque, attacco dritto e rimessa. Imponiti di non parare, salvo in casi eccezionali: l’altro potrebbe precedere la tua risposta con la sua rimessa.
Evita di partire, quando pressato, sempre dallo stesso punto della pedana (ad esempio, quando hai i piedi sull’ultimo elemento), per non essere prevedibile. Recupera terreno tutte le volte che puoi, fingendo di voler attaccare, e decidi prima la zona della partenza, ogni volta diversa, e sempre (ripeto) sul suo passo avanti (il primo piede, non il secondo).
Puoi derogare da questi principi quando il vantaggio è ampio, pronto a rientrare se i tentativi dovessero andar male. Se vuoi che l’assalto duri poco (perché sei scarso a benzina), e il vantaggio è consistente, puoi anche provocare il doppio avanzando velocemente scoperto (senza dar ferro), per indurre l’altro a tirare dritto e concludere col doppio (in avanti, non arretrando).

Svantaggio. In questo caso, tocca a te rischiare. Se ne hai il tempo, vale la pena di verificare se l’altro è tanto impaziente da farti il regalo di venirsele a prendere. Se il tempo è poco, tieni costantemente l’iniziativa (tocca a te avanzare, e tenerlo nella sua metà campo: se non ci riesci, ma lui non parte, ti sta imbrogliando per bene). Portalo rapidamente (ma anche, tempo permettendo, con tutta la pazienza che serve) in fondo, e poi attacca ai bersagli molto avanzati (mano, piede) dopo azione di disturbo (battute, pressioni, inviti, finte ad altri bersagli, accelerazioni brusche e frenate), pronto sempre al controtempo ed alla parata e risposta di filo, o alla parata efficace di picco, e risposta immediata al distacco (e, sempre, la rimessa immediata). Le parate più efficaci sono quelle effettuate avanzando (esercitati a farle: ci vuole coraggio, ma rendono molto), mentre l’altro tira.
Quando l’avrai portato in fondo (ma proprio in fondo, con un piede sulla linea), è molto probabile che si decida a partire. Devi essere più che pronto alla parata e risposta (da preferire); ma anche, in alternativa, all’arresto arretrando (è più difficile, perché devi arretrare quando lo stai premendo), al bersaglio avanzato (anche la spalla, il bicipite, la maschera, sono avanzati), seguito da parata e risposta, e rimessa. Non commettere l’errore (tempo permettendo) di voler subito concludere, quando sei riuscito a portarlo in fondo: tienilo lì finché non commette l’errore decisivo. In fondo, sempre tempo permettendo, tu puoi sempre arretrare, lui no!
Se il punteggio lo permette, perché sei in svantaggio di una sola botta, ma c’è tempo e tante stoccate ancora da mettere per arrivare a 15, puoi anche andare al doppio un po’ di volte, per convincere l’altro che sei un po’ stupido, e rendere più facile il controtempo che stavi progettando (lo stavi progettando, vero?).
Se sei agli ultimi secondi, devi tentare il tutto per tutto: non aspettare a farlo quando è troppo tardi! Parti deciso in controtempo, o attacca dritto con opposizione, e ricorri alla frecciata.

Nota: Un articolo tecnico del Presidente dell’AIMS

 

 

 

Re: Gestire l’assalto di spada
di giusetrive il Thursday, 22 February @ 08:19:35 CET

Conservavo questo articolo già  da tempo.
Ritengo che concetti di base come questi se letti ( invece che sentiti ripetere alla nausea in palestra ) possano essere meglio assorbiti.

Un caro saluto al Maestro Toran che ho avuto il piacere di conoscere a Torino

 

Re: Gestire l’assalto di spada
di g-man il Saturday, 24 February @ 09:09:42 CET

 

Grazie!
Grazie al Maestro Toran e a Schermaonline per questo articolo che trovo molto interessante e che mostra, a mio avviso, sia la superiorita` della classe magistrale italiana nel mondo, che la validita` di questo sito come fonte di informazione per chi sia interessato allo sport della scherma e non a pettegolezzi da portineria.

Avrei gradito una maggior partecipazione da parte di altri esperti e non, con una discussione vivace sul perche` e come gestire sia l’assalto di spada, che la preparazione tecnica e psicologica allo stesso. E` un vero peccato che questa “perla” sia dispersa nel marasma di articoli, interventi e commenti su situazioni penose, meschine e pietose che sembrano invece suscitare tanto interesse tra alcuni partecipanti attivi a questo sito.

Un suggerimento che mi permetto di proporre: data la passione “morbosa” per questo tipo di “gossip” perche` non creare un terzo sito di scherma e chiamarlo “Schermagossip.it” nella speranza che riesca ad attirare sia questo tipo di interventi, che le interminabili discussioni ad essi associate.

Un marziano deluso.

🙁

 

Re: Gestire l’assalto di spada
di DAGO68 il Sunday, 25 February @ 13:09:15 CET
Volevo testimoniare che ho già  utilizzato ed utilizzo questo bellissimo “Articolo”il quale mi permette ogni tanto (purtroppo in palestra le incombenze sono veramente tante!) di intraprendere dibattici strategici e tattici sul come gestire un assalto di spada con i miei Allievi.

Un grazie ancora al maestro Toran.

Dago Tassinari

 

Re: Gestire l’assalto di spada
di giusetrive il Wednesday, 28 February @ 07:18:15 CET
E’ opinione comune che la spada è un’arma più ” matura ” rispetto altre. Lo spadista di punta arriva generalmente all’apice della carriera qualche anno dopo rispetto ai suoi colleghi delle altre due armi.
Perché?

Perché, per esempio, un atleta come Ruben Limardo che nello stesso anno ha vinto la Coppa del Mondo U20 e i Campionati del Mondo ( in modo netto ) É sostanzialmente sparito?
Cosa cambia nel passaggio da U20 ad Assoluto?

 

Re: Gestire l’assalto di spada
di Giancarlo Toran il Wednesday, 28 February @ 14:58:41 CET
Ci provo.
Per prima cosa, va detto che la concorrenza, nella spada, è ben più dura: per quantità, e su questo punto nessuno avrà  da obiettare; e per qualità , e su questo molti potrebbero non essere d’accordo. Scalare una montagna più alta, dunque, richiede più tempo.
Evito di sollevare la questione della difficoltà  dell’arma: quando si arriva in cima, un piccolo progresso richiede sempre un grande lavoro, in tutti i settori.
Il caso di Limardo non mi meraviglia troppo. Il salto dalla categoria dei giovani a quello degli assoluti è sempre difficile, e nella spada, proprio per il valore degli avversari, e la quantità  degli avversari di valore, è ancora più duro.
Il distacco fra le due categorie si accentua, poi, anche perché quelli che sono già  forti hanno possibilità  di accrescere la loro esperienza, con un numero di gare che può apparire talvolta anche eccessivo. Quelli che ancora non lo sono, o lo erano nella categoria giovanile, rischiano di uscire fuori dal giro, e hanno poche opportunità  di tirare contro i più forti. Se convocati, lo fanno contro i compagni di nazionale: e in allenamento non è la stessa cosa (sono amici, ma anche concorrenti…); e poi, si tende, mi pare, a curare di più chi dà  più speranze di medaglie (gli investimenti nel futuro sono a lungo termine, e il sistema non offre orizzonti lontani…; è un compito che, chiacchiere a parte, resta alle società, che possono fino ad un certo punto).
Infine, quei pochi che possono gareggiare in campo internazionale, data la formula di gara, fanno pochi incontri, e sempre difficili: nella spada É facile prenderle da chiunque sia fra i primi cento del ranking, almeno, senza che si meravigli nessuno. Un esempio recente: a Roma, Cdm assoluta di SPF, la Di Franco (121° posto) É arrivata nelle 32 battendo la Flessel (2° posto).
Cari saluti

Giancarlo Toràn

 

Re: Gestire l’assalto di spada
di giusetrive il Thursday, 01 March @ 08:35:15 CET

Grazie al Maestro Toran.

Anche ai Mondiali di Torino atleti del calibro di Kolobkov, Jeannet, Marik e il nostro Rota sono usciti alla prima diretta contro avversari non sicuramente blasonati come loro.
Penserò al discorso sulla qualità  così la prossima volta che ci incontreremo ad una gara ne parleremo.
Un caro saluto

Giuseppe Trivelli

 

Re: Gestire l’assalto di spada

di esedra il Thursday, 01 March @ 08:59:32 CET

Poi, però, fateci sapere! 🙂

 

4 – Le parate francesi ed italiane

le-parate-francesi-ed-italiane

 

 

3 – La scherma e la scelta di tempo (06/01/2009)

Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su Schermaonline, e poi ripreso da numerosi siti, anche tradotto in inglese. L’argomento è sempre attuale, quindi lo ripropongo qui, come l’articolo precedente sulla misura, riportando anche i commenti del sito per cui fu scritto, nel 2009.
Propongo ai frequentatori di Schermaonline questo mio articolo sulla scelta di tempo, che si ricollega idealmente a quello sulla misura, e all’altro sul come e dove guardare.
Naturalmente, sono disponibile a discuterne con i lettori ogni aspetto che dovesse risultare oscuro o controverso.
———————————————— Giancarlo Toràn

Secondo la tradizione, sono tre i fattori più importanti che determinano la riuscita di un’azione di scherma: tempo, velocità e misura. Sono inscindibili, nella realtà. Li trattiamo separatamente solo per comodità di analisi.

Per tempo, intendiamo la scelta di tempo, e ci proponiamo di rispondere a tre domande:

1. Cos’è
2. Come si misura
3. Come si allena

Scegliere il tempo presuppone l’esistenza di un ritmo, che nel nostro caso è dato da una particolare azione schermistica, una sequenza di atti motori: vogliamo intervenire, con un nostro atto motorio (un’altra azione schermistica), in un punto preciso, dello spazio e del tempo, della sequenza messa in atto dal nostro avversario. L’errore consentito, per il successo dell’azione, è di pochi centimetri, e di pochi millesimi di secondo.

Possiamo riuscire nel tentativo solo se conosciamo la sequenza, per averla già osservata; se la riconosciamo in tempo utile, quando ha inizio; se siamo alla distanza giusta, per intervenire.

Ogni azione schermistica richiede, per essere eseguita, il superamento di una certa distanza, e quindi una serie di atti motori coordinati che possono essere in qualche modo distinti e classificati. Si prendono in esame, a questo scopo, i movimenti delle gambe e del braccio armato, che devono essere sincronizzati fra loro, e possono esserlo in vari modi.
Un passo avanti è considerato come composto da due movimenti: il primo per l’avanzamento del piede anteriore, l’altro per quello del piede posteriore. Aggiungendo l’affondo, i movimenti diventano tre.
Un’azione di doppia finta (finta dritta, finta di cavazione e cavazione, ad esempio) comprende tre movimenti del ferro: un primo per la finta dritta; un secondo per la finta di cavazione, contemporanea al primo movimento di parata dell’avversario; un terzo, insieme alla seconda parata dell’altro, per la cavazione, che si conclude con la botta.
I tre movimenti del braccio, quindi, sono coordinati con i tre movimenti delle gambe, e sono detti anche, in gergo schermistico, tempi.
Quando i movimenti del braccio sono due, come per una battuta e botta dritta, si possono coordinare in modi diversi con i movimenti delle gambe: battuta insieme al primo movimento (avanzamento del piede anteriore), o insieme al secondo (avanzamento del piede posteriore), fermo restando che il colpo avviene, il più delle volte, insieme all’affondo.
Con lo stesso criterio, si impara a coordinare tutte le altre azioni: parate e risposte, controtempi, ecc., con passi avanti e indietro, saltelli, frecciate, o a piè fermo.

Le cose, però non sono così semplici: ogni schermitore può variare a suo modo questa coordinazione, e la durata di ognuno dei tempi che compongono l’azione, in modo da rendere più difficile, per l’avversario, impararne il ritmo, riconoscerlo, e sincronizzarsi con esso. In ogni caso, però, per scegliere il tempo in modo efficace, bisognerà aver previsto l’esatta sequenza. E’ bene precisare che la coordinazione braccio-gambe è preliminare a quella, ancor più importante, fra i movimenti propri e quelli dell’avversario.

La nostra arbitraria suddivisione dei movimenti in tempi serve a scopo didattico, per l’apprendimento delle azioni, e delle loro contrarie. Dire che un’azione è eseguita in un tempo solo è un’utile approssimazione, e niente di più. Prendiamo, ad esempio, il caso della cavazione, a partire dal legamento dell’avversario: un’azione di un solo tempo, e in un solo movimento, se ben eseguita. Eppure, la cavazione comporta un movimento di svincolo, con la punta che esegue un non semplice giro (dal punto di vista dei muscoli coinvolti, e della finezza del movimento) intorno alla mano dell’avversario, prima della distensione rapida del braccio, che termina nel colpo. Se ben eseguita, però, a stretta misura, e a propria scelta di tempo, è imparabile, come la botta dritta. Il tempo di esecuzione dell’intero movimento è inferiore al tempo di reazione: che, a sua volta, è dell’ordine di grandezza di due decimi di secondo. Se il movimento non è previsto, o non si rivela in anticipo, la botta arriva a segno prima che l’avversario possa reagire.

Nella tradizionale teoria della scherma, le azioni si possono eseguire a propria scelta di tempo, o in tempo: intendendo, con la prima frase, che l’esecutore decida autonomamente quando partire, indipendentemente dal movimento dell’altro; e, con la seconda, che parta quando l’altro cambia atteggiamento. Definizioni che vanno bene per la lezione e gli esercizi, ma non per l’analisi dell’assalto. Negli esercizi, infatti, è utile provare le azioni ad avversario fermo, che aspetta la partenza per reagire: ad esempio, la botta dritta, per parare. Azione, questa, eseguita dall’attaccante a propria scelta di tempo, mentre l’avversario reagisce, dopo aver visto. Nelle cosiddetta azioni eseguite in tempo, invece, l’azione di offesa parte sul cambiamento di atteggiamento dell’avversario: da un invito all’altro, ad esempio, o dalla linea ad un invito, e così via. In lezione, o negli esercizi, questo significa, ancora una volta, reagire ad uno stimolo, con la differenza che, in questo caso, è l’altro a presentarlo.

Scegliere il tempo, però, significa agire entro margini ben più stretti di quelli permessi dal tempo di reazione: basti pensare al colpo doppio di spada, possibile solo se si colpisce, al più tardi, entro un quarto del tempo di reazione semplice. Cinquanta millisecondi, contro duecento. La metà di un decimo di secondo. Sembra impossibile, ma non lo è: anzi, si può fare anche meglio. Dimostriamolo con un esempio, che ci permetterà anche di misurare la nostra scelta di tempo.

Prendiamo un comune cronometro digitale, di quelli che misurano anche i centesimi di secondo. Premiamo il tasto start, e osserviamo i numeri che cambiano rapidamente sul display. Non siamo in grado di osservare i centesimi, troppo veloci per il nostro occhio; e vediamo a malapena i decimi. Ma possiamo seguire agevolmente il cambiare dei secondi, e impararne il ritmo. Immaginiamo, senza farlo, per ora, di premere il pulsante di stop ogni volta che cambia il numero dei secondi: prendiamo il ritmo. Poi, quando ci sentiamo pronti, premiamo lo stop insieme al numero che cambia. Abbiamo scelto il tempo, e siamo intervenuti nel punto voluto della sequenza.
Il cronometro si è fermato, ed ora possiamo leggere il numero che corrisponde ai centesimi. Prendiamone nota, e facciamo diverse prove: ci accorgeremo, così, che abbiamo premuto lo stop a volte prima, a volte dopo e, se siamo particolarmente abili o fortunati, anche insieme, cioè fermando i centesimi sul doppio zero. Abbiamo centrato il centesimo di secondo!

La scelta di tempo, così misurata, mostra una differenza fondamentale rispetto al tempo di reazione: se, per quest’ultimo, nel suo caso migliore (tempo di reazione semplice: uno stimolo, una risposta), la risposta segue sempre lo stimolo, dopo circa due decimi di secondo, nel caso della scelta di tempo stimolo e risposta arrivano tendenzialmente insieme. L’errore, se c’è, è molto più piccolo, pochi centesimi di secondo: ed è dovuto, per la parte maggiore, all’atto motorio necessario a premere il pulsante. Nella scherma, alla misura: non basta aver scelto il tempo. Bisogna anche essere proprio lì, alla distanza giusta, in quel preciso momento: ed è la cosa più difficile.

Prima di passare ad esempi specifici della scherma, vorrei illustrare alcuni giochi centrati sulla scelta di tempo, molto utili per far prendere confidenza all’atleta con un diverso modo di funzionare della sua mente.

Abbiamo bisogno, per prima cosa, di creare un ritmo. Si può farlo in tanti modi: noi ci serviremo di una semplice corda. Tutti abbiamo fatto l’esperienza di saltare la corda: se siamo noi stessi a farla girare, però, il problema principale non sarà il tempo, ma la coordinazione. Dobbiamo fare in modo che il ritmo sia, in qualche modo, originato dall’esterno.

L’istruttore, quindi, in questo primo gioco, farà ruotare la corda (un giro al secondo, circa) verso il muro, o un ostacolo qualunque, e chiederà all’atleta di passare in mezzo, fra lui e l’ostacolo, senza farsi toccare dalla corda. Potrà farlo in avanti, o all’indietro; ad occhi aperti, o chiusi, lasciandosi guidare dal rumore della corda sul muro, o per terra. Si potrà poi far girare la corda (o due corde, sfasate di mezzo giro) fra due persone, mentre l’atleta dovrà passare in mezzo, o saltare. Le varianti sono numerose. La parte più utile, ai nostri fini, di questi esercizi, è l’entrata: una volta dentro il ritmo, tutto è più facile. Dobbiamo abituare l’atleta a riconoscerlo rapidamente, e ad entrarvi. Restarvi, è utile e divertente ginnastica, ed ottimo esercizio di concentrazione, ma è un’altra cosa.

Potremo sperimentare, in questo modo, le difficoltà che il giovane atleta deve superare per eseguire il compito: lo vedremo, spesso, oscillare con il corpo o con la testa, nel tentativo di sincronizzarsi.
Possiamo aiutarlo, analizzando per lui il movimento, spiegandogli quando partire, dandogli una piccola spinta: comprenderà, sperimenterà, e tutto gli sembrerà subito più facile.
Potremo osservare, in molti, anche l’errore di misura: pur scegliendo il tempo con precisione, si pongono ad un’eccessiva distanza dalla corda che gira, per sentirsi più sicuri di non esserne colpiti, ma non considerano il tempo necessario a percorrere quella distanza in più.
In alcuni, toccheremo quasi con mano la difficoltà a “lasciarsi andare”: che corrisponde alla capacità di lasciare alla parte destra del cervello il compito di dare il via al movimento, senza interferenze dell’emisfero sinistro, troppo analitico e lento per questo compito. Riprenderemo questo tema, importantissimo, in un successivo articolo.

Vediamo, ora, le applicazioni della scelta di tempo nella pratica schermistica.

La prima, e più importante, si applica alla misura: che è la valutazione dinamica della distanza fra i due avversari, come specificato in un precedente articolo.

Ogni azione schermistica, se preordinata, deve partire da una sua specifica distanza. Prima di confrontarsi sulle contrarie, e verificare chi ha scelto quella giusta, i due avversari in pedana competono per trovare la distanza richiesta.
Nella maggior parte dei casi, la distanza utile per uno, è utile anche per l’altro, e si presenta per intervalli di tempo molto brevi (decimi di secondo): il problema è trovare/ottenere quella distanza quando si è pronti, e possibilmente quando non è pronto l’altro. Possiamo anche dire che bisogna essere già pronti, in tempo, quando la distanza favorevole si presenta: l’attimo giusto deve essere previsto. Meglio: provocato.

Entrambi gli avversari controllano la misura, tenendosi appena fuori dalla zona critica (vedi articolo sulla misura), e cercando di entrarvi superando il controllo dell’altro: variando il ritmo dell’azione, invertendo bruscamente il movimento, costringendo l’altro a fondo pedana, provocando o sfruttando le falle della sua attenzione. In questo gioco, che precede l’esecuzione dell’azione schermistica vera e propria, è in genere facile identificare chi ha l’iniziativa, e chi la segue o, peggio, la subisce. E gli assalti più belli e intensi sono quelli fra avversari che lottano per assumere l’iniziativa, e condurre il gioco.

Per esplorare questa fase, che può durare anche relativamente a lungo, dovremmo necessariamente addentrarci nell’analisi dei processi attenzionali, dei loro costi, e delle strategie messe in atto dal cervello per risparmiare su questi costi: fattori che possono essere molto utili per individuare e sfruttare i punti deboli delle strategie dell’avversario. Rimandiamo ad un altro articolo anche questo argomento, che è di grande importanza.

Ogni azione schermistica è, in genere, composta da due fasi, in proporzioni diverse secondo l’arma e le strategie adottate: una prima a circuito chiuso, e una seconda a circuito aperto.
Si ha il circuito chiuso quando è possibile correggere l’azione durante il suo svolgimento, grazie al feedback che ci viene dall’azione stessa o, nel nostro caso, anche dalla reazione dell’avversario. Tipica della fase di controllo, è necessariamente più lenta: si parla, in gergo schermistico, di azione a vedere, intendendo, qui e nel seguito, che la parte a vedere è preponderante rispetto all’altra, che conclude sempre l’azione.

Si ha, invece, il circuito aperto quando l’azione è eseguita alla massima velocità, senza poter fare correzioni durante il movimento: una volta partita, l’azione prosegue sino al suo termine, già programmato, senza poter essere modificata.
Una finta dritta e cavazione, ad esempio, in contrapposizione all’invito di terza dell’avversario, elude una parata di quarta, ma è bloccata da una parata di contro di terza, che a sua volta potrebbe essere elusa da una circolata: cavazione e circolata girano in senso opposto. La velocità del movimento di parata, paragonabile al tempo di reazione semplice, esclude la possibilità che si possa decidere durante l’azione se eseguire una cavazione o una circolata, dopo aver visto la parata scelta dall’avversario. Si decide prima, si scommette, e l’azione è a circuito aperto.

Le azioni a vedere, acircuito chiuso sono ancora comuni nel fioretto: ad esempio, l’attaccante avanza lentamente, ma con continuità, col braccio semiflesso e la punta fuori dalla linea d’offesa, attendendo l’arresto sbagliato dell’avversario, o la sua ricerca del ferro, per forza di cose larga e visibile; e si comporta di conseguenza, concludendo l’attacco (fase a circuito aperto) con la botta dritta, o con una cavazione. Prevengo la naturale obiezione: secondo il regolamento scritto, il diritto di attaccare, in questo caso, spetterebbe all’altro; ma la prassi comune, da molti anni, dà ragione al primo. Nella sciabola, subordinata alla stessa convenzione, l’applicazione è diversa, e più rigorosa. Ma anche nella spada, che convenzione non ha, questa strategia è possibile, per ottenere il colpo doppio.

Ma riprendiamo il filo del discorso. Chi attacca, avanza e controlla (fase a vedere) in attesa di trovare le condizioni richieste per concludere (fase a circuito aperto). Chi si difende, o contrattacca, controlla in attesa di quel preciso momento, per riconoscere nel più breve tempo possibile l’inizio della sequenza conclusiva. Entrambi hanno il problema di sincronizzare i loro movimenti con quelli dell’avversario: per eludere la parata, o colpire quando il bersaglio non è coperto, o eseguire con precisione il controtempo, nel caso dell’attaccante; per parare o uscire in tempo, il difensore. Il tempo per iniziare e portare a termine questo processo di sincronizzazione è ridottissimo. Un vantaggio, anche minimo, in questa fase, è determinante. Questo vantaggio può essere assicurato da una corretta provocazione.

La provocazione consiste nell’effettuare un’azione (una finta, un invito, una ricerca del ferro), e precisamente quella attesa e desiderata dall’avversario, nello stesso istante in cui la distanza diminuisce fino al punto critico: la distanza, cioè, alla quale non è più possibile vedere prima, e reagire poi (controllo). Si può solo scegliere se scatenare l’azione a circuito aperto, o tornare indietro: quel che succede, generalmente, quando la provocazione non è quella attesa.

Vediamo, ora, di dimostrare praticamente il vantaggio temporale assicurato dalla provocazione.

Poniamo di fronte due schermitori, al limite della stretta misura (si tocca al petto distendendo il braccio armato, senza l’affondo), entrambi sull’invito di terza, per il seguente esercizio.
Nel primo caso, lo schermitore A, a sua scelta di tempo, decide quando colpire B, al petto.
B cercherà di parare. Se A eseguirà correttamente la sua azione, B non riuscirà a parare.
Nel secondo caso, A dovrà cercare di toccare quando B gli darà il segnale, allargando il suo invito, o fingendo un colpo, o addirittura portando la punta della sua arma a terra. Se B eseguirà rapidamente i suoi movimenti, riuscirà a parare, pur avendo percorso, con la sua arma, una strada ben più lunga.

Altro esercizio, sfruttando i tempi dei moderni apparecchi di sciabola, in cui il tempo del doppio (inibizione della segnalazione della seconda stoccata) è di poco inferiore al tempo di reazione semplice. Poniamo, come prima, due sciabolatori uno di fronte all’altro, alla stessa misura, atteggiamento di invito di terza. A sua scelta di tempo, A toccherà B al petto, più rapidamente che può. B reagirà toccando A, non appena si accorge della stoccata di A: ma il suo colpo non sarà segnalato dall’apparecchio. E’ in ritardo, perché ha dovuto attendere l’azione dell’avversario, per reagire.
Se, invece, B toccherà A subito dopo averlo invitato, riuscirà a far accendere entrambe le luci, o a parare in tempo utile.

Resta, ora, un ultimo passo da fare, per utilizzare al meglio questo vantaggio (la provocazione). Abbiamo già detto che, nella fase di controllo, si cerca di trovare entrambe le condizioni necessarie: misura, e atteggiamento col ferro. Sorvoliamo sulla importantissima fase della programmazione dell’azione dell’altro, che avviene durante la fase di controllo, e dipende anche dalla storia precedente dell’assalto. Supponiamo, quindi, che l’azione da eseguire sia già stata programmata.
Il gioco di misura, consistente nel controllo, e nel tentativo di superamento del controllo dell’altro, fa sì che si verifichino con frequenza situazioni in cui la misura è più stretta, prossima al punto critico. Il più delle volte, questo avviene senza che i due contendenti siano pronti ad approfittarne: quando la buona occasione viene riconosciuta, è già sfumata. I due decimi di secondo sono trascorsi. Non si può, quindi, reagire a questo evento: bisogna essere già pronti, agire in tempo, insieme al suo verificarsi, e questo avviene molto più facilmente se lo si provoca, anziché semplicemente attenderlo. Rinvio, a questo proposito, al mio precedente e già citato articolo sulla misura.

 

 

La misura nella scherma
Tutte le azioni schermistiche, quindi, per andare a buon fine, e non essere solo frutto del caso, richiedono scelta di tempo, oltre che giusta misura. In un prossimo articolo – per motivi di spazio – esamineremo più da vicino, anche sotto l’aspetto tecnico, quelle che più si richiamano a questo concetto: le uscite in tempo, e i controtempi. Allenare con efficacia la scelta di tempo, infatti, è possibile solo applicandosi alle azioni specifiche.

Come per la misura, siamo già geneticamente predisposti per “sentire” il tempo, e quindi per la scelta di tempo. Migliorarla, significa, il più delle volte, divenire consapevoli di tutti i fattori che la ostacolano, ed eliminarli. Un modo, non l’unico, per farlo, è l’analisi di questi fattori: che permette alla nostra mente di esaminarli e sperimentarli, uno per volta. Poi, però, dovremo abbandonare questo carico.

Provo a fare un paragone azzardato. Avrete visto tutti in azione, prima o poi, un sommelier: una persona che beve un sorso di vino, e ve lo descrive con una ricchezza di termini a voi sconosciuta. Può farlo, perché ha lavorato a lungo, con una guida esperta, sui diversi fattori: imparando a riconoscerli, e dando un nome ad ognuno di essi. Impara i nomi, e riconosce armonie e disarmonie.
Noi non siamo in grado di farlo, perché ci manca l’analisi, e ci mancano i collegamenti alle esperienze sensoriali specifiche: i nomi delle cose.

Il sommelier, però, quando ha imparato, deve dimenticare la tecnica, concentrandosi sul suo sentire: che sarà divenuto più ricco, e potrà essere meglio espresso, grazie al lavoro precedente.

Anche la scherma, come ogni forma d’arte, è così: tanto lavoro, tanto studio, che devono scendere in profondità, per essere poi espressi in modo naturale e armonioso.

 

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Commenti:

 

Re: La scherma e la scelta di tempo
di qquero

L’articolo più interessante che abbia mai letto.Complimenti Maestro
Antonio Iannaccone

Re: La scherma e la scelta di tempo
di Rick

L’ho divorato!
Che dire, Giancarlo ?
Anche per vecchi spadisti di buon spessore tecnico ed agonistico a leggerti c’è sempre tanto da imparare.
Grazie!
R.

 

Re: La scherma e la scelta di tempo
di StephenDedalus

Un contributo davvero “importante”.
Credo sia l’aggettivo più appropriato.
Come per il precedente contributo sulla “misura”, ho proposto anche questo articolo ai miei allievi agonisti adulti (interessati anche ad un approfondimento teorico/pratico dello studio della scherma) come suggerimento per un lavoro di gruppo e abbiamo cominciato ad analizzarlo insieme, smembrandolo nelle sue parti, facendo diverse sperimentazioni tecniche e ludiche.
Vedremo che salta fuori.
Attendiamo con ansia il resto.
Davide Lazzaroni

Re: La scherma e la scelta di tempo
di esedra

Passavo di qua. E ho letto questo articolo.
Non esiste, oggi, nessuno al mondo in grado di spiegare la scherma con questa precisione e chiarezza.
Né di creare suggestioni così profonde e persistenti che rendono affascinante persino la comunicazione tecnica.
Ciò che mi piace tanto dello stile di Toràn – consentitemi la riflessione – è il ricorso frequente al linguaggio metaforico: presuppone inevitabilmente una visione matura e consapevole del mondo, la conoscenza, cioè, di quella rete di relazioni che unisce le cose in un sistema universale per cui anche le cose più comuni e banali si caricano di significati ulteriori, al di là del reale apparente.
Complimenti, Maestro Toràn!
Assimilare concetti immergendosi nel ritmo e nella musicalità delle sue parole è sempre un vero piacere.
Comprendere la persona che vi sta dietro, un grande onore.

[Da un altro thread, sempre Esedra:]

Un pubblico sempre pronto a voltarsi altrove, pur di sperimentare maggiore e più divertente partecipazione personale, e, infine, poco impegnato e poco attento alle sollecitazioni culturali di Schermaonline. Un pubblico che ama parlare del cha cha cha della Vezzali o che riempie di commenti il blog di Sanzo, appena il discorso diviene scottante ed entra in odore di pettegolezzo o di scontro…
In questo panorama, piuttosto desolante, nel quale una proposta come quella del Maestro Toràn viene lasciata lì, a luccicare da sè, mentre colleghi e atleti potrebbero pure incastonarla di gemme preziose e creare qualcosa che solo la scherma italiana sarebbe in grado di far leggere a tutto il mondo, la nostra Ella tenta comunque di stimolare l’interesse degli utenti ma, nonostante lo zelo e il successo di tante sue belle proposte, viene addirittura rimproverata e cassata!!! Allucinante!
Re: La scherma e la scelta di tempo
di StephenDedalus

Dunque…
Come precedentemente annunciato, ho dedicato la settimana appena trascorsa allo studio del tempo, partendo dalla base del contributo postato da Giancarlo Toràn, coinvolgendo i miei allievi di tutte le categorie in giochi, esperimenti, attività individuali e di gruppo, con e senza l’attrezzatura schermistica.
La prima cosa che mi viene da dire forse può sembrare banale ma non lo è affatto: non si può dedicare una settimana allo studio del tempo.
Certo, può essere una buona occasione per concentrare l’attenzione su un aspetto particolare della psicomotricità legata al nostro sport (e non solo) ma togliamoci dalla mente di poter ridurre ad un pugno di incontri un approfondimento che probabilmente coincide con il percorso stesso di apprendimento e di affinamento della propria consapevolezza motoria e capacità di gestirsi nello spazio e nel tempo.
Ogni più semplice esperimento, ogni più piccola considerazione apre mille altre ipotesi, innescando a cascata una miriade infinita di associazioni e relazioni con tutti gli ambiti della cultura e della scienza…
In un certo senso mi sono sentito un po’ frustrato quando mi sono reso conto che mi mancavano gli strumenti adeguati, culturali, di analisi e tecnici, per poter approfondire ulteriormente l’indagine.
E’ evidente che per poter andare oltre la superficie di una sperimentazione empirica, ben poco scientifica, bisogna avvalersi di professionisti e avere più professionalità.
Quindi nuovamente torna fuori in qualche modo la discriminante “culturale” che, secondo me, è a tutti gli effetti la chiave di volta per l’evoluzione della professione nel nostro ambito.
La seconda cosa che posso dire è che, a prescindere da tutto, è stato davvero divertente… e molto formativo – per tutti (e non è poco…)
Venendo allo specifico, nella nostra Settimana del Tempo sono emerse tante cose importanti che prima effettivamente tendevo personalmente a sottovalutare o alle quali avevo la presunzione di poter arrivare comunque senza curarle in modo specifico.
Non so se i miei colleghi possono confermare la sensazione che si prova quando si pensa, a torto, di “perdere del tempo”, rubandolo alla scherma di pedana, in attività non specificatamente connesse all’uso dell’attrezzo…
Eppure affrontando alcuni aspetti in modo specifico – anche semplicemente, cambiando il punto di vista – ho riscontrato, nel mio piccolo, che si riesce, ad esempio, a far acquisire più facilmente e più profondamente la consapevolezza di un concetto, la padronanza di un gesto.
Non voglio dilungarmi troppo nella sperimentazioni fatte, limitandomi invece a rilanciare la palla al Maestro Toràn.
Giancarlo, è possibile veramente disgiungere lo studio del tempo dalla misura?
E’ possibile e corretto, cioè, studiare in ambito di motricità, il tempo svincolato dall’aspetto dinamico che coinvolge quindi necessariamente anche lo spazio?
Parto da un tuo esempio.
Azione a propria scelta di tempo.
I due schermitori – più o meno equivalenti per età e formazione schermistica – si mettono a stretta misura.
A tira una botta a propria scelta di tempo e B cerca di pararla (para “in tempo” e non parando “a caso”).
Giustamente, come fai rilevare tu, se ha A si limita a portare la botta correttamente, senza buttar fuori la punta, B non riuscirà a parare in alcun modo.
Se però B retrocede di pochi centimetri, portandosi a misura di “quasi” di allungo, sarà A che non riuscirà più a toccarlo (se non con un percentuale di riuscita irrisoria).
Una differenza così radicale nei successi, variando una manciata di centimetri, come si spiega?
Concludo dicendo ai colleghi frequentatori del sito che un po’ mi amareggia il fatto che non si colga l’opportunità di questo intervento per confrontarsi, anche con punti di vista molto diversi, anche animatamente, su un aspetto tanto importante per la nostra disciplina…
Potrebbe emergere qualcosa di molto importante per tutti.
Passatemi la battuta un po’ cattivella : Valentina Vezzali vince Giancarlo Toràn 13 a 4.
Davide Lazzaroni

Re: La scherma e la scelta di tempo
di Giancarlo Toran
Beh, prenderle da un’olimpionica non è poi la fine del mondo. Già misurarcisi, è un privilegio per pochi. E poi, è stata Ella a scegliere l’argomento, che ha fatto centro.
Certo, qualche commento in più, e qualche spunto di discussione, mi avrebbero fatto piacere: qui da noi, usa poco. Funziona più il gossip. Pazienza.
Rispondo alla domanda. Tempo e misura, scrivevo all’inizio dell’articolo, sono inscindibili. La realtà è una: siamo noi che la sminuzziamo in bocconi, in fotogrammi, perché la nostra capacità di elaborazione è limitata, e limitati sono i nostri sensi, per numero e campo d’azione. Percepiamo certe frequenze sonore, e non altre; i nostri occhi vedono solo una fettina della grande varietà delle frequenze elettromagnetiche; e così via. E poi, del poco che siamo in grado di percepire, solo una piccola parte tratteniamo, e arriva alla nostra coscienza. Da questi incerti frammenti, costruiamo la nostra rappresentazione della realtà. E poiché siamo diversi, e diversi sono i nostri strumenti, è stupefacente che riusciamo non solo a padroneggiare l’ambiente quanto basta per sopravvivere, e neanche male; ma che riusciamo addirittura a comunicare, e a comprenderci. Beh, quasi…
Quindi, tornando a bomba: la grandezza del boccone dipenderà dalla larghezza della bocca che deve riceverlo. Sta a te, Davide, intuire quanto piccolo dovrai renderlo, il boccone, perché l’allievo possa mangiarlo. E poi dovrai aiutarlo a rielaborare il suo boccone, perché vada a integrarsi per bene con quelli mangiati in precedenza. Non c’è una regola valida per tutti. Sarebbe troppo bello, e troppo facile. O troppo noioso: non è per questo che ti affascina questo mestiere?
Il tuo esempio: nella situazione in cui la botta è imparabile, chi subisce non può, evidentemente, pararla “in tempo”. Qualche centimetro in più, e ce la farà: ma avrà comunque reagito, alla massima velocità possibile, al primo segnale di movimento. A una distanza ancora maggiore, si incomincia a notare il processo di sincronizzazione: vede partire il colpo, e si adegua a quella velocità, a quel modo di portarlo, a quella coordinazione mano-piede.
Prova, per addestrare i tuoi allievi a cogliere questo punto, a far parare, con una parata di contro, una botta dritta tirata con un passo avanti e affondo, da avversari diversi. Oppure da atleti esperti, capaci di cambiare il ritmo del passo e la coordinazione.

Re: La scherma e la scelta di tempo
di schermaonline
Rammento a tutti come il bellissimo articolo di Giancarlo Toràn è pubblicato anche su www.schermaonline.it, dove rimarrà visibile in home page per diverse settimane.
Anche su schermaonline.it c’è la possibilità di lasciare commenti e di formulare domande all’autore.

 

 

2 – La misura nella scherma

(sabato 8 dicembre 2007)

Pubblico nuovamente un articolo tecnico, “La misura nella scherma”, scritto verso la fine del 2007, ripreso più volte e tradotto per vari siti. Fu pubblicato per la prima volta da Schermaonline, e lo ripropongo qui insieme ai commenti, spesso molto interessanti, che arricchirono la discussione e ho riletto con grande piacere.

Giancarlo Toràn scrive:

Anche se godono di minor popolarità, o provocano di gran lunga meno interventi, gli articoli di carattere tecnico sono i miei preferiti.

Affronto qui a grandi linee i principi di base per comprendere la misura, e sono disponibile (anzi, mi fa piacere, tempo permettendo) a rispondere a quanti vorranno pormi domande sull’argomento. In seguito, se l’iniziativa sarà gradita, entrerò nel dettaglio delle singole armi.
La misura nella scherma

Tempo, velocità e misura: la più importante è la misura, dicevano i vecchi Maestri. Ed anche i nuovi: i presupposti per la buona riuscita di un’azione schermistica non sono cambiati.

Se la misura è così importante, dobbiamo spiegare bene cos’è, e come si allena la capacità di gestirla.

Misura, nella scherma, è la distanza fra i due avversari che si fronteggiano. Una distanza variabile, che dipende da molti fattori. Non si misura in centimetri, ma si deve saper valutare, gestire, prevedere.

Una delle prime cose che s’imparano, nelle sale di scherma, è mettersi alla distanza giusta per portare un colpo. Da fermi (senza muovere le gambe, a piè fermo, come si diceva): cioè a stretta misura; con l’affondo, e quindi a misura giusta, o d’allungo, o d’affondo; camminando, vale a dire con un passo avanti seguito dall’affondo.
L’avversario è fermo, si valuta la distanza, si decide il movimento necessario.
Nei trattati classici le misure, per gli esercizi, sono tre: quelle sopra indicate.
In testi più recenti, salgono a cinque: nella spada, ma anche nella sciabola, si può colpire il bersaglio avanzato con un passo avanti e affondo; nella spada, in particolare, è utile esercitarsi nelle rimesse a misura molto ravvicinata, al limite del corpo a corpo.
Ma è bene rilevare che si tratta di distinzioni didattiche: la realtà è molto più complessa, e le sfumature sono infinite.

Per imparare a valutare (per iniziare ad imparare), si danno dei punti di riferimento, che bisogna prendere con una certa elasticità, date la possibile differenza fra le altezze.

Per la giusta misura, ad esempio, ai tempi di Masaniello Parise ci si metteva in guardia con l’arma in linea, e con le punte che superavano le cocce avverse di circa quattro dita.
Allora la guardia di base era più ampia, e l’affondo più corto: ci si muoveva meno velocemente, considerando non la moderna pedana, ma il terreno del duello, che non permetteva errori. Oggi, un buon riferimento iniziale, più pratico, potrebbe essere quello delle punte sulle cocce.

Un esercizio utile: si prende una certa misura, ad esempio mettendosi in guardia, arma in linea, con le punte che toccano le cocce avverse (o la piega del gomito, o il petto, o la metà della lama dell’altro…); poi ci si scambia di posto, tenendo l’arma in prima posizione. Uno dei due, a questo punto, dovrà ritrovare la misura stabilita, guardando l’altro (e non riferimenti vari sulla pedana). Infine, entrambi rimettono l’arma in linea, e verificano se la misura è di nuovo quella preordinata.
Cosa si guarda, in questo caso, per la maggiore efficacia? Una domanda interessante che meriterà una risposta approfondita, in altra sede.

In seguito, s’impara a mantenere una data misura: quando l’avversario (o il Maestro, o il compagno di esercizi) fa un passo avanti, si fa un passo indietro, o viceversa, per mantenere inalterata la distanza fissata. Uno si muove per primo, l’altro segue, prontamente, ma pur sempre dopo un certo tempo, seppure minimo: il tempo di reazione semplice ad uno stimolo visivo, circa due decimi di secondo.
Essenziale, per l’efficacia di quest’esercizio, è la verifica: chi guida (chi decide se e quando andare avanti o indietro) deve frequentemente fermarsi, e controllare se la distanza è rimasta la stessa. Altrimenti, è solo ginnastica per le gambe, ma non per la mente.

Mantenere una data misura: quale, e perché?
Se l’avversario avanza per toccare, non basterebbe starne lontano il più possibile? No, e per due buoni motivi.
Il primo è evidente: non si può arretrare all’infinito, perché il terreno, la pedana, è limitata. Conviene arretrare quanto serve per non prendere la botta, ma non di più.
Il secondo lo è un po’ meno: la botta non si deve prenderla, ma bisognerà anche metterla, e per farlo si deve stare abbastanza vicini. Quando l’avversario si ferma, o non ha l’iniziativa, conviene essere sufficientemente vicini da renderci pericolosi a nostra volta.

Già, ma quanto vicini, e quanto lontani?
Non è questione di centimetri, l’abbiamo già detto, ma di sicurezza.
Se l’altro parte, devo fare in tempo ad allontanarmi.
Lo spazio che mi serve dipende dalla velocità che lui ci mette a percorrerlo, e da quella che io ci metto ad arretrare: devo vederlo, reagire, e intanto lui si è avvicinato un po’; e devo muovermi all’indietro, per tenermi fuori portata quando tirerà il colpo.
Siamo già geneticamente attrezzati per “sentire” questo spazio, e questo tempo: dobbiamo solo adattarci allo strumento che prolunga il nostro braccio, ed essere molto attenti, per non lasciarci sorprendere.

Esercizio: il mio avversario tira una botta dritta al petto (in affondo, o con uno o due passi avanti prima dell’affondo, a scelta di chi tira il colpo), e poi torna in guardia, in atteggiamento di invito.
Io arretro quanto basta per evitarla (il minimo possibile), e “rientro” con una botta dritta, quando lui torna in guardia, sempre sull’invito: in questo esercizio non si deve parare.
Per riuscire a toccarlo, devo essere pronto a ripartire, e questo richiede equilibrio e buona posizione di guardia (gambe ben piegate); e devo arretrare il minimo indispensabile.
Devo farmi quasi sfiorare dalla sua punta, se sono bravo: se ho un ottimo “controllo” della misura. Il gioco può continuare all’infinito (ottimo allenamento per le gambe) se il primo, a sua volta, dopo aver tirato il colpo, arretra per evitare quello del suo compagno di esercizi, e si tiene pronto per “rientrare” a sua volta.
E così fino a quando uno dei due non sarà riuscito a toccare: in genere, quello che ha meglio conservato l’equilibrio e la distanza, ed ha ottenuto (lasciandosi avvicinare di più) che l’altro si scaricasse del tutto, convinto di toccare.

Stare lontano è facile, e istintivo. Stare vicino è più difficile: ci si deve addestrare a farlo.
Quando si diventa bravi, la misura si “sente”.
Si avverte nettamente la differenza fra la misura di sicurezza, o di controllo, e l’esser “dentro” la misura.

Nel corso dell’assalto di scherma, si “entra” e si “esce” dalla misura.
Quando si entra (la vera “giusta” misura: molto vicina a quella di Masaniello Parise), è per tempi brevissimi: per concludere con il colpo, o per tornare al sicuro dopo aver fatto una finta, o perché le condizioni trovate (atteggiamento, movimento dell’altro) non sono quelle sperate.
Se sono pronto ad entrare, perché ho preparato io la situazione, posso far partire immediatamente l’azione risolutiva.
Se non sono pronto, perché è l’altro che ha preparato, mi accorgerò con ritardo dell’opportunità, e difficilmente riuscirò a sfruttarla, se non lo avrà già fatto lui. Ritardo: come già detto, parliamo di un ordine di grandezza intorno ai due decimi di secondo, il tempo di reazione semplice.

Da qui, l’importanza dell’iniziativa, e della provocazione.
L’iniziativa è di chi avanza per primo; la provocazione efficace (invito, azione sul ferro, finta – col ferro o col corpo) è di chi entra in misura per sua scelta e iniziativa, o decide il momento in cui lascerà che l’altro (cui ha ceduto l’iniziativa) possa entrare.
Il controllo stretto (al limite dell’entrata in misura) permette una provocazione efficace.
Come ho già scritto altrove, da un punto di vista tattico le misure importanti sono due: quella di controllo, e quella di azione.
Fuori, e dentro: ma appena fuori, se il controllo è buono.
Ho chiamato “zona critica” o “punto critico” la zona di confine: dove funzionano le finte, per i vari usi che se ne possono fare (per colpire, scandagliare, bloccare, programmare l’altro, ecc.).
Un atleta esperto sa porsi al limite della zona critica, e restarci con tranquillità.
Da lì può tenere sotto pressione l’avversario, e punirlo con facilità e prontezza quando sbaglia: e lo fa muovere, più volte e nei due versi, per farlo sbagliare di più, e per interpretarne meglio possibilità ed intenzioni.

E se entrambi gli avversari sono esperti? Qui siamo nel vivo della scherma: i campioni prevedono, programmano, e scommettono.
Anche se, molto spesso, non si rendono neanche conto di farlo.

Prevedono: se parto per raggiungere il mio avversario, che è fermo, valuterò la distanza da percorrere. Ma, non appena mi muovo per raggiungerlo, lui potrà anche arretrare, rendendola più lunga; o avanzare, abbreviandola.
Se avanzo “a vedere”, cioè lentamente, l’altro può facilmente andar via.
Se attacco al massimo della velocità, l’altro può frustrarmi chiudendo la misura.
Se, però, gli ho dato i segnali giusti (più volte in precedenza, programmandone in qualche modo le risposte; o subito prima, ingannandolo sulle mie intenzioni alla partenza), posso prevedere quello che farà.
La certezza, però, non l’avrò mai.
Devo scommettere con me stesso che sarà così, e rischiare.
Se sarò determinato, capiterà spesso che l’azione sbagliata possa avere successo; se esiterò, potrò facilmente trasformare in errore l’azione giusta.
Perché? Provo a chiarire con un esempio. Se parto deciso in controtempo (entro in misura fingendo l’attacco, per parare l’uscita in tempo) ma l’altro non tira, io paro a vuoto e completo l’azione tirando il colpo, avrò buone probabilità, pur avendo sbagliato la previsione, di mettere a segno la botta: se l’errore non è dovuto alla maggiore intelligenza dell’altro, mi resterà il vantaggio dell’iniziativa.
Inoltre, se non mi ha fermato con una contraria (una finta in tempo, ad esempio), quasi certamente neanche lui ha previsto, e quindi il seguito è lasciato al caso, ed agli automatismi.
Se, invece, ho previsto giusto, ma esito entrando in misura, la mia esitazione potrà farmi parare in modo insufficiente, o darà il tempo all’altro di rimediare in altro modo.
Morale: se hai deciso, vai e non voltarti indietro.
In altre parole: quando si entra in misura, le azioni diventano a circuito aperto. Non c’è tempo per rielaborare il feedback (come nelle azioni dette a circuito chiuso). C’è un tempo per elaborare (misura lunga) e un tempo per agire (misura breve, o di azione).

Ora, possiamo approfondire un po’ qualche altro dettaglio.

Se devo parare, o devo colpire, l’efficacia del mio gesto dipenderà dalla velocità di entrambi.
E’ più difficile parare un colpo velocissimo, piuttosto che uno lento (a parte il cosiddetto “tempo falso”, che è un’altra cosa). Controllare significa reagire dopo aver visto (più in generale, dopo uno stimolo sensoriale), secondo un dato programma.
Nella scherma ciò porta spesso a muoversi nella stessa direzione dell’altro: se lui avanza, io arretro; e viceversa, perché anche chi avanza controlla, per attaccare dalla misura adatta (e dopo aver trovato le condizioni adatte).
Questo fa sì che la velocità relativa di un attacco, che è quella che conta, possa essere drasticamente ridotta, muovendosi rapidamente nella stessa direzione, arretrando.
Un arresto di spada (l’arma in cui la differenza di tempo apprezzabile è determinata dal cronometro, ed è minima: metà di un decimo di secondo) al bersaglio avanzato, ad esempio, può essere tirato con una certa tranquillità, se siamo bravi ad arretrare rapidamente: perché la velocità relativa del colpo in arrivo diventa molto bassa.
Addestrare l’allievo a questo è importante: a volte, la fretta di arrivare prima porta a tirare il colpo troppo presto, col braccio contratto.
Non si fa a tempo ad angolare, ad opporre correttamente, o a dirigere bene la punta.
Bisogna addestrare l’allievo a sentirsi tranquillo (se le gambe sono pronte) con la punta dell’avversario ben vicina al proprio corpo; o a tirare ad un bersaglio sufficientemente arretrato, col solo vantaggio di qualche centimetro: con velocità relativa prossima a zero, è più che sufficiente per evitare il doppio. Per ricercarlo, invece, conviene andare incontro all’avversario, sommando le due velocità.
Gli stessi principi si possono applicare alle parate, o agli attacchi. Richiedono anch’essi un controllo attento della misura, e quindi della velocità relativa: anche, ma non solo.

Se siamo di altezza e velocità diversa, la zona critica non sarà la stessa per entrambi (senza contare la profondità differente cui poter colpire, se vi sono anche i bersagli avanzati, che richiedono abilità particolari).
Posso sentirmi al sicuro ad una certa distanza, che però è troppo lunga per il mio avversario: per entrare in misura, lui dovrà avvicinarsi un po’ di più.
Sarò avvantaggiato se riuscirò a tenere il mio avversario fra le due distanze critiche, la mia e la sua: io sarò sempre al sicuro, lui sempre in pericolo.
Il costo maggiore, anche in termini di risorse mentali (l’attenzione ha un costo elevato), lo sopporterà lui: che avrà interesse a tenersi fuori dalla maggiore delle distanze critiche, o a superare con la massima rapidità l’intervallo in cui è il solo ad essere in pericolo.

A————————>B
A…….<——————-B

Altezza e velocità, di entrambi, determinano le distanze critiche.
In genere, chi è più piccolo è anche più rapido, e in qualche modo compensa la differenza.
C’è però un altro fattore, molto importante, da prendere in considerazione: quello psicologico. <
Alla base di tutto, c’è la valutazione della distanza, che è fortemente influenzata dagli stati d’ansia.
Si tende a sentirsi sicuri da una distanza maggiore di quella necessaria, o semplicemente la si legge male: come quei bambini che disegnano le monete più grandi, se sono più poveri.
Riuscire a star tranquilli e rilassati, ma ben reattivi, a distanza ravvicinata, è una grande virtù: e bisogna lavorare molto e bene, anche su altri piani, per acquisirla o rafforzarla.

Appare chiaro, ora (me lo auguro, almeno), che la battaglia vera, preliminare, non si fa sul piano delle contrarie tecniche (io paro, tu fai la finta e cavazione), ma sul piano della misura.
Può accadere che entrambi, convinti di aver capito le intenzioni dell’altro, acconsentano insieme all’entrata in misura: a quel punto, si confrontano le azioni tecniche, e si vede chi ha previsto giusto.
Come al poker, insomma.
Più spesso, si entra in misura dopo una vera battaglia: vince chi ha potuto stabilire il tempo, il momento esatto dell’entrata in misura, quando l’altro non è pronto.
Dalla misura siamo arrivati al tempo: ma questo è un altro argomento, anche se strettamente legato al primo.

Giancarlo Toràn

———————

COMMENTI

Con questo lussuoso pezzo di Giancarlo, riapre i battenti anche schermaonline.it dopo una pausa di qualche mese legata a problemi tecnici. Buon divertimento.

 

8 dicembre 2007

Re: La misura nella scherma (Voto: 1)
di mochicraft

Grazie per il bell’articolo, anche io non essendo un tecnico lo dovrò prima ben metabolizzare.
Ma non so se mai potrò porre domande !!
grazie ancora , Sergio

 

di schermaonline
Questa volta mi sento in dovere di intervenire, malgrado sia l’editore di questo sito e dovrei assumere una posizione neutra su ogni questione.
Chi se ne frega, però, della neutralità, e dunque mi chiedo, ma chiedo a tutti: possibile che in un sito dedicato alla scherma non ci sia qualcuno che desideri intervenire su argomenti tecnici così fondamentali per questa disciplina?
Mi chiedo: ma i maestri di scherma, quelli cioè che hanno acquisito questo benedetto diploma e si fregiano del relativo titolo con legittimo orgoglio, non si sentono interessati e gratificati dalla prospettiva di un dialogo stimolante con i propri colleghi, o anche semplicemente con gli atleti e i semplici appassionati?
In passato questo genere di contributi – buona parte dei quali ci è stata fornita dal Presidente dell’AIMS, non da uno qualsiasi – è stata sostanzialmente ignorata dal pubblico, in termini di partecipazione alle discussioni.
In conclusione: lo scenario è demoralizzante, ma schermaonline va avanti dritto per la propria strada: sperando che almeno i posteri daranno ragione a questo tipo di operazioni culturali.

 

Re: La misura nella scherma di schermaboh

Carissimo Maestro Toran, carissimo Schermaonline,
Questo articolo – che per me non è un articolo, ma un regalo di Natale! – è già stampato sulla mia scrivania.
Per quello che mi riguarda, prima di poterlo “commentare” e prima di poter approfittare del Maestro, come già ho avuto il piacere di poter fare, passerà del tempo, perché per me non è affatto semplice.
E’ bellissimo che Schermaonline e i Maestri che offrono il loro contributo, pensino anche a chi non sia ferrato nella tecnica schermistica. E posso intuire che anche i super esperti possano trarre beneficio da un confronto diretto, offrendo, con il loro discutere, un secondo regalo a chi ne sappia meno, come me.
Schermaonline, con il suo commento, mi ha ricordato una cosa importante:
davanti a un contributo di questa portata, prima ancora di stampare per leggere con calma, è giusto ringraziare, come è naturale fare quando si riceve un dono, soprattutto se così gradito.
Quindi Grazie a Giancarlo Toran (minaccio di tornare con le mie terribili domande da neofita!!)
Grazie a Schermaonline per le quotidiane sorprese.

 

Re: La misura nella scherma
di enricodiciolo

Complimenti al Presidente dei Maestri, che scrive su schermaonline un articolo tecnico, dimostra la volontà di far crescere il dialogo e il confronto nell’ambiente.
Gli articoli tecnici, a differenza di quelli che spettegolano o trattano argomenti politici, qui su schermaonline, di solito sono poco apprezzati. Secondo me, non hanno accoglienza perché mancano cultura specifica e motivazioni abbastanza forti per accrescerla. C’è chi, addirittura, dice di informarsi su altri siti (migliori di schermaonline!!) o su libri specialistici. Palle, sono tutte palle! Probabilmente la verità è che noi italiani siamo troppo bravi, siamo campioni del mondo di tecnica schermistica, non c’è fame di apprendimento.
Se dovessi fare un commentino tecnico a questo articolo direi che le misure si possono classificare su tre piani:
– della sicurezza
-della preparazione
-della stoccata
La misura giusta, non è solo quella definita dal trattati. Dato che si può toccare anche facendo un passo il concetto di giustezza dipende dal fatto di toccare o non toccare.
Saluti agli atleti, ai dirigenti, ai maestri. Auguri a tutti, con la preghiera di estenderli anche ai parenti. Enrico Di Ciolo

 

Re: La misura nella scherma

di schermaboh

Mi è sorta una curiosità riflettendo sull’articolo e poi andando a cercare alcuni riferimenti sul Masaniello Parise.
Forse la domanda che pongo è un po’ fuori luogo, ma confido sulla tua tolleranza di Maestro (o di chi vorrà rispondermi).
Il concetto di “misura” ha senso solo nella relazione che si costituisce tra gli avversari, se ho ben inteso.
Se devo entrare, uscire, sciogliere, aumentare o diminuire la distanza, ha senso che lo faccia solo in considerazione del comportamento, dello stile dell’avversario. Dato che non c’è tempo per la valutazione del feedback, perché in due decimi di secondo non riesco nemmeno a pensarlo un termine come “retroazione”… allora diventa, come dici tu, una questione di previsione, scommessa, un pizzico di azzardo, eventuale conoscenza dell’avversario, pregressa oppure nuova, derivata da qualche operazione di scandaglio… poi, probabilmente, l’istantanea valutazione di rumori, micromovimenti anticipatori, l’osservare i piedi e tanto altro ancora che si declina in tante sfumature che non immagino.
Dunque la prestazione mentale e l’attenzione, il saper interpretare la situazione mentre si snoda, ha un’importanza quasi pari alla prestazione fisica e tecnica.
Del resto, nel tuo pezzo, c’è un continuo riferimento ai processi mentali: riporto solo quelli che ho creduto di aver meglio afferrato

” …(la distanza) non si misura in centimetri, ma si deve saper valutare, gestire, prevedere…”
“un atleta esperto sa porsi al limite della zona critica e restarci con tranquillità”
“i campioni prevedono, programmano, scommettono”

Poi parli dei possibili esiti di un’azione, dipendenti dalla determinazione, o esitazione dell’atleta nel compierla e dici una cosa secondo me molto importante: dici che quand’anche una certa azione si basi su una previsione sbagliata, se viene portata avanti con decisione, manterrà il vantaggio dell’iniziativa ed è possibile che vada comunque a conclusione… a meno che non mi accorga che il mio errore di previsione sia dipeso dalla maggiore intelligenza dell’altro…
Poi dici “la valutazione della distanza è fortemente influenzata dagli stati d’ansia”
e fai un esempio (quello della moneta) molto chiaro.

Come dicevo, ho provato a leggere qualche concetto tra quelli di Masaniello Parise e mi sono accorta della profonda, esagerata differenza di stile.
Certo, quello è un testo tecnico, accademico e per forza di cose didascalico e immagino che il motivo stia nel fatto di dover contenere in un testo una quantità notevole di argomentazioni, definizioni e spiegazioni.
Ma mi domandavo se sia davvero possibile, nella scherma come oggi viene intesa, una divisione così netta tra la tecnica e i processi mentali sottesi.
E’ davvero possibile prepararsi su un testo che scorpora nettamente due discorsi che invece tu nei tuoi testi, per esempio, credo che – anche volendo – non sapresti proprio scindere (o almeno è questa la mia impressione)?

Ho fatto un gioco, forse un po’ insulso, ma è stata comunque una questione di cinque minuti:
Io ho il trattato di M.P. su PDF e come si sa, su questo formato elettronico è particolarmente facile la ricerca di frasi, parole, concetti all’interno di un testo.
Nel corso di più di 300 pagine, non esistono parole come “attenzione”, “mente”, “previsione”, “valutare-valutazione”;
la parola “intelligenza” appare una volta sola (!) in una frase a mio parere discutibile:
“Impariamo che la scherma è il mezzo più facile ad ottenere la sveltezza del corpo, accompagnata dalla conseguente sveltezza dell’intelligenza”
E qui si chiude il discorso sull’intelligenza.
Anche il termine “reazione”, appare una sola volta.
L’elenco dei termini che oggi spesso si associano alla scherma e che nel trattato mancano totalmente, sarebbe lungo (ci avevo preso gusto a cercare) e se qualcuno si incuriosisce può controllare ripetendo per suo conto il gioco… il punto è che sento dire che questo tipo di testo sia tutt’ora ritenuto valido a livello di Scuola Magistrale.

Certo, nella preparazione di chi studia c’è l’esperienza, la pratica, ciò che si vede e si sente tutti i giorni… ma le parole scritte, quelle che per esempio bisogna ritenere per poi rispondere a un esame, credo siano importanti e credo che lascino un’impronta non trascurabile.
Quindi, cosa mi sfugge? dove sbaglio nel rimanere perplessa?

 

Re: La misura nella scherma
di Giancarlo Toran
Cara schermaboh, non sbagli proprio niente. Ti ringrazio per gli apprezzamenti, e con te ringrazio anche tutti gli altri, che hanno dimostrato di gradire.
Anch’io, all’inizio della mia ricerca, restavo perplesso: leggevo che tempo, velocità e misura erano le cose più importanti. Ma sul libro, su tutti i libri, si parlava d’altro. Nel 1985 fui invitato da Renzo Nostini a partecipare al corso ACNOE per tecnici europei, a Roma. Riunì nel suo studio tutti i tecnici invitati, e chiese ad ognuno di scegliere un argomento. Fui interpellato per ultimo, e dissi che avrei trattato tempo, velocità e misura. Nostini mi guardò, e disse: “Ma che c’è da dire?” Risposi: “Ci penserò io”. Per mia fortuna, ebbe fiducia, e mi lasciò fare.
Masaniello Parise era un Maestro militare, e scrisse un ottimo trattato, per quell’epoca. Ma si trattava pur sempre, come si diceva, di ‘meccanica’. Classificazione e descrizione di tecniche, movimenti, coordinazione, e poco più. Nessuno scriveva dei fattori fondamentali: perché è difficile, perché non si possono facilmente misurare. Lo stesso Nostini, nel suo trattato, descriveva la scelta di tempo come quella del giaguaro che sta per saltare sulla sua preda, o cose così. E ancora oggi si sentono tante belle poesie, che catturano la fantasia, lasciano magari belle sensazioni (nei casi migliori), ma nulla di concreto in mano. Non è che io non ami la poesia: ma è un altro livello di comunicazione, e non dovrebbe essere confuso con quello più concreto della scienza.
Non credo che oggi si possa parlare in modo concreto di scherma senza fare un costante riferimento ai processi mentali. Non è affatto facile. Pochi si avventurano su questa strada: è facile inciampare, dire sciocchezze. Per conto mio, preferisco rischiare, piuttosto che attendere.

 

Re: La misura nella scherma
di schermaboh
Grazie per la tua gentilissima risposta.
Anche per chi, come me, non abbia competenze specifiche, è facile avere l’impressione che testi come quello di M. P. dovrebbero avere un’importanza storica e non pratica e didattica.
Non perché contenga “errori tecnici” (io questo non lo posso proprio sapere), ma perché il linguaggio, il modo di intendere e di presentare la scherma, l’omissione di impliciti che oggi sono sempre più importanti, ne fanno un testo che potrebbe essere fuorviante, a livello subliminale, facilitando schemi mentali oggi poco corretti.
Naturalmente un libro non fa il maestro, ma data la questione, ampiamente dibattuta, della attuale impossibilità di offrire una Scuola completa, aggiornata e presente nel percorso teorico-pratico e mentale del Maestro in formazione, allora la scelta dei testi diventa secondo me abbastanza importante rispetto a quello che potrebbe diventare il futuro stile di insegnamento e modo di pensare.
Non è un caso se le edizioni scolastiche rinnovano i testi a ogni battito di ciglia: di sicuro è una strategia commerciale tesa al massimo guadagno, ma non credo sia solo e unicamente questo: in uno o due anni forse non cambia molto, ma se prendo un testo di cinque o sei anni fa – parlando di quasi ogni possibile materia trattata – e la confronto con un testo aggiornato, già mi accorgo di alcuni cambiamenti opportuni… se poi vado a vedere i miei vecchi testi scolastici, dalle elementari all’ Università (il testo più recente ha almeno vent’anni), sorrido quasi a ogni pagina, per motivi vari, alcuni dei quali importanti.

Mi è piaciuta molto la tua conclusione, in cui dici di preferire, nel contesto specifico, il rischio all’attesa (messaggio bellissimo che, come avrai visto nel commento sotto, ha colpito anche Giusetrive).
Per fortuna hai sempre pensato così: se dal tuo esempio (quello di Nostini) datato 1985, a oggi, siamo ancora alle “poesie” (con tutto il rispetto per i Poeti che adoro e frequento), mentre la scienza continua a faticare per farsi accogliere in alcuni ambiti della scherma… sarà proprio opportuno non aspettare affatto, per te che sai descrivere la complessità con parole semplici, invece di aggirarla, e non cedi mai alla tentazione di confermarne la “non accessibilità”, utilizzando ermetismi, per autogratificarti. Sai vedere e descrivere un’azione senza tagliare i suoi legami naturali con la psiche, e fai questo da decenni.
Non immagino proprio, nel tuo caso, dove possa essere il “rischio” 🙂

 

Re: La misura nella scherma
di esedra

“… la parola “intelligenza” appare una volta sola (!) in una frase a mio parere discutibile:
“Impariamo che la scherma è il mezzo più facile ad ottenere la sveltezza del corpo, accompagnata dalla conseguente sveltezza dell’intelligenza”
E qui si chiude il discorso sull’intelligenza …“

“… il linguaggio, il modo di intendere e di presentare la scherma, l’omissione di impliciti che oggi sono sempre più importanti, ne fanno un testo che potrebbe essere fuorviante, a livello subliminale, facilitando schemi mentali oggi poco corretti.”

Forse dovresti considerare, quello di Masaniello Parise, esclusivamente un trattato dove un Maestro illustra la tecnica schermistica.
Potrebbe egli, o chiunque altro, illustrare come si fa a essere intelligenti?
Non mi sembra così ‘discutibile’ quella sua frase e non credo che Parise abbia sottovalutato il discorso sull’intelligenza: lo ha proprio considerato, io credo, come elemento determinante da associare a quello del fisico.
L’intelligenza, infatti, se è un dato di partenza, può facilitare sia l’apprendimento della tecnica che l’elaborazione della strategia e la scherma ben eseguita rende agile e scattante il corpo e la mente che lo deve assecondare e indurre.
Il trattato di M. Parise vinse nel 1882 un concorso per la redazione di un vero manuale per l’insegnamento della scherma di spada e di sciabola. Quindi stiamo parlando di metodologia didattica. Credo che la fatica per un’elaborazione di questo tipo, all’epoca, fu enorme e le conoscenze di psicologia e di neurologia non erano tali da consentire all’autore alcuna applicazione alla materia trattata. Saprai molto bene, per esempio, che solo nel 1979 la Psicologia dello Sport è stata riconosciuta materia fondamentale nella Medicina dello Sport, proprio con l’organizzazione delle Prime Giornate di Psicologia dello Sport.
Parise ha scritto, a mio avviso, un testo eccellente con magnifiche tavole sinottiche, e descrizioni accurate di tutte le azioni, sia quelle più semplici che quelle più complesse, associandovi anche gli esercizi che il maestro deve far eseguire all’allievo per fargli imparare ognuna di quelle. Un lavoro, per l’epoca, superbo. E che oggi, logicamente, viene integrato da quegli altri ragionamenti e riflessioni, egregiamente messi a fuoco e spiegati dal Maestro Toran (egli è Maestro anche nell’uso della parola), che costituiscono acquisizione naturale per gli schermidori, bagaglio conquistato con l’esperienza e inscindibile dalla tecnica codificata dal Parise.

Intendo dire che certi meccanismi di gestione della misura e della velocità applicate all’arresto, alla parata, all’attacco vengono, col tempo, naturali a uno schermidore, a prescindere dal fatto che egli riesca a individuarli in un discorso teorico. Mi rendo conto, però, che la consapevolezza di certe dinamiche mentali e psicologiche aiuti un Maestro a comprendere meglio il proprio atleta e ad adattare lezioni e correzioni, ma credo che, anche un secolo fa, il concetto di misura fosse nel cervello e nel braccio di uno schermidore.

E la misura, io credo, sia soprattutto istinto. Ricordo di avere ammirato, fino a qualche anno fa, un giovane spadista siciliano stupendo: aveva un senso della misura straordinario e, poiché era anche molto intelligente, ne faceva un uso fantastico. Era la sua marcia in più: egli sapeva sempre dove trovarsi per essere solo sfiorato dall’avversario, riusciva a rimanere immobile contro un attacco che capiva subito essere corto di appena un millimetro. E a nulla valeva osservarlo: non si imparava da lui quella misura sempre perfetta, si ammirava solo. Il suo Maestro a nessun altro aveva potuto insegnarla e, forse, non l’aveva insegnata neppure a lui.

Insomma, un po’ come accade nella… poesia. Si può leggerla e capirla ma farla è tutta un’altra storia.

 

Re: La misura nella scherma
di schermaboh

Proprio per tutte le apprezzabili ragioni che tu mi illustri, più altre che più persone mi hanno fatto notare, considero quello di Masaniello Parise una preziosa Opera (per altro non alla mia portata nella maggioranza dei contenuti). E’ un’Opera storica, appunto.
Non ne sottovaluto il valore, tanto è vero che, come specificavo, ho questo testo tra i miei ebook in PDF e nel tempo ne ho letto una buona parte, forse tutto.
Ho il dubbio che venga considerato testo didattico solo in quanto, ad oggi, non esiste un trattato, un manuale completo e aggiornato che possa sostituirlo. Se davvero così fosse, niente potrebbe togliermi dalla mente che non si possa vedere la situazione come vanto ed onore.
Stiamo parlando di un opera pubblicata nel 1884 “Approvato come testo dai Ministeri della guerra, della Marina ed Istruzione Pubblica”.
So bene che a tempi le conoscenze che oggi abbiamo non c’erano… infatti non contesto di certo che AI TEMPI, i Maestri si preparassero con quelle nozioni e attraverso quel linguaggio
Per esempio, Freud è e sarà sempre il fondatore della psicoanalisi, quindi un buon psicoanalista di oggi (e del futuro) sicuramente ha studiato con attenzione i suoi testi (scritti per altro nello stesso periodo: a partire dalla fine dell’Ottocento), ma ti assicuro che nessuna Scuola di specializzazione in psicoanalisi, abiliterebbe e iscriverebbe all’albo uno psicoanalista che si sia formato sui testi di Freud e che non consideri la conoscenza di Freud semplicemente come una delle basi; il 10% (per essere larghi) della sua preparazione storica e teorica. Seppure, di fatto, il linguaggio della psicoanalisi sia nato con Freud ed sia cambiato solo in minima parte (quindi l’esempio non sarebbe nemmeno equo, dato che M.P. non risulta essere parallelo fondatore della scherma).

Come mi ricordi, la specializzazione in psicologia dello sport nasce alla fine degli anni ’70, ovvero trent’anni fa!! Se davvero questo volesse dire che è troppo presto per pretendere qualche timido effetto, perlomeno nel linguaggio, allora mi chiederei: che c’è di strano se la “bella addormentata” ha dormito nel bosco duecento anni? E come si è permesso il Principe di svegliarla? Dormiva così bene…

Può darsi che la misura sia una questione d’istinto: su questi argomenti non mi azzardo ad esprimermi, ma per quanto riguarda i Maestri, non mi piace che un buon Maestro lo sia per “istinto”.

Come per tutto il resto esiste, certamente, la vocazione e l’attitudine e anche l’intuito, ma deve esistere una degna preparazione, attenta nei contenuti. L’istinto di un Maestro deve essere come minimo un istinto sapiente e l’intuito (ben venga) deve nutrirsi di conoscenza, altrimenti siamo nel pressappochismo e speranelSignore.
Alcune maestre (e maestri) elementari del passato davano sonore battute e umiliavano d’abitudine gli alunni… lo facevano con “materno istinto”… soprattutto quando erano segretamente tristi e nervosette (nervosetti). Ed era un fatto indipendente dalla loro sincera capacità di commuoversi davanti alla poesia.
Il loro era un istinto-ignorante. Se lo facessero adesso, giustamente, la loro disgraziata ignoranza verrebbe delicatamente sottolineata.

Forse è vero che non si possa illustrare il modo per essere intelligenti (ti dirò che io la penso diversamente, ma non voglio uscire dal tema), ma ti assicuro che l’intelligenza si può descrivere, definire, allenare, usare, accrescere, scindere in più argomenti, comprendere, guardare concretamente e – per quello che riguarda il nostro discorso – applicare. Naturalmente non può farlo Masaniello Parise.
In ogni caso, quello che ho creduto di aver espresso nel mio commento è il fatto che il linguaggio che viene usato nell’insegnare una disciplina, a prescindere dai contenuti , ha la sua importanza.
Un Maestro insegna una disciplina, ma lo potrà fare in vari modi, secondo la metodologia, gli schemi mentali, il modo di rappresentarsi quella disciplina e gli scopi dell’insegnamento stesso.
Ecco perché la storia, per quanto sia fondamentale e degna della massima attenzione, deve restare al suo posto che è comunque un posto d’onore.

Anche la scienza, come la poesia, si può leggerla e capirla, ma farla implica altro.
Non credo sia necessario – immagino ne sia anche tu convinta – scegliere tra il beneficio di una buona Scienza e una buona Poesia: ciascuno sceglie le proprie occupazioni e passioni, ma tutti, come Società, possiamo sperare nell’equilibrio di una Cultura ricca, in quanto completa, e con ogni cosa al suo posto.

 

Re: La misura…
di esedra
Credo che il trattato del Parise abbia influenzato la didattica schermistica fino a poco tempo fa e che il suo valore non sia, a tutt’oggi, solo storico.
La tua, però, e per quello che ho inteso io dei tuoi precedenti commenti, mi era sembrata una bocciatura troppo drastica di quel manuale: “… potrebbe essere fuorviante, a livello subliminale, facilitando schemi mentali oggi poco corretti.” Lo avevi valutato come schematico, arido e negativo nel suo mettere fuori strada. Così ne ho ‘difeso’ certe caratteristiche, ritenendole ancora valide, ancorché bisognose di integrazioni più attuali.
Peraltro, ho sottolineato la data di nascita della “Psicologia dello Sport”, non per la sua distanza da noi (28 anni) bensì dal Parise (95 anni) e, cioè, per ‘giustificarne’ certe angolazioni nette della sua impostazione didattica. Dunque, lasciamo pure che il Principe baci ‘la bella addormentata’ …

A proposito di risvegli, ho espresso il mio parere sull’istinto nella misura, perché l’articolo del Maestro Toran ha risvegliato in me ricordi e convinzioni accumulate nel tempo e sollecitato nel mio percorso mentale alcune associazioni e riflessioni. Non credo che esprimere questa opinione sull’istinto nella misura (peraltro condivisa da molti) sia ‘azzardato’: quello della ‘non competenza’, e quindi della presunzione, è un concetto che hai espresso tante volte, parlando con me, e non mi sembra equilibrato. A tutti noi fa piacere parlare ed esprimere giudizi, anche se ognuno sceglie le forme che crede: basta accettare il pensiero contrario e saperne discutere. D’altra parte il Maestro Toran non si è rivolto solo a colleghi e campioni.

Sempre restando nel tema dell’ “istinto”, non ho assolutamente detto che “…un Maestro lo sia per “istinto”. Né che l’intuito, di maestro e di atleta, non debba ‘nutrirsi di conoscenza’! Non ho detto che l’intelligenza non possa essere affinata e non lo ha detto neppure quel ‘rozzetto’ di Parise che ha riconosciuto anche alla scherma la capacità di sveltirla.

Così come non avevo compreso che volevi, in buona sostanza, evidenziare l’importanza del linguaggio nell’insegnamento, cioè della sua forma.
Condivido, infatti, il concetto e penso che l’articolo di Toran sia perfetto come traccia di riflessione e di lavoro per un Istruttore o un Maestro: oggi Giancarlo Toran, Maestro dei Maestri, è un protagonista pregevole nell’arte dell’insegnamento e sa esattamente, quando parla o scrive, non solo di cosa stia trattando (competenza tecnica) ma a chi stia destinando il suo messaggio (competenza didattica) e, con questo articolo, ce lo ha dimostrato.
Penso, anche (potrei sbagliare, ovviamente), che certi argomenti avrebbero trovato consenso pure 100 anni fa, se solo vi fosse stata l’abitudine ad affrontare certe tematiche. Magari la parola ‘psicologico’ non avrebbe trovato spazio, ma il problema della paura di un avversario forte o più alto o più veloce, i concetti di misura e strategia, lo ‘stile’ di uno schermidore – tanto per fare degli esempi – insomma certe elaborazioni a contorno della rigida tecnica, appartenevano, penso, anche allora al bagaglio di un Maestro e non sfuggivano al suo programma di insegnamento.

In ultimo, Boh, mi piacerebbe capire perché parli di ‘maestre elementari del passato che umiliavano alunni, segretamente tristi e nervosette, sinceramente capaci di commuoversi davanti alla poesia, ma con un istinto ignorante e disgraziato, che adesso andrebbe delicatamente sottolineato…’.
Dal momento che non colgo il confronto con la scherma né il nesso con quanto io ho detto sull’istinto nella misura, riesco solo a percepire un riferimento forzato e sgradevole… offensivo, temo, nella sua intenzione. Spero di sbagliare.

 

Re: La misura… (Voto: 1)
di schermaboh

Prima di tutto cercherò di spiegarmi meglio dove mi hai fraintesa, anche se questo mi costerà il fatto di rinunciare a un comodo “sottinteso” per dire invece a chiare lettere ciò a cui avevo alluso.
Ma è giusto, in fondo, parlare chiaro.
Con l’esempio della “maestrina nervosetta e ignorante”, non mi riferivo a te, Esedra: non ti conosco e, per quanto il dialogo con te fin ora non mi sia parso piacevole (ma tutto può cambiare, se si vuole) non userei, per descriverti, quello che per me è uno dei peggiori insulti: il maltrattamento dei bambini.
La mia metafora, se così posso definirla, allude a un’altra cosa che ho ben visto e sentito:
un maestro (che in questo caso scrivo in minuscolo) di scherma che dava del “povero imbecille senza speranza e handicappato che mi ruba il tempo” a un bimbo che era rosso in viso. Voleva evitare di piangere (penso io) forse perché, non essendo affatto imbecille (e comunque mai quanto quel caro maestro) aveva intuito che per un tipo così ignorantaccio e rozzo, il fatto che il bimbo piangesse, sarebbe stato segno di scarsa “virilità” e questo avrebbe come minimo alzato il tono della sua voce nell’insultarlo, tono che già si avvicinava, probabilmente, al terribile grugnito di un essere preistorico, almeno per come io mi raffiguro l’anello di congiunzione tra una belva e le prime scimmie (l’umanità arriva poi, molto “poi”).
Di scene poco edificanti ne avevo viste altre, ma mai, devo dire, di quell’affascinante portata, ai confini della realtà. Avrei dovuto chiamare Piero Angela per un documentario sul ritrovamento di quel miserabile fossile.
Ecco perché ho tanto sottolineato che forse i Maestri potrebbero provare a prepararsi su trattati che non arrivino direttamente dai luoghi di guerra, o quasi (altro che poesia!)
Anche perché, comunque, di schermitori in divisa bianca e scarpine che costano quanto un diamante, se ne vedono pochi, in prima linea in guerra (grazie a Dio).

Volentieri accetto l’invito a parlare di tecnica schermistica pur non sapendone nulla (effettivamente anche i Maestri fanno capire che non c’è niente di male). Allora azzardo a dire che quando suono il pianoforte e le dita vanno, ho l’impressione che tutto sia solo nelle dita, slegato dal resto, e che la mente non concorra affatto. Anch’io lo vivo come una sorta di istinto che non saprei spiegare… poi invece mi ricordo COME ho fatto ad arrivare a quell’istinto e in che modo il cervello musicale si sia “spostato nelle dita…” Ricordo la pazienza dei miei insegnanti, le mie ore di studio e concentrazione, i miei errori e lo strazio per le orecchie di quando, pur cogliendo la “misura” al pianoforte, non ne azzeccavo gli accenti e lo stile e qualcuno me lo spiegava con parole e concetti complessi che piano piano imparavo a capire nel loro significato profondo e questo cambiava il modo di muoversi delle mie articolazioni. Il polso “cambiava” e così ogni falange. E a mano a mano che la competenza musicale si aggiungeva all’esercizio, quella “misura” diventava non più solo misura di spazio, di tempo e di velocità, ma anche di effetto e di valore… e i vicini di casa quasi non osavano più bussare quando dimenticavo la sordina.
Anni, modelli, esempi e parole e tutta l’intelligenza dei miei insegnanti unita alla mia, che si sviluppava, perlomeno a livello musicale 🙂
Se il discorso, per la scherma fosse vagamente simile… allora altro che “istinto” e “braccio”:
Protagonista è sempre il cervello, anche se il braccio (e che sia in forma) è indispensabile.

Probabilmente, come tu mi fai notare, anche nell’Ottocento ci saranno stati insegnanti attenti e preparati in maniera completa ad insegnare, a prescindere dalla disciplina insegnata, ma non basta: c’è sempre e comunque un abisso tra il concetto di scherma e di schermitore dell’Ottocento e il concetto che ne abbiamo oggi: Te li vedi Nedo Nadi e Aldo Montano, sottobraccio, andare in palestra insieme? O anche solo prendere una birra e fare una chiacchierata a proposito di scherma… vuoi sapere come andrebbe a finire, secondo me, “lo strano incontro”? Nedo Nadi sfida a duello all’ultimo sangue Aldo Montano il quale gli risponde che non è il caso che si disturbi, dato che, dopo aver ascoltato le sue idee, preferisce suicidarsi da solo 🙂 )))) (con rispetto per Nedo Nadi, si fa per scherzare).

 

Re: La misura…
di DomPatti

Gentile schermaboh,
solo alcune precisazioni che forse attenueranno la diatriba con Esedra.

Il trattato di Masaniello Parise è stato scritto nel 1884, come è già stato detto; va ricordato che, all’epoca, la scherma non era una disciplina sportiva ed il trattato del Parise, dopo un bando di concorso, venne scelto dal Ministero della Guerra per uniformare l’insegnamento della scherma nell’esercito, nacque infatti La Scuola Magistrale Militare di Roma. La scherma era ancora, principalmente, intesa come “l’arte di offendere e difendersi usando un’arma bianca”. Ricordiamo che era intitolato “Trattato di spada e sciabola…..” non si parlava di fioretto, che all’epoca era considerato un attrezzo didattico e non un’arma “pratica”. La sciabola era l’arma in dotazione all’esercito e la spada era l’arma regina nei duelli. Quindi gli scopi dell’insegnamento erano ben diversi da quelli, prettamente sportivi, di oggi. Quello del Parise è un trattato tecnico, cioè che insegna il “gesto tecnico”. L’intelligenza schermistica, la psicologia, la tattica, etc., sono tutte cose che riguardano la scherma sportiva. Chi si sente di prevedere, provare, intuire con la certezza che l’eventuale errore non comporta un punto per l’avversario, ma un “buco” nel nostro corpo, le cui conseguenze non sono prevedibili ? (per esempio all’epoca non era raro che si morisse, non tanto per la gravità della ferita, quanto perché la stessa si infettava). Quindi dobbiamo considerare, nel caso del trattato di Parise, e l’epoca in cui è stato scritto e le esigenze a cui doveva provvedere.
Voglio concludere con una precisazione su Nedo Nadi: non avrebbe mai sfidato a duello nessuno, era troppo signore, forse suo fratello Aldo si, ma non credo che un livornese avrebbe sfidato a duello un altro livornese. Su come possa finire un improbabile assalto Nadi/Montano…..beh non lo sapremo mai ! Possiamo solo contare le medaglie olimpiche : 6 a 1 per Nedo Nadi.
Auguri di buon Natale e di un sereno 2008
Domenico Patti

 

Re: La misura…
di schermaboh

Ciao Domenico (spero non ti dia fastidio che ti chiami per nome, ma essendoci una firma, mi viene meno spontaneo riferirmi al nick).

Ho trovato molto interessante il tuo commento: alcune cose le sapevo, altre mi hanno ulteriormente chiarito le idee e confermato alcune di quelle pregresse.
Io vorrei chiarire bene una cosa: non ho nulla contro quel trattato e tanto meno contro il suo Autore: se l’Opera originale fosse custodita presso il museo della scherma, io sarei la prima della fila dei visitatori!
Quello che volevo intendere è proprio ciò che tu hai meglio di me espresso: la scherma sportiva è un’altra cosa. Un buco, una ferita del corpo, magari fatale, sarebbe oggi una disgrazia assurda di risonanza mondiale, come è stato per il drammatico episodio olimpico di vent’anni fa.
Se gli scopi e l’essenza della scherma sportiva sono così distanti da ciò che era la scherma guerresca, io credo che debba cambiare il linguaggio: anche se i gesti, le azioni descritte mantengono validità, io credo che il sottofondo, l’implicito del linguaggio sia fuorviante, anche se non lo sia tecnicamente parlando.
Mi è dispiaciuto portare l’esempio-limite di quel maestro maltrattante, ma forse è il caso di riflettere su ciò che gli abbia causato quello “stile di insegnamento” (a parte le cause più intuibili, come la maleducazione, forse modelli educativi inadeguati e un’intelligenza non proprio ai massimi livelli).
Se entro in una caserma o guardo un film in cui ci siano soldati e militari e vedo il colonnello che urla insulti al soldato che resta sull’attenti e muto, paonazzo… va bene, posso pensare ciò che voglio e ho le mie idee, ma me le tengo.
Ma se entro in una sala di scherma e vedo tormentare, umiliare in maniera violenta un bambino che sta apprendendo uno sport, io a quel maestro, con calma e gentilezza, ne dico quattro. E così ho fatto.
E se non avessi avuto ragione, non avrei notato quel maestro deglutire a vuoto alle mie parole, occhi bassi, senza sapere cosa rispondere se non un incerto “Eeehhh… qui è così… ”
tra l’altro detto a bassissima voce, quando prima, col bambino, tuonava come Pavarotti.
Perché mai, quel maestro, si è intimidito tanto nei miei confronti, dato che gli ho solo posto una garbata domanda (per la verità, due o tre)?

Altro doveroso chiarimento: l’esempio scherzoso che ho fatto su Nedo Nadi voleva solo ribadire la diversità di stile di vita, di idee, di modo di essere e parlare tra un “ragazzo” dell’Ottocento e un nostro schermitore.
Magari, essendo due persone intelligenti, avrebbero trovato punti di intesa e il modo per andare d’accordo, o magari avremmo scoperto che il più “antico” dei due è Montano. Ma non so come si sentirebbe un contemporaneo se venisse costretto a vivere nella dimensione e secondo gli stili ottocenteschi… Benigni e Troisi direbbero “Non ci resta che piangere”.
Magari è esagerato pensare che uno dei due Campioni si sarebbe suicidato, ma credo proprio che ciascuno avrebbe disperatamente tentato di tornare a casa sua. Questo volevo intendere.

 

Re: La misura…
di Giancarlo Toran
Beh, Domenico, non sono molto d’accordo. E’ vero che, nel duello, la prudenza era la prima delle virtù, ma molti trattati, anche fra i più antichi, si soffermavano sulle componenti mentali e caratteriali dei vari tipi di avversari. Qualcuno ne accennava appena, ma forse solo perché non sapeva andare oltre (vedi Fiore de’ Liberi, 1410, che si serve di animali simbolo: Prudentia, la lince; Celeritas, la tigre; Audatia, il leone; Fortitudo, l’elefante). L’elenco è lungo, e spesso interi capitoli sono dedicati al modo di affrontare avversari con diverso temperamento.
Vero è che si notano differenze anche importanti, fra autore e autore. Il Parise, che pure ha osteggiato non poco l’introduzione della spada come disciplina a sé stante, non considera, nel suo trattato, uscite in tempo importanti come le contrazioni, mentre lo fanno molti suoi illustri contemporanei (il Masiello, ad esempio, che la riteneva addirittura la più importante, e criticava il Parise per lo scarso realismo, sul terreno, della sua scherma): per la loro pericolosità, credo.

Nedo Nadi, per quel che no so, ha sfidato a duello una sola persona: Cotronei, che l’anno prima, mi pare, aveva sostenuto duelli con Santelli, e poi con Aldo Nadi. Di entrambi i duelli esistono cronache esaurienti. Ma di quello di Nedo, chissà perché, è rimasto poco. Cotronei, coraggioso e spregiudicato cronista sportivo, e discreto schermitore, aveva costruito la sua reputazione anche con i duelli. Tormentava, insultava, scrivendo, campioni famosi, che avevano tutto da perdere a scontrarsi con lui. Nedo sosteneva che Cotronei avrebbe dovuto smettere, prima di uccidere qualcuno, o restare ucciso. Non conosco i dettagli, ma lo scontro avvenne, forse l’anno dopo quello con Aldo. Nedo partì subito in attacco, con una puntata fortunosamente fermata dalla fibbia della cintura del giornalista. La sciabola si piegò in due, e Cotronei depose la sua: e di duelli non ne fece più.

 

Re: La misura…
di DomPatti
Ciao Giancarlo,
sono d’accordo con te, mi sono mantenuto su grandi linee poiché il mio scopo era di spiegare, a chi non è un cultore, le principali differenze tra la scherma di 130 anni fa e quella di oggi, tra un duello ed un assalto sportivo.
E ciò che mi ha convinto (chiaramente non ho mai assistito ad un duello) è proprio una foto che ritrae Aldo Nadi durante il duello con Cotronei: non c’è nulla dello stile e dell’eleganza di uno dei più forti schermidori di tutti i tempi (avesse avuto un’altra testa !!!)
Se non ci vediamo prima ti faccio i miei migliori auguri di felice Natale e di un 2008 pieno di successi

 

Re: La misura…
di Giancarlo Toran
Verissimo. Quella foto, e altre sullo stesso duello, le trovi sul bel libro di Aldo Santini “Nedo Nadi – Personaggi, retroscena e duelli della grande scherma italiana” Belforte editore, 1989. La paura fa 90: non so perché, quel numero. Sarà coincidenza, ma è proprio la lunghezza di una lama.
Ricambio di cuore gli auguri, se non ci vediamo prima, a Ravenna.
Re: La misura nella scherma
di esedra

Sai Giancarlo, non allontanerei troppo la Scienza dalla Poesia. Limitare gli ambiti e trascurarne i legami mi sembra malinconico e un po’ superato.
Erigere barriere specialistiche, considerare esclusivi e distinti i luoghi del sapere scientifico e quelli dell’arte poetica non aiutano a indagare con giudizio l’anima e la mente dell’uomo.
Allora, forse, non conviene, nella nostra ricerca e nel nostro studio, disconoscere i nessi tra le aree ombrose e insondabili dell’intuizione e dell’ispirazione con quelle più luminose della ragione e della consapevolezza.
Pensiero azzardato, il mio? Forse…

 

Re: La misura nella scherma

di Giancarlo Toran

No, no, Esedra, non desidero proprio allontanarle: solo, distinguerle. Dal mio dentista voglio competenza e conoscenze, e non impeti di passione. Da un trattato di scherma desidero concetti chiari, che mi aiutino a capire e a mettere in pratica. Se leggo, in un trattato (l’ho letto, e l’ho citato, parlando di ghepardi) che la scelta di tempo ha del belluino, mi piace l’idea, ma potrei mettermi a ruggire. Quando leggo Herrigel, e il suo bellissimo “Lo zen e il tiro con l’arco”, e trovo che il colpo perfetto non lo tiri, ma “si tira”, mi piace moltissimo: perché l’ho provato, e conosco lo stupore e l’intima soddisfazione che si prova. Se non ne ho fatto l’esperienza, quella descrizione mi sconcerta, o mi irrita.
Un cacciavite non è un bacio: eppure sono importanti entrambi. Il bacio di più ma… quando devo avvitare una vite?

Re: La misura nella scherma
di giusetrive

Rischio anche io.
” L’iniziativa è di chi avanza per primo ”
Non sarebbe meglio dire che l’iniziativa è di chi si muove per primo?
Se per primo faccio un passo indietro per vedere se il mio avversario mi segue non ho comunque io l’iniziativa?
Se per primo effettuo uno spostamento laterale sulla pedana non ho io l’iniziativa?
Complimenti per l’articolo.

 

Re: La misura nella scherma

di enricodiciolo

E’ quello che diceva mio padre a proposito dell’iniziativa, nella videointervista di schermaonline. Spesso si confonde l’avanzamento con l’iniziativa. Ma, se si avanza perché l’altro arretra si cade nell’iniziativa altrui. Le mia parole possono sembrare scontate per i grandi maestri, ma si sa, meglio abbondare che difettare.
Enrico Di Ciolo

 

Re: La misura nella scherma
di esedra

A me le tue piccole precisazioni, e quella di giusetrive, sono sembrate interessanti, in questo e nel tuo precedente intervento.
Tante sono le cose scontate che si ripetono e, tra queste, parlando parlando, può venire fuori qualche buona intuizione.
State sereni, comunque, Giancarlo non ha motivo per bacchettarvi… 😉

 

Re: La misura nella scherma
di StephenDedalus

Oggi pomeriggio ho una seduta di studio con i miei atleti, cadetti e giovani.
Voglio proporre loro questo articolo, con i vari commenti, cercando di stimolare una discussione sull’argomento e raccogliendo anche il loro punto di vista.
Sono proprio curioso di vedere cosa salta fuori.

 

Re: La misura nella scherma
di Giancarlo Toran

Bene, bene! Rientro ora da Napoli, per la seconda volta (a proposito: nessuno scrive nulla sugli esami…?) e trovo un bel po’ di interessanti commenti. Metto tutto insieme, qui, per evitare di intasare con tante risposte individuali.

Incomincio dall’iniziativa, e rispondo a Giuseppe ed Enrico: lungi da me l’idea di bacchettare, come scherzosamente dice Esedra. Schermaonline è bello anche per questo: è interattivo. Se non riesco ad essere convincente, le bacchettate le prendo io. E’ questo che rischio, per rispondere a Schermaboh 😉

Questo concetto, che ho utilizzato per la prima volta nel ’96, dispense di spada, si è reso, secondo me, necessario, per motivi di terminologia. La definizione dell’attacco, nel regolamento internazionale, era ed è tutt’altro che chiara. Alla lettera, si potrebbe attaccare anche andando indietro, e questo, per me, va contro il buonsenso. Una confusione, che rivela le origini fiorettistiche di quel regolamento, imposto dai francesi. Le norme generali, che dovrebbero valere per tutte le armi, risentono chiaramente della convenzione: chi ha ragione e chi ha torto, in caso di colpo doppio. Ma la spada è un’altra cosa, ed i concetti generali (come quello di attacco, difesa e controffesa) devono valere anche per quest’arma. Perciò, ho tentato di migliorare la definizione di attacco: iniziativa, e minaccia. In questo contesto, l’iniziativa (di un’azione offensiva) andando indietro non ha molto senso. L’altro non è costretto a reagire, perché non si sente minacciato. Il suo spazio non viene invaso.
Se così non fosse, non saprei come chiamare i colpi tirati arretrando, se l’altro avanza senza essere in linea (senza minaccia apparente). Attacchi? Arretrando?! Sono evidentemente azioni di controffesa, uscite in tempo, perché attuate sul tempo, e sull’iniziativa, dell’altro. Un bel tempo alla testa, o sulla spalla, di sciabola o fioretto, sull’avversario che avanza a braccio ben piegato… li chiamereste attacchi? E come facciamo a chiamarli contrattacchi, se l’azione dell’altro non è un attacco? Il concetto di iniziativa mette a posto le cose. Se l’altro viene avanti per primo, attacca; se non minaccia, attacca male, ma attacca!
Ho usato il termine in questo modo, ben sapendo che, in italiano, ogni parola può avere tante sfumature differenti. Potrei sostenere, ad esempio, che lo stare immobili in attesa, consapevole dell’impazienza dell’altro, della mia forza in difesa, e della sua debolezza in attacco, ha il significato di prendere l’iniziativa: io so quello che voglio, e riuscirò a farlo. Ma credo che, così utilizzato, il termine potrebbe facilmente indurre in confusione lo studente, o lo studioso.

A Stephen Dedalus chiedo di aggiornarmi sulle reazioni dei suoi allievi: le teorizzazioni sono pesanti, in genere, per i più giovani. Con le dovute eccezioni, rare. Meglio le applicazioni pratiche: qualche indicazione l’ho data.
A Mochicraft dico di metabolizzare senza problemi, e di porre le domande che vuole: spesso le più interessanti vengono proprio da chi non ha avuto una formazione specifica, e quindi non è costretto in schemi precostituiti.
A Michele: e mica ho detto che mi piace ‘solo’ scrivere di tecnica! Un po’ di più, questo sì 😉

Parliamo ora del Masaniello Parise, di cui hanno discusso in modo molto interessante Schermaboh ed Esedra. E’ certo un ottimo trattato, ed è stato migliorato, riorganizzato, adeguato (pochino) ai tempi nei testi federali, quelli per gli esami. Ce ne sono anche altri, forse addirittura migliori, ma con gli stessi limiti indicati per il primo. Ne cito alcuni: Marchionni, Lambertini, Masiello. E mi vengono in mente ancora Rosaroll-Grisetti, Barbasetti, Blasco Florio (un catanese, Esedra ;-)), quarant’anni prima del Parise, dedicava varie pagine, nel suo trattato, all’educazione della mente. Ma continuava a tenerla presente, classificando le azioni. Vi riporto solo alcune righe, relative alle finte:

“Classe settima, azioni d’inganno ossiano finte. § 79. Introduzione – Nel descrivere le azioni delle classi antecedenti ho supposto il nemico alieno dal guardarsi dalle nostre offese. Lo suppongo ora vigile e pronto a chiuderci le vie che portano alle stesse. La scherma ferace in risorse ci presenta all’uopo dei mezzi che a di lui malgrado l’obbligano, a schiuderci il varco a quelle offese che ci siamo determinati di recargli. Questi mezzi sono gl’inganni. Le azioni che a tale scopo s’impiegano in ischerma son dette finte; nome che io adotto, sì perché indicante la cosa, che per essere ricevuto dall’uso. Ed ecco ciò che forma la materia del presente capo. § 80. Analisi e teoria delle finte. – Affin di garentirsi dalle nostre offese, il nemico deve stare colla massima attenzione. Ma ciò non ostante, volendolo noi colpire, bisogna, ingannandolo, obbligarlo ad agire a nostro modo, e ridurlo a tale da non potersi schermire dai nostri colpi. Cosiffatto intento puossi da noi ottenere col:
I.° Dividergli l’attenzione; 2.° Fissargliela; 3.° Sedurlo; 4.° Indagarlo; 5.° Spaventarlo.”

Ciao a tutti

Giancarlo

 

La misura e i neuroni specchio
di Giancarlo Toran

Mi pare che l’interesse per l’aspetto tecnico si sia affievolito, dopo una fiammata iniziale. Provo a soffiare sulle braci, anche se l’episodio sgradevolissimo citato da Schermaboh meriterebbe un articolo a parte: sono temi, quelli, ben più interessanti per i più, e a ragione.

Vorrei invece soffermarmi su un’altra sua frase: “Può darsi che la misura sia una questione d’istinto”. Dicendo che non è questione di centimetri, intendevo proprio questo, ma ora è il caso di scendere nei particolari.

La rappresentazione dello spazio nella nostra mente non si serve della geometria euclidea, né dei nostri abituali strumenti di misura. Possiamo affermare che lo spazio peripersonale è codificato, nella nostra testa, in coordinate somatiche. Vale a dire che esistono un ‘vicino’ e un ‘lontano’, che mutano se adoperiamo strumenti, prolunghe dei nostri arti.

Provate a fissare un punto, che potete raggiungere (ma non fatelo ancora) con la vostra mano: un oggetto da toccare, o da prendere. Chiudete gli occhi, e allungate la mano. Lo raggiungerete con buona precisione, senza fatica, al primo colpo. La codificazione in centimetri avverrà in seguito, se vorrete: ma non è necessaria. Lo spazio intorno a noi è definito, nella nostra mente, dai movimenti che dobbiamo fare per raggiungere un punto di quello spazio: e questi dipendono dalla nostra struttura e dimensione corporea.

Prima di aggiungere altro, vi suggerisco la lettura di un libro di straordinario interesse: “So quel che fai” di Rizzolatti e Sinigaglia, Cortina editore, 2006. Parla di una scoperta abbastanza recente, i neuroni specchio: si è detto che saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia.

E torniamo ai neuroni da cui dipende la codifica interna dello spazio. Un neurone ‘scarica’ se un oggetto entra nello spazio raggiungibile dalla mano (scusate la semplificazione). Il bello è che quello stesso neurone ha, per così dire, una capacità di interpretare dinamicamente questo spazio: se l’oggetto si avvicina più rapidamente, il neurone ‘scarica’ prima, come se avesse la capacità di anticipare gli eventi.
Vedete, quindi, come non abbiamo per nulla bisogno di prendere il righello, per determinare la misura. Basta dirigere l’attenzione nel modo giusto (un argomento su cui mi piacerebbe scrivere, prima o poi), per ‘sapere’ se l’avversario è ‘dentro’ o ‘fuori’ la misura. Se vogliamo, chiamiamolo pure istinto: e fidiamocene.

Quanto alle dita che vanno da sole, Schermaboh, ricordi l’esempio del fioretto in equilibrio? Quando abbiamo acquisito un automatismo, la sensazione è proprio quella: che le cose vadano da sole, senza l’intervento della mente. Naturalmente, non è così. E’ il controllo puntuale e continuo della coscienza, che è troppo lento, a dover essere messo da parte. Quando diventiamo capaci di farlo, le cose scorrono che è un piacere. Se c’è un intoppo, un imprevisto, il controllo riprende, e la nostra attenzione si riversa interamente sull’azione in corso: come quando, in auto, ci troviamo in una situazione difficile, e smettiamo di parlare, finché tutto non rientra nella normalità.

 

Re: La misura e i neuroni specchio
di schermaboh

Che bel tema…
La scoperta e la ricerca sui neuroni specchio mi ha affascinata sin dal suo nascere (ho letto, quasi appena uscito, il libro che hai consigliato: alcuni capitoli in particolare trattano argomenti preziosissimi per il mio lavoro).
E’ intuibile l’importanza di questo snodo della scienza, per la scherma: se, per esempio, mi alleno nella consapevolezza dell’esistenza di un meccanismo biopsichico, valido per me e per chi ho di fronte, che mi permette di interpretare l’intenzione motoria, prevedere lo scopo e la traiettoria del movimento altrui, oltre a permettermi di essere già , con la mente, dove mi prefiggo di arrivare, allora credo che cambino un po’ di cose a livello di metodo di insegnamento, di allenamento, di fruizione dell’esperienza.
Semplificando possiamo dire, nel caso dell’argomento che ci interessa, che quando devo raggiungere un bersaglio, il cervello “ha già fatto” e anche che l’area di Broca “ha già interpretato e dato un senso” a ciò che il corpo deve ancora decidere di fare.
La coscienza e la trasduzione di tutto ciò in consapevolezza arriva dopo: come dici tu, è molto più lenta e a volte nemmeno occorre.
Quindi, prima c’è un progetto mentale (e la cosa interessante sta anche nel fatto che questo progetto bio-psico-neurologico si compie anche se l’azione non devo compierla io, ma una persona che sto osservando), poi arriva l’azione (mia o altrui) e poi, se necessario, tutto si trasduce in pensiero cosciente: nel caso degli umani, in parole.
Il linguaggio, proprio nel senso di linguaggio verbale, è ciò che ci permette la comprensione finale, la possibilità di tenere presente, comunicare, raffinare, confrontare.
Forse proprio per il fatto che nell’uomo la consapevolezza si esprima in parole, i neuroni-specchio sono già lì, proprio nell’area di Broca.

Naturalmente non è tutto qui, sennò sarebbe troppo facile e soprattutto sarebbe “tutto uguale per tutti”.
Mi scuso se sto andando fuori tema, rispetto al discorso della misura, ma poi si può sempre rientrare.
Per lavoro, ho modo di osservare bimbi molto piccoli: per loro l’apprendimento è un gioco continuo, un gioioso reagire agli stimoli.
Tutti sanno che i bimbi piccoli tendano a imitare, ma in realtà non è tutto lì. Nella prima fase si snoda ciò che riguarda proprio l’argomento dei neuroni a specchio: mentre osservano un adulto, o un coetaneo poco più grande, compiere un azione, sembrano avere “l’acquolina in bocca” e danno proprio l’idea, con la loro espressione, i cenni e il loro essere assorti, di ricalcare mentalmente l’azione. Segue, spesso, l’imitazione. Ma non si accontentano! Il fatto è che, dopo l’imitazione, l’adulto di solito smette di osservarli, perlomeno in quel processo. Se tenessimo presente quanto visto, ci accorgeremmo di un’altra fase, quella che i ricercatori definiscono “inibizione dei neuroni specchio”. Cioè, il bambino vuole dare un senso suo personale a ciò che sta apprendendo: sviluppa quindi una fase, quasi solipsistica, di ricerca creativa, di sperimentazione personale. Quella che nel gergo pedagogico si chiama “gioco euristico” (ma non è solo questo). In questa fase i neuroni specchio e i processi empatici in generale, quasi tacciono, lasciano il campo.
Il bambino ripropone a se stesso varianti dell’imitazione e dell’apprendimento (recente o remoto). Alcune varianti ci sembreranno scomposte, insensate, regressive, improprie, come quando il bimbo gioca con una canzone appresa e ne storpia le parole o la melodia volutamente: la presunzione dell’adulto porta a pensare che lo facciano per attirare la nostra attenzione, ma non è sempre così: è una fase dell’apprendimento, importantissima, che a volte l’adulto dimentica di aver sperimentato in un’età in cui l’apprendimento era uno scopo vitale.
Se dovessi tornare al tema della misura (ma qui azzardo molto, contando sulla tua paziente e puntuale correzione), la mia immaginazione mi dice che per avere un buon “istinto” della misura, sia importante aver avuto modo di sbagliarla un po’ di volte, prima di lasciarsi andare a quei processi naturali che aiutano ad azzeccarla persino a occhi chiusi.
Dopo questa fase “creativa”, il bambino tornerà normalmente ricettivo, con i suoi neuroni specchio ben vispi, e tornerà anche a imitare, ma a un “livello avanzato”: lo farà con maggior destrezza e padronanza.
I neuroni specchio, tra l’altro, mostrano un processo che potremmo definire “di attivazione semplice” se reagiscono alla visione di qualcosa che non conoscono, ma invece vanno in sovra eccitazione se osservano qualcosa in cui riconoscano una propria specifica competenza.
Se io e te assistessimo insieme a una gara di scherma, nel mio cervello si muoverebbe qualcosina, ma nel tuo ci sarebbe una festa danzante 🙂
Quindi è probabile che tutto diventi naturale e spontaneo e che gli automatismi arrivino ad essere precisi quanto un righello, a patto (credo, per la mia esperienza) che siano stati rispettati i tempi e le fasi di cui si compone un buon apprendimento.
Naturalmente io conosco i meccanismi naturali di apprendimento dei più piccoli (alcuni dei quali comunque validi, con le dovute specificazioni, per l’intero ciclo di vita), mentre la tua competenza saprebbe reindirizzare il discorso verso il tema dal quale sono uscita.
Perché è vero che, grazie alle capacità biopsichiche di base, posso toccare a occhi chiusi una mela sul tavolo, ma è anche vero che toccare un avversario che si muove sulla pedana e che ha intenzione di ostacolarmi è un po’ diverso: servirà la spontanea sapienza del corpo-mente e poi… un buon Maestro.

 

Re: La misura e i neuroni specchio
di schermaboh

Dimenticavo:
Il gioco del fioretto in equilibrio… certo che lo ricordo, chi se lo scorda più??
Ho contagiato, esercitandomi, un po’ di persone: nei miei luoghi rischia di diventare un tormentone 😉

 

Re: La misura e i neuroni specchio
di Giancarlo Toran

Benissimo!… e preoccupante! Se continuiamo così, dove andiamo a parare? Hai toccato tanti temi così interessanti…: l’apprendimento, la creatività, il linguaggio, gli automatismi e, indirettamente, la visione e l’interpretazione della realtà.

Io credo che il bambino giochi più facilmente dell’adulto, e quindi sia più creativo, perché ha meno ‘passato’ che gli impedisce di rielaborare. La nostra realtà è strutturata intorno alle nostre convinzioni, che sono in qualche modo delle sintesi estreme della nostra esperienza. Strumenti utili, i migliori che siamo riusciti a forgiare. Le nuove esperienze ‘devono’ essere coerenti con le vecchie, e perciò dedichiamo molto tempo (anche i sogni, credo) a rielaborare il tutto. Quindi, chi ha più passato ha più materia di lavoro, e tende a non mettere in discussione quello che ritiene già acquisito, perché ‘funziona’.

Altro libro illuminante: “La mente inventata” di Michael S. Gazzaniga. Guerini editore, 1999. L’autore, un’autorità indiscussa nel suo campo, ipotizza, anzi, dà per certa, nella mente (emisfero sinistro), la presenza di una struttura che chiama ‘interprete’, sempre al lavoro, che “… produce spontaneamente teorie sul modo in cui funzionano le cose, anche quando in realtà non c’è niente da capire”. Basta fare un po’ d’attenzione agli altri (più facile) o a noi stessi, quando diamo spiegazioni anche assurde dei nostri comportamenti, per dargli ragione.

Bene, per la misura, se accettiamo che riconoscerla sia un fatto istintivo, dobbiamo ammettere che siamo in grado di attivare al meglio questa capacità solo a volte, in alcune circostanze: dipende da dove poniamo l’attenzione e, per me, da dove e come guardiamo l’avversario. Il meccanismo della visione è affascinante, per le sue implicazioni, e molto complesso. Ne riparliamo.

 

Re: La misura e i neuroni specchio
di esedra

Bell’intervento, Boh! Corposo e consapevole.

Io, invece, passeggio sul filo! 🙂
Dunque, il sistema dei neuroni specchio può spiegare il meccanismo di comprensione delle azioni e quello dell’apprendimento mediante l’imitazione del comportamento altrui.
Sebbene, forse, in un processo immediato non si dovrebbe parlare di ‘imitazione’, ma di ‘comprensione diretta’ che si traduce in azione senza la mediazione dell’astrazione logica. Comunque…
Ho letto anche di quell’esperimento che dimostrerebbe come i neuroni specchio del lobo parietale inferiore (dove avvengono i processi di associazione visuo-spaziali, d’integrazione delle informazioni sensorie e si rende possibile la percezione delle traiettorie degli oggetti in movimento) costituiscano la base neurale anche per prevedere, in un altro individuo, sia le azioni che, più o meno subito, seguano a un certo suo comportamento sia l’intenzione all’origine del movimento stesso.
Così, l’intuizione avrebbe una natura biologica identificata.
Però, mi chiedo, in quale ‘dimensione’ possiamo allora inserire l’individualità e la libertà di scelta?
Se l’identità dell’io viene continuamente a frammentarsi di fronte all’alterità, in un processo coevolutivo con l’altro e – diciamo – interculturale, il considerare solo il funzionamento dei neuroni specchio, forse, non ci aiuta a comprendere la complessità di un’azione che include anche il momento di scelta. Quella scelta che riporta i frammenti in una unicità. Perché l’intuizione non è solo il momento che prevede l’azione dell’altro ma anche quello della scelta di una nostra risposta.

Tornando alla nostra scherma.
L’‘intuire’ l’avversario prosegue nella scelta immediata di una reazione. Questo ‘secondo’ momento, pensi implicherebbe proprio quella inibizione dei neuroni specchio, di cui parli, cioè il momento dello ‘stacco’ ? E questa scelta, che deve essere impetuosa, salterebbe, secondo te, nelle aree della creatività o faticherebbe per rimanere in quelle della strategia? O riuscirebbe a utilizzarle entrambe?
Insomma, quando dico che la misura è intuizione, io intendo quella capacità costituzionale di alternare, velocemente e fluidamente, i diversi momenti della comprensione, previsione, creatività e razionalità. Resta il fatto innegabile che, poi, come dice anche Enrico, questi momenti divengano naturali solo con l’esperienza.
Che dici, Boh? Ho perso l’equilibrio? 😉

 

Re: La misura e i neuroni specchio
di overflow

A questo punto, mi sentirei di azzardare una definizione.
Ritengo che potrebbe risultare accettabile considerare l’intuito come la capacità di ricostruire correttamente un intero processo, avendone percepito solo una porzione. Il livello qualitativo di tale capacità sarebbe tanto maggiore quanto minore risultasse la porzione necessaria alla ricostruzione del processo.
Ma è proprio questo, credo, il territorio in cui la meraviglia di questo sport raggiunge il suo apice, nell’abilità, da parte dello schermidore esperiente, di sfruttare l’attitudine dell’avversario all’esercizio dell’intuito. In ogni assalto ricostruzioni di processi veri e falsi si alternano in una successione martellante e che mi piace immaginare tramortisca i neuroni specchio, soprattutto ovviamente quelli del perdente.
Non vorrei anticipare la risposta di schermaboh, ma credo che lo stacco, quello del momento di inibizione dei famigerati neuroni, consista proprio in quella frazione di tempo in cui l’atleta esercita la volontà di interrompere una ricostruzione che considera falsa.
Ma deciderà per intuito o per ragionamento?
Io credo che così come non è possibile definire un confine preciso tra l’arte e la scienza, anche questa domanda non possa avere una risposta univoca.

 

Re: La misura e i neuroni specchio
di schermaboh

Azzardo a darti la risposta che non è per me affatto semplice (la santità del dott. Fiore mi sostenga e la sua serietà mi corregga): il cervello, anzi, il sistema nervoso, pur essendo infinitamente complesso, è un’unità che però non corrisponde a un minestrone genovese, o a una fusione in cui gli elementi perdono la propria identità, specificità e funzione:
Come diceva prima il Maestro Toran, il trucco per qualcosa di tanto complesso sta nella parola “coordinazione”. Io aggiungerei un altro termine, anche se non è molto amato: “gerarchia”. Secondo il compito, la gerarchia cambia.
Il momento dell’ imitazione, quello di comprensione del gesto altrui, non sono momenti isolati, né in senso di tempo, né nel senso di “unico luogo attivo nel cervello”.
Prima il M. Toran parlava della efficacia delle immagini: bene, abbiamo la PET, abbiamo la risonanza magnetica funzionale e tutti i sistemi (che continuano a progredire) di functional neuroimaging.
Con questi sistemi è possibile vedere il cervello in funzione rispetto a un compito specifico. Non c’è nulla di precisamente settoriale, ma ci sono intermittenze, latenze, passaggi, zone che sembrano richiamarsi, altre che si inibiscono a vicenda, altre che collaborano a un compito: nulla è esatto (altrimenti basterebbero un paio di mesi per essere esperti in neuropsicobiologia).
Il libero arbitrio è attivo, secondo me, in ogni singolo istante:
io ti sto rispondendo, in parte perché ti sei rivolta a me (quindi per educazione), in parte perché nelle tue parole qualcosa mi ha allettato a farlo (quindi per influenzamento) in parte perché sei su questo sito dove si parla di cose che mi interessano (quindi per coerenza rispetto a una intenzione che ho da quando mi sono iscritta al sito) e poi perché… ho deciso di farlo. Fra queste ragioni e altre cento che non ho scritto – ma di sicuro ci sono – alcune sono più o meno importanti: nella “torta” della mia decisione, le percentuali sono diverse, ma coesistono.
Il momento del libero arbitrio è per me eterno, mentre un momento di perfetto individualismo io non so immaginarlo perché non ci credo, che esista.
Il mio Credo è nella teoria dei quanti: tutto influenza tutto e tutto può andare dappertutto: una particella ha una protocoscienza e sceglie la sua direzione, ma nello stesso tempo non va “per conto suo”.

L’individualismo puro forse esiste come emozione complessa, ma non è una cosa splendida… ti faccio un esempio per come la vedo io:
Ci sono due persone sedute una accanto all’altra. Entrambe si considerano sensibili e poetiche. Entrambe stanno guardando un tramonto e entrambe sono commosse, con tanto di lacrime. La differenza è nel loro pensiero: una pensa qualcosa tipo
“Che bel tramonto, che bei colori, che spettacolo, quanto è grande la Natura, Dio esiste, come sto bene, come sono felice in questo momento”.
L’altra, che si gode il suo individualismo, altrettanto commossa davanti al medesimo spettacolo, pensa:
“Ecco, vedi come sono fatto? sto qui a commuovermi per un banale tramonto, ho il cuore puro di un bimbo, mio Dio come sono sensibile… ma a cosa mi serve essere così meravigliosamente adorabile se gli altri non se ne rendono conto? Anche questo scemo vicino a me col naso in su… guarda da mezz’ora non so cosa e non si è ancora accorto del mio splendido cuore, di me che sono commosso da uno stupido tramonto qualsiasi… ma in fondo che m’importa? Probabilmente non mi merita… che continui pure a guardare per aria, con quell’espressione idiota”

Io la vedo così.

Per tornare alla scherma, probabilmente le varie fasi (quelle che ho descritto facendo l’esempio dei bambini piccoli) sono distinte come fasi di apprendimento, mentre quando lo schermitore è in gara, più che apprendere, restituisce l’apprendimento. Quindi la creatività collabora con l’empatia e il resto in un tutto armonico che il libero arbitrio sa gestire … o magari, al contrario, dal quale sceglie di farsi gestire.

Non ho negato l’esistenza di un automatismo, o di qualcosa che dia l’impressione di “agire d’istinto”. Dico solo che dietro quell’automatismo, c’è un percorso che non è affatto automatico, né tanto meno istintivo.
Come ha fatto notare il Maestro Di Ciolo, l’istinto è predeterminazione e nell’umanità c’è rimasto pochino, in termini di comportamento, di veramente “istintivo”…
Al limite noi abbiamo le “pulsioni” e tra l’altro, detto tra noi, ne ho viste poche, nella mia vita, di persone che festeggiavano felicemente il fatto di aver sempre obbedito alle loro pulsioni… mi sono sembrate più serene le persone capaci di afferrare una pulsione e decidere se, quanto e quando lasciarsi andare ad essa.
L’intuito è qualcosa di estremamente complesso e comprende la nostra esperienza, la nostra cultura, le nostre riflessioni pregresse… tutto concentrato in pochi istanti (gli scienziati di una nuova teoria parlano di circa 15 secondi). Un puro estratto di corteccia cerebrale e meta coscienza, anche se noi abbiamo l’impressione che sia “naso”.
A volte, poi confondiamo l’intuito con i pregiudizi… e lì sono guai.

Si, lo so, si parlava di misura e scherma, ma io non sono capace 🙂

 

Re: La misura e i neuroni specchio
di Giancarlo Toran

Dalla scherma siamo arrivati all’istinto, all’apprendimento, e addirittura al libero arbitrio. Siamo in mare aperto, ormai: e mi ci tuffo.

Cosa significa per me ‘apprendere’? Ho un’esperienza nuova, so fare una cosa che prima non sapevo fare, so usare un concetto che prima non conoscevo, e quindi non sapevo usare.
Nel caso di un atto motorio, o di un’esperienza sensoriale immediata, l’atto del conoscere è proprio il farne esperienza: “ah, è così”. Un concetto è un insieme di esperienze, o di concetti più semplici, messi insieme in un solo contenitore, cui diamo un nome: matita, forza, amore. Il nome è la nostra etichetta, che ci riporta al concetto, e alle esperienze che sottende (insegnare, far apprendere, non è però come mettere le cose in una scatola: le cose nuove si devono integrare con quelle che già ci sono, per essere accolte, o comprese. La scatola non è passiva, ma ben attiva. Ha i suoi cassetti, le sue gerarchie, i suoi percorsi di apprendimento).

Possiamo gestire concetti sempre più complessi (gerarchicamente, come ci dice schermaboh) mettendo insieme quelli più semplici, e dando un nome al nuovo contenitore: che useremo come se si trattasse di un elemento unico. Un’auto è un’auto, anche se è composta di tante parti, utilizzabili singolarmente. E se ne compro una, do per scontato che abbia le ruote.

Gestiamo la complessità organizzandola in modo da poterla afferrare con i nostri mezzi limitati.
Non siamo in grado di rappresentare nella nostra mente l’intera realtà, e quindi ne facciamo una mappa: e, come in tutte le mappe, cancelliamo necessariamente buona parte dell’informazione, quella che ci appare meno significativa per i nostri scopi; generalizziamo, per semplificare, mettendo in un unico contenitore tutto quello che consideriamo abbastanza simile; quando qualcosa nella mappa proprio non ci vuole stare, siamo anche capaci di deformarla quanto basta. Facciamo mappe di tutto, perché le mappe sono molto utili; ma, come insegna la PNL (programmazione neurolinguistica), dimentichiamo spesso che ‘la mappa non è il territorio’, e ci comportiamo come se lo fosse, commettendo errori grossolani.

Quando rifletto su questo, e considero l’inevitabilità degli errori, in un simile processo, resto meravigliato dalla nostra capacità di prendere decisioni, e anche dalla nostra illusione di poggiarle su basi ‘solide’. E la scherma è ancor più straordinaria: non bastassero gli inganni insiti nel processo decisionale, ci si mette anche l’avversario, che lo fa deliberatamente. Il tutto in condizioni di pressione temporale elevatissima. Eppure, decidiamo!

Per intuito o ragionamento, chiede Overflow? Se l’intuito è un ragionamento velocissimo, come credo, perché oramai automatizzato, la risposta è: entrambe le cose. Lo schermitore si allena, e diventa via via capace di gestire ragionamenti e movimenti sempre più complessi, e sempre più velocemente. Un conto è saper fare un passo avanti, un altro saper mettere l’arma in linea, un altro ancora saper parare, e infine rispondere. Ma saper fare un controtempo, e trattarlo come un’entità unica, è un’altra cosa. Richiede un’abilità superiore, gerarchicamente, appunto.

Quanto al libero arbitrio, Esedra, ovviamente la risposta non ce l’ho. Mi fa più piacere pensare di sì, piuttosto che sentirmi predeterminato. Ma se qualcuno è in grado di predeterminarmi, con tutta la complessità che c’è sotto, dev’essere proprio un Padreterno! 😉
Chiudo con una bella battuta, mi pare di Woody Allen. Alla domanda: “Credi in Dio?” avrebbe risposto: “No, ma lo stimo molto!”

 

Re: La misura e i neuroni specchio
di neropercaso

Ciao Esedra. Provo ad intromettermi nella vostra interessante discussione sperando di apportare uno spiraglio di luce. Allo scopo riporto una intervista di qualche anno fa al Prof. Vittorio Gallese, uno dei padri di questa importante scoperta:
“Le scienze cognitive classiche si basano sul modello del calcolatore, secondo il quale la mente è una specie di computer. Una macchina di questo tipo ha bisogno, per funzionare, soltanto di energia e di informazioni che elabora internamente. Pensare significherebbe dunque calcolare: è un modello, questo, condannato all’idea che la mente sia una entità isolata e solitaria, che non ha bisogno della relazione con gli altri. Lei crede che le cosiddette scienze cognitive post-classiche, che spostano l’accento dalla mente disincarnata alla mente in un corpo (in un robot, ad esempio), rappresentino davvero una via di uscita al solipsismo? In altre parole, possiamo considerare la socialità come una caratteristica intrinseca alla mente umana, oppure è solo in un secondo momento, e in modo accessorio, che la mente entra in relazione con un contesto sociale?”

Nutro una profonda perplessità nei confronti del solipsismo delle scienze cognitive «classiche». Credo che questo paradigma sia giunto ormai al capolinea. La scienza cognitiva classica ha concentrato i propri sforzi soprattutto nel chiarire le regole formali che strutturano una mente essenzialmente solipsistica, prescindendo dal contesto interpersonale in cui la mente si sviluppa. Si è molto meno indagato su ciò che innesca il senso di identità di cui comunemente facciamo esperienza quando entriamo in contatto con i nostri consimili. Credo valga la pena di chiedersi se l’analisi solipsistica condotta dalla scienza cognitiva classica, ispirata dalla psicologia del senso comune, costituisca l’unico approccio esplicativo possibile. In particolare, dobbiamo chiederci se questo orientamento renda piena giustizia agli aspetti fenomenici ed esperienziali delle nostre relazioni interpersonali. La mia risposta a entrambe le domande è negativa. Come esseri umani, oltre a percepire la natura esterna e oggettiva del comportamento altrui, facciamo esperienza direttamente in modo pre-verbale anche del carattere intenzionale e teleologico, in modo simile a come facciamo esperienza di noi stessi quali agenti consapevoli e volontari di quanto ci accade. Da una prospettiva in prima persona, il nostro ambiente sociale appare popolato da altri soggetti che, come noi, intrattengono relazioni intenzionali con il mondo. In altre parole, ci troviamo naturalmente in una relazione di «consonanza intenzionale» con le relazioni intenzionali altrui. Questa prospettiva si applica non solo al mondo delle azioni, ma anche e più in generale all’esperienza delle emozioni e delle sensazioni vissute da altri. Non siamo alienati dal significato delle azioni, emozioni o sensazioni esperite dagli altri non solo perché le condividiamo ma anche perché abbiamo in comune i meccanismi nervosi che le sottendono. Grazie alla consonanza intenzionale, l’altro che ci sta di fronte è molto più che un altro sistema rappresentazionale: l’altro è un’altra persona come noi. Il sistema dei neuroni specchio rappresenta verosimilmente il correlato nervoso di questa consonanza intenzionale.

Uno dei capisaldi delle scienze cognitive è la cosiddetta Theory of Mind, l’insieme di credenze in possesso di ognuno di noi, secondo alcuni in modo innato, e attraverso le quali attribuiamo ai nostri simili pensieri, intenzioni e scopi. Vale a dire che un essere umano si comporterebbe in modo peculiare nei confronti di un suo simile, e diversamente da come si comporta verso un oggetto inanimato, proprio grazie a questo insieme di credenze. Ora, questa posizione presenta un grave limite, perché l’altro diventa una astrazione, non qualcosa di immediatamente evidente. Come se nei confronti dell’altro dovessimo sempre, in primo luogo, scartare un dubbio radicale: come faccio a sapere che è veramente umano e non è, come in un celebre esempio cartesiano, soltanto un automa? Qual è il suo punto di vista al riguardo?

Sono abbastanza contrario all’uso della definizione Theory of Mind. Il motivo principale è che suggerisce esplicitamente come la nostra capacità di comprendere e interpretare il comportamento osservabile degli altri dipenda unicamente ed esclusivamente dall’applicazione di una teoria. Un’ulteriore implicazione fuorviante dell’utilizzazione del termine «teoria» per denotare le nostre facoltà esplicativo-ermeneutiche in ambito sociale è rappresentata dalla falsa aspettativa secondo la quale queste facoltà sarebbero assimilabili a un orientamento di tipo scientifico, e razionale. La scoperta del sistema dei neuroni specchio mette in luce invece l’enorme importanza del corpo vivo nella co-costruzione del nostro rapporto con l’altro. Non a caso ho parlato di «simulazione incarnata» (embodied simulation) per caratterizzare il meccanismo che descrive la funzione dei neuroni specchio. In un certo senso i risultati delle nostre ricerche si avvicinano alle riflessioni offerte dalla prospettiva teorica fenomenologica di autori come Husserl e Merleau-Ponty. Sicuramente mi riconosco molto di più nella Fenomenologia della Percezione di Merleau-Ponty che nella Mente Modulare di Fodor.

“I neuroni specchio permettono di spiegare fisiologicamente la relazione con l’altro, ad esempio l’imitazione. Il punto è, però: quanto ha, di effettivamente sociale, questo spazio governato dai neuroni specchio? La società è fatta di persone che possono sempre essere fraintese, e possono agire – ovviamente – in modo diverso da me. Perché ci sia libertà bisogna che non sia obbligato, nemmeno dai miei neuroni, a imitare i miei simili. Che aiuto ci forniscono i neuroni specchio per costruire una teoria naturalistica della società, in cui siano presenti tanto gli aspetti di consonanza che quelli di dissonanza?”

I neuroni specchio non spiegano e non possono spiegare tutto. Bisogna intendersi sul livello di descrizione al quale vogliamo situarci. I neuroni – tutti i neuroni – sono macchine computazionali, che del mondo conoscono solo ioni e le correnti elettriche che quegli stessi ioni determinano fluendo dentro e fuori dalla membrana che li circoscrive. Non possiamo ridurre ontologicamente il libero arbitrio ai costituenti sub-personali dell’individuo. Questo tipo di riduzionismo ontologico è per me del tutto privo di senso. Ma esiste un altro tipo di riduzionismo, di tipo metodologico, che invece sposo in pieno. Abbiamo ottime possibilità di comprendere meglio il livello personale di descrizione, quello che attiene al singolo individuo e alla moltitudine di individui che costituiscono la nostra società, utilizzando come chiave di lettura la chiarificazione dei meccanismi neurali – quindi sub-personali – che sottendono il «funzionamento» degli individui. È curioso come talvolta le scienze umane oscillino tra una radicale dismissione, in ambito sociale, dell’utilità esplicativa fornita dai risultati della ricerca neuroscientifica e una fiducia cieca nelle neuroscienze, come possibile supporto a una teoria del tutto. In realtà non possiamo perdere di vista l’esistenza di plurimi livelli di descrizione. Io sono fatto dei miei neuroni e delle mie sinapsi, ma da un altro punto di vista sono anche molto di più. I temi che costituiscono l’oggetto di queste domande rivolte al neuroscienziato a mio avviso richiedono un approccio multidisciplinare.

Prendiamo il caso di Abu Ghraib: i neuroni specchio «sentono» che l’altro sta soffrendo, ma la soldatessa Joe continua la tortura. Qui c’è un contrasto netto fra fisiologia – la risonanza dei neuroni specchio della vittima con quelli di chi la sta torturando – e il comportamento del soldato, che è del tutto dissonante con quanto il suo stesso cervello sta probabilmente registrando. Quel che ci dicono i neuroni specchio si può quindi mettere da parte volontariamente? Ma allora, cosa ci dicono della nostra reale esperienza sociale?

I neuroni specchio non «sentono». È la persona che comprende, al livello dell’esperienza ciò che prova l’altro, anche grazie al meccanismo di simulazione sostenuto dai neuroni specchio. Ciò detto, la domanda è molto interessante ed esemplifica il possibile contributo delle neuroscienze alla discussione etica. Credo che la capacità di fare esperienza di ciò che prova l’altro non implichi necessariamente l’impossibilità di usare la violenza contro di lui. Mi sembra una visione troppo deterministica. Si potrebbe, al contrario, sostenere che non c’è miglior sadico di chi sa precisamente quali siano le conseguenze della propria violenza su chi la subisce. Empatizzare e simpatizzare con l’altro sono due processi distinti. Se vedo gioire il mio avversario, posso comprenderne la gioia, grazie a un meccanismo empatico, senza necessariamente condividere lo stesso sentimento, ma anzi più probabilmente derivandone un sentimento negativo. Non va inoltre dimenticato come storicamente la violenza di massa perpetrata nei confronti dei nostri simili si sia spesso accompagnata al tentativo di dimostrarne la supposta alterità e sub-umanità. Basta pensare allo sterminio delle popolazioni autoctone del continente americano o australiano o all’olocausto degli ebrei. In tutti questi casi all’altro viene negato la status di essere umano, forse anche per ridurre con un meccanismo top-down di tipo cognitivo, l’impatto emotivo indotto dall’esperienza delle sofferenze cui l’altro viene assoggettato.

 

Re: La misura e i neuroni specchio
di Giancarlo Toran

Neropercaso ci offre una interessante panoramica sulle teorie della mente. Le teorie sono mappe, cioè modi di rappresentarsi il mondo, per meglio comprenderlo, ‘usarlo’. Neropercaso ci dà una mappa delle mappe. Grazie. Purtroppo, però, la scherma è scomparsa del tutto, e vorrei provare a riportarmi in tema, integrando anche queste ultime considerazioni.

Nelle prime fasi dell’apprendimento insistiamo sulla tecnica di base (il Masaniello Parise?). Intendo dire che ci occupiamo dei movimenti che l’allievo deve apprendere. C’è chi si basa sull’imitazione, chi su schemi prestabiliti: ma, alla fine, l’allievo dovrà saper stare in guardia, fare il passo avanti e quello indietro, tirare la botta dritta, fare l’affondo, parare e rispondere. Prima di affrontare il problema di ‘essere in due’ (e poi, mettendoci anche l’arbitro, essere in tre; e mettendoci il Maestro, i compagni, la squadra e l’universo mondo… esserci tutti e tutto), si affronta il problema dell’essere da soli. E’ una questione di gerarchie. Prima di alzarmi di livello, e con efficacia, devo ben comprendere, padroneggiare, il livello sottostante.

Non è questione, quindi, di rigettare una teoria (o un tipo di linguaggio), ma di servirmene, perché funziona meglio delle altre, ad un dato livello. Meglio delle altre perché, considerando solo ciò che serve, mi permette di concentrare le risorse nella direzione giusta.
Qualcuno arriva a dire, estremizzando, che le teorie non servono. Non è vero: servono se funzionano, ed è utile lo sforzo di trovarne sempre di nuove, che funzionino meglio, sfruttando le nuove conoscenze ed esperienze.

Se insegno la finta e cavazione, dovrò prima occuparmi del passo avanti, della distensione del braccio armato, del movimento stretto della cavazione, dell’affondo, della stretta in tempo. Quando queste azioni saranno eseguite in modo accettabile, potrò interessarmi del tempo, del ritmo, della velocità, delle variazioni. Qualunque sia il metodo seguito, ci sarà progressività nell’insegnamento e nell’apprendimento.

Proprio ieri, in sala, sentivo una bimba di dodici anni, già esperta di gare, cui avevo dato l’incarico di tirare ‘come istruttrice’ con una principiante di tredici, che voleva spiegarle come evitare il suo arresto con un controtempo. Lei sapeva cos’è, ma l’altra non era ancora in grado di recepire e mettere in pratica l’informazione: non aveva ancora gli automatismi che le avrebbero permesso di agire a quel livello, gerarchicamente superiore. Siamo predisposti ad insegnare, ci fa piacere: ma dobbiamo imparare a farlo in modo efficace.

 

I neuroni specchio e…
di esedra

Ieri avevo tentato di rendere visibile la mia gratitudine a tutti i miei gentili interlocutori, ma la mia connessione non me lo ha permesso. Oltretutto avevo scritto in diretta e il testo è andato perduto…
Poco male, direbbero in molti, ma riprovo oggi con qualche accorgimento in più. 🙂

Generosità e intensità, ma anche piacere, mi pare abbiano qualificato lo sforzo collettivo di assecondare la riflessione su una materia così complessa.
In realtà, nuotando o navigando, ognuno di noi è poi approdato alla sua riva…

L’intervista di Cimatti a Gallese, che Nero ci ha proposto, mi è piaciuta moltissimo. L’ho ritrovata in versione integrale e ne riporto un altro piccolo passaggio, molto interessante per il tema dell’apprendimento:
– Veniamo ora a un altro campo dell’esperienza umana, il linguaggio. Mi domando se quando è in gioco la comprensione linguistica non si verifichi qualcosa di simile al meccanismo indotto dai neuroni specchio. In altri termini, capire ciò che un altro dice significa in qualche modo risuonare ai suoi enunciati?
– Sì. Vi sono evidenze preliminari che sembrano suggerire come la comprensione semantica del linguaggio sia mediata, almeno in parte, da meccanismi di simulazione o «risonanza» che vedono coinvolto il sistema motorio. Comprendere una frase che esprime un’azione sicuramente induce a attivare parte degli stessi circuiti nervosi motori coinvolti durante l’effettiva esecuzione di quella stessa azione.[…]

Dunque, sembrerebbe fondamentale un’esposizione chiara, e necessariamente consapevole, di un argomento per trasferirlo all’allievo.
Come si spiega, allora, l’efficacia, provata, di un Maestro che tentenni col linguaggio verbale? Altro tipo di linguaggio, come dice overflow?
E perché, invece, la perfezione linguistica di un’esposizione non è sufficiente per provocare il “so quel che fai” in ciascuno che ascolti, quando ancora manchi ” quel livello, gerarchicamente inferiore”? Esattamente come non sia sufficiente osservare un’azione schermistica, anche lentamente eseguita, per capirla e riprodurla, quando non si abbiano conoscenze preliminari.
E, allora, ‘cosa’ aiuta e sollecita l’acquisizione di un livello più complesso? Cosa trasforma la ‘copiatura’ dei neuroni specchio in conoscenza? Cosa è la coscienza? Dipenderà dal numero di neuroni specchio eccitati?
Non sono domande che pretendono risposte, perché so che ritorneremmo in mare aperto…

 

Re: I neuroni specchio e…
di schermaboh

Proprio per la serie di questioni che sottolinei, si considera l’apprendimento un processo molto complesso: intervengono tutti i fattori che hai elencato più altri. E se l’apprendimento è un fatto tanto complesso, significa che la preparazione del buon insegnante, come ripetiamo da tempo, è articolata.
Il buon insegnante non ha, a scelta, o la capacità di esprimersi con chiarezza, o un altro tipo di linguaggio extra verbale, o l’empatia per capire il momento dell’allievo… bensì tutte queste capacità e altre.
Il fatto che esistano maestri che lascino a desiderare nel modo di esprimersi, eppure sappiano passare la loro competenza tecnica, può essere benissimo, ma la qualità dell’insegnamento pretende di distinguersi dall’ammaestramento tecnico. Chi conosce la psicopedagogia e la didattica, chi sa comunicare e méta comunicare, conosce non solo il linguaggio verbale, ma molti dei linguaggi possibili.
Poi sa osservare, sa progettare, sa verificare, si azzarda a sperimentare, sa monitorare un processo di apprendimento e sa scomporlo se serve. Conosce la differenza tra motivare e forzare, tra grinta e rabbia, tra eustress e distress, tra la modulazione di emozioni semplici e complesse e il controllo indiscriminato. Tra “bloccare” l’allievo e contenerlo.
Conosce i diversi stili di apprendimento, quindi (è solo un esempio) saprà riconoscere il tipo “uditivo”, il “visivo” e il “cinestetico” (detto anche cenestetico) e le tipologie miste… Un allievo di Giancarlo Toran, o di altri fuori classe dell’insegnamento, probabilmente, non solo saprà compiere le varie azioni schermistiche, ma saprà pensarle, stravolgerle, raccontarle, scriverle, insegnarle, inventarle. E molto altro ancora.

Per imparare, quindi, è necessaria sia la pratica che l’esperienza (mica detto che siano sinonimi…) e la verbalizzazione e la rielaborazione. E’ persino utile il “passo del gambero”: si torna un po’ indietro per slanciarsi avanti. Poi, al contrario, c’è da considerare la “zona di sviluppo prossimale” di cui parlava Vygotskj: il Maestro Toran, che ne conosce l’utilità, prende un allieva non ancora capace di insegnare quel che sa e le da un compito da istruttrice abbastanza complesso… diciamo un po’ al di sopra della sua attuale capacità di comprensione dell’incarico: quindi la osserva, già sapendo che “zoppicherà” … E anche quella che fa la parte dell’allieva si troverà in difficoltà… tutto abbastanza calcolato e utile: “ l’occhio sopra” del Maestro assicura quella corretta elaborazione dell’esperienza che permetterà di passare, per dirla con Piaget, dall’assimilazione all’accomodamento.

 

Re: I neuroni specchio e…
di enricodiciolo

E del periodo in cui sembra ci sia un mare calmo che mi dici? capita, spesso, tra le seconda e la terza elementare. Insomma, quando manca l’assimilazione non ci può essere l’adattamento. Ciao Enrico Di Ciolo

 

Re: I neuroni specchio e…
di schermaboh

Credo di aver capito che tu ti riferisca al priodo di “latenza” che, apparentemente, sembra proprio un mare calmo.
Ma, se mi confermi di riferirti a quel periodo – che a volte arriva a coprire tutto il ciclo elementare – non è esatto dire che non ci sia assimilazione: c’è solo meno espressione.

Il mondo interiore di un bimbo in quella fase di parziale (e apparente) silenzio del mondo pulsionale, è alle prese con almeno due compiti difficilissimi:
a) la definizione del carattere
b) la capacità di sublimare (che inizialmente si esprime nel gioco).

Il bimbo è come in fase di scandaglio. Ma è anche molto ricettivo. Lo si può stimolare attraverso giochi di gruppo, sfide costruttive, coinvolgimento in questioni di “problem-solving”.
Insomma, la scherma!
…E consiglierei in particolare il metodo Di Ciolo 😉
P.s. sempre ammesso che parlassi di “latenza”

 

Re: I neuroni specchio e…
di enricodiciolo

I Maestri sanno utilizzare tutti i mezzi comunicativi, ognuno favorisce l’apprendimento più consono al proprio approccio metodologico di insegnamento. Conosco un bravo Maestro che quando fa lezione parla di campo, terra, di foglie da togliere da sotto l’ulivo, di entrare dalla porta e uscire prima che ti spacchino il piede sull’uscio. Lo stesso Maestro fa riferimenti ai meccanismi logico matematici durante le esercitazioni sulle abilità motorie specifiche.
La comunicazione verbale è molto importante, ma non è l’unica che arriva al cuore dell’allievo.
Ciao

Enrico Di Ciolo

 

Maestri e Comunicazione
di esedra

Mi pare, Enrico, che tu stia parlando sempre di comunicazione verbale. Evocatrice di immagini non tecniche, come nel caso della terra, delle foglie d’ulivo e del piede massacrato da una porta, ma sempre verbale.
E verbale è una comunicazione (esclusiva della specie umana) che si avvale della parola detta o scritta o, persino, di un sistema di segni, gesti come fanno i sordomuti.
Sappiamo, però, che l’efficacia di un messaggio (l’oggetto della comunicazione) non dipende solo dal suo aspetto verbale ma si avvale di tanti altri elementi non verbali (a disposizione di tutti gli organismi viventi).
Possiamo aprire anche una piccola parentesi: i canali di comunicazione (attraverso i quali di trasmette il messaggio) sono molti e uno di questi è quello acustico, all’interno del quale comprendiamo, ovviamente nella nostra specie, la comunicazione verbale e vocale, che si ha, per esempio, quando parliamo. Esistono, poi, i linguaggi di segni, utilizzati in circostanze in cui parlare sia proibito o materialmente impossibile o sconveniente (pensiamo a un Maestro in gara a bordo pedana!) e che sono verbali ma non vocali.

Esiste, poi, anche per l’uomo, la possibilità di una comunicazione non verbale, che in realtà costituisce la forma primaria di comunicazione (basti pensare al messaggio chimico di un batterio o a quelli tattili, termici, elettrici, etc… di tutte le miriadi di specie viventi che da questo si sono evolute!).
Essa può essere a sua volta vocale (cioè avvalersi del suono delle parole, ma non del loro significato, ed esattamente del tono di voce, del ritmo delle frasi con le varie pause interposte e, persino, dei silenzi) o non vocale. In questo caso la comunicazione disporrà dei vari canali, visivo, acustico, olfattivo, che potranno essere utilizzati singolarmente o simultaneamente, e avvalersi del ‘movimento del corpo’ (dalla mimica facciale, e in particolare degli occhi, alla postura, dalla gestualità al posizionarsi del corpo nello spazio rispetto all’altro corpo, fino al contatto con esso – abbraccio, carezza, stretta di mano, pacca sulla spalla -), della produzione di un suono o di una tela dipinta, della scelta di un profumo…
Pensiamo, per esempio, a un direttore di orchestra e al messaggio acustico che può creare con quei suoi gesti tecnici, che vengono decodificati dai musicisti e tradotti in suono ma vengono recepiti anche dal pubblico che li associa alla musica, godendo di questa più che se l’ascoltasse allo stereo.
Pensiamo al danzatore che può comunicare sentimenti col corpo in associazione alla musica e a tutti gli artisti che si servono della propria arte e di tutti i canali a questa concessi…

Allora, tornando a un Maestro di scherma, bravissimo perché ha creato decine di Campioni, dobbiamo individuare come efficace, nel suo messaggio didattico, solo la parte legata alla comunicazione verbale? O esistono tanti altri canali e strumenti non verbali per trasmetterlo? E quali, tra questi, sono preferiti dagli allievi e risultano, forse di conseguenza, anche più validi?
E ci potrebbe portare ancora più lontano questo discorso… Per esempio, a ciò che si verifica nell’atleta quando cambia il proprio Maestro, cioè al variare del tipo di comunicazione…

 

… la coscienza
di esedra

D’altra parte, c’è già chi da tempo ci riflette, e non solo i filosofi.
Psicologi e neuroscienziati, ormai, vi lavorano insieme e ci hanno fornito molti argomenti che legano l’esperienza e la coscienza al loro substrato biologico.
A mio avviso, però, dovrebbe essere rivista, nel suo aspetto ‘riduzionista’, la tendenza di alcuni ricercatori a voler identificare i circuiti cerebrali specifici, ovvero il luogo esatto, della coscienza.
Potrebbe essere più giusto accettare di individuarla nell’ ‘organismo’ e nell’ ‘azione’ che questo stia vivendo.
Appartiene la coscienza solo a un gruppo di neuroni? Forse, no. Magari, invece, la sua ‘essenza’ è più articolata.
Possiamo pensarla legata alla percezione che l’organismo ha della propria integrità (quella individualità, non individualismo, di cui parlavo a Boh). E, in questo rapporto con il ‘sé’, la coscienza si fonda sul sentimento di un corpo che esiste con emozioni, bisogni, desideri. Ma, al tempo stesso, la vediamo vivere, attraverso i sensi e la motricità, in contatto e interazione con l’ ‘esterno’: il mondo esiste nella percezione che ne abbiamo e nell’interazione con esso, così come quel nostro ‘senso d’esistenza’ vive nel rapporto tra i nostri neuroni e il nostro corpo. E, ancora, non si può trascurare il rapporto empatico che abbiamo con l’‘altro’, la capacità di metterci al suo posto, di identificarci con esso e anche questo deve appartenere alla coscienza.
Allora tutto ciò avviene nel cervello? Si trova solo nella testa, la coscienza, oppure appartiene al rapporto complesso col corpo, col mondo e con gli altri. E’ solo un atto di copiatura o è una meravigliosa mediazione che il cervello consente?

Quando Dante ascolta le parole di Francesca e guarda le lacrime di Paolo, i suoi neuroni specchio riproducono in lui il loro dolore ma sollecitano la sua compassione perché anch’egli ha conosciuto lo stesso dolore, perché egli ha coscienza di quel dolore e ne ha prodotto esperienza.
E, così, quel famoso sconvolgimento di Stendhal di fronte al godimento estetico (“Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere.”). Forse, vi è in lui quella totale immedesimazione perché Stendhal ha già coscienza piena dell’espressione artistica e della passione che la stimola.
Forse…

Ci siamo allontanati dalla scherma? Penso di no. Le abbiamo solo riconosciuto il privilegio di essere un’attività meravigliosa del corpo e della mente, un ambito che lascia spazio anche alla speculazione scientifica, a quella filosofica, persino a quella estetica.
Ci siamo concessi delle divagazioni e, forse, è sembrato che volessimo abbandonare l’obiettivo primario di questo articolo: parlare di scherma.

Non so, ma sono convinta che il ‘parlare di scherma’ può sempre aiutarci a rispondere ad altre domande.

 

Re: … la coscienza
di Giancarlo Toran

Grazie, Esedra, per le nuove domande (cui non sarà facile rispondere…) e per gli ultimi commenti, che mi pare chiudano degnamente questo dibattito, ormai fermo da un po’.
A dopo Ravenna, in ogni caso!
Giancarlo

 

Re: … la coscienza)
di schermaboh

“Si trova solo nella testa, la coscienza, oppure appartiene al rapporto complesso col corpo, col mondo e con gli altri?” …si domanda Esedra:

Esiste una coscienza fenomenenologica e una coscienza sociale condivisibile.
Poi esiste la proto-coscienza che può trovarsi nei distretti del nostro corpo, negli esseri viventi più elementari e persino nelle particelle di materia.
Poi esiste la méta-coscienza, cioè , non più “io-sono”, ma “io so di essere”… pare che il meta pensiero (cioè la facoltà che ci da modo di “pensare a proposito del fatto che stiamo pensando”) sia soltanto umano e, se è come finora pare proprio che sia, questa meta-coscienza è davvero confinata nel cervello… anzi, più precisamente nella corteccia, cioè gli ultimi due millimetri (?) di evoluzione cerebrale umana… se vogliamo essere ancora più precisi, direi, della corteccia, la parte dei lobi frontali. Naturalmente la corteccia non è un sistema autonomo: le deve pur arrivare materia da elaborare dal “basso”, cioè il cervello rettiliano, il sistema limbico, ecc.
Perché effettivamente ci sarebbe poco da méta-riflettere, senza le emozioni, per esempio.

“Possiamo pensarla (la coscienza) legata alla percezione che l’organismo ha della propria integrità (quella individualità, non individualismo, di cui parlavo a Boh). E, in questo rapporto con il ‘sé’, la coscienza si fonda sul sentimento di un corpo che esiste con emozioni, bisogni, desideri”
Osserva ancora Esedra.
Io, in questo caso parlerei di “identità”, nel senso:
essere un individuo mi distingue dal resto della mia specie e da modo agli altri di riconoscermi fra i miei simili.
Se traccio una x col pennarello su un’arancia, sarò certa di poterla poi individuare tra le arance.
L’identità invece fa capo a ciò di cui parlavi sopra: il proprio sentimento, i propri gusti, il modo di sentirsi e rappresentarsi, gli oggetti che ho scelto “per me”, ecc. … A livello fisico tutto ciò comincia con la consapevolezza dello schema corporeo, un processo più lungo di quanto si pensi e sempre in mutamento.

 

Individualità
di esedra

Riguardo a quest’ultima tua precisazione, Boh, credo proprio non sia necessario ricorrere all’esempio del pennarello.
Se l’’individuo’ è ciascun elemento di una collettività, l’’individualità’ (di cui ho parlato nei miei ultimi commenti) rappresenta il complesso degli elementi di caratteristica ed esclusiva pertinenza del singolo, cioè dell’individuo, mentre l’’identità’, come dici anche tu, è ciò che consente di riconoscere un individuo.
L’individualità, dunque, essendo un patrimonio personale, non necessariamente consentirà agli altri l’individuazione del singolo, ma concederà comunque a questo la formazione di una sua coscienza.

Spero di aver aggiunto qualche elemento di chiarezza in più.

 

Re: Individualità
di schermaboh

Ci rifletterò meglio, ma francamente a me l’avevano insegnata un po’ al contrario: l’identità è intrinseca e io mi ci riconosco, mentre l’individualità mi distingue agli occhi degli altri;
dal di fuori vengo individuato, mentre al mio interno io mi identifico.
Ma andrò a riprendere i miei libri: non è detto che non sia un po’ arrugginita:-)

 

Un caso di … coscienza
di overflow

La vostra graziosa disputa mi ha fatto ricordare una storia, di ormai parecchi anni fa, che riempì le cronache giudiziarie della civilissima Svezia, appassionando e dividendo l’opinione pubblica di quel paese.
Proprio così. Erroneamente, infatti, riteniamo lo svedese poco incline alla partecipazione emotiva alle vicende altrui, confondendo la compostezza nell’espressione dei propri sentimenti col disinteresse per il prossimo.
Si tratta del caso di due fratelli gemelli identici, Stefan e Fabian, il cognome ve lo risparmio perché veramente impronunciabile.
Stefan aveva denunciato Fabian, accusandolo di aver compiuto l’ignobile azione di approfittare ripetutamente dell’intimità di sua moglie Kjell, cognata di Fabian quindi, simulando l’identità del fratello.
Reati contestati: la sostituzione di persona, principalmente, (quello, per intenderci, che corrisponde al 494 del nostro codice penale) ed altri conseguenti l’accertamento di questo.
Fabian rigettava con energia l’accusa infamante e pretendeva la condanna di Stefan per il reato di calunnia.
Naturalmente, dopo le deposizioni dei due fratelli, fu interrogata la moglie di Stefan, unica possibile testimone dei fatti.
Kjell, pur mostrandosi turbata dalla vicenda, dichiarò di non aver mai percepito, né sospettato minimamente la possibilità di uno scambio e, in merito al cognato, aggiunse, per averlo poco frequentato, di non conoscerlo abbastanza da poter escludere che si fosse mai sostituito al marito.
Quando sembrava che la storia non potesse più avere alcuna evoluzione verso l’accertamento della verità, avvenne un colpo di scena. Fabian confessò, e di conseguenza accusò Stefan, di avere concordato col fratello, già da due anni, lo scambio d’identità e che, quindi, a vivere, dallo stesso periodo, con l’inconsapevole Kjell fosse in realtà Fabian. Intendeva, ovviamente, il vero Fabian, non lui che, a questo punto, dichiarava di essere Stefan.
Il vero Stefan, lui stesso per come raccontava colui che abbiamo finora chiamato Fabian, si era innamorato di un’altra donna e, approfittando della disponibilità del fratello, che pare non trovasse sgradevole la giovane cognata, aveva escogitato la soluzione che avrebbe dovuto lasciare tutti soddisfatti.
Così era stato, infatti, fino a che la storia d’amore del “fuggitivo” non si era conclusa.
Ritornato solo Fabian, sempre il Fabian che abbiamo conosciuto all’inizio, si era sentito nuovamente attratto da Kjell e, ritenendo in fondo di averne il diritto, avevo colto ogni possibile occasione per assecondare il suo rinnovato desiderio.
A questo punto, come potete capire, la situazione giudiziaria si era enormemente ingarbugliata.
Fabian, con questa confessione, ammetteva le circostanze che gli erano state contestate. Dichiarava, infatti, di avere realmente incontrato “intimamente” Kjell, così come indicato nell’accusa di Stefan, ma, nello stesso tempo, confessando di avere organizzato lo scambio con il fratello, si accusava per aver commesso un ulteriore e ben più grave reato.
Unico strenuo difensore, apparentemente disperato, impegnato a negare con tutte le sue forze la colpevolezza di Fabian era diventato, incredibilmente, Stefan.
Egli rigettava con sdegno ogni elemento delle dichiarazioni del fratello, cercando di opporre ogni possibile prova a quelle documentate da Fabian fino ad arrivare a ritrattare, addirittura, i fatti contestati da lui stesso, all’inizio del processo, accusandosi, a sua volta, di avere mentito per gelosia.
E Kjell? La povera ragazza, ormai sconvolta dagli eventi, non trovava altra soluzione che rivolgere al Tribunale la richiesta, a questo punto direi più che legittima, di allontanare dalla casa coniugale Stefan, Fabian, o chiunque lui fosse.
Le due versioni della verità si scontrarono a lungo, ma proprio quando l’attenzione per la vicenda, da parte del pubblico, era un po’ venuta meno, giungeva il drammatico epilogo.
Stefan, o colui che forse era Fabian, si toglieva la vita, lasciando tutti nello sgomento e rinnovando, così, l’intreccio dei dubbi e delle ipotesi.
Non aveva sopportato il dolore per l’ingiusto allontanamento di Kjell? Non aveva tollerato la vergogna per l’infamia dell’accusa subita? O non aveva retto, invece, il rimorso per il terribile inganno in cui aveva tratto l’innocente Kjell?
Fabian, o colui che forse era Stefan, unico superstite a detenere la verità, ritrattò nuovamente quanto dichiarato e fu assolto per insufficienza di prove, ma, dalla sentenza in poi, non rilasciò mai più dichiarazioni sulla vicenda.
Il confronto tra le due coscienze si concluse così, come lo scontro inevitabile tra due navi nella immensa notte del mare, una definitivamente precipitata nella profondità inconoscibile, l’altra galleggiante alla deriva nella, forse impossibile, speranza di essere avvistata.

 

Re: Un caso di … coscienza
di esedra
Ah, giusto per chiarire!
Re: Un caso di … coscienza
di schermaboh

Tranquilla, Esedra… penso io a chiarire:
C’erano una volta quattro personaggi ognuno, qualcuno, ciascuno, nessuno.
C’era un lavoro importante da fare, ognuno era sicuro che qualcuno l’avrebbe fatto, ciascuno l’avrebbe voluto fare ma nessuno lo fece.
Qualcuno si arrabbiò molto perché era un lavoro di ognuno; ognuno pensò che ciascuno poteva farlo, ma nessuno capì che ognuno non l’avrebbe fatto.
Finché ognuno incolpò qualcuno perché nessuno fece ciò che ciascuno avrebbe potuto fare.
A questo punto della storia entrò un quinto personaggio, tutti.
Ognuno, qualcuno, ciascuno scoprirono che ignorando nessuno ed insieme con tutti avrebbero potuto fare il lavoro anche con un po’ di piacere.
Ci stanno provando…

 

Re: La misura e i neuroni specchio
di overflow

L’argomento relativo alla funzione dell’istinto nella definizione della misura, introdotto da esedra e successivamente ampliato e specificato con gli altri interventi, mi stimola alcune riflessioni, che in un certo senso, proseguono la conversazione avviata in altra occasione con il Maestro Toran.
L’accenno al meccanismo dei neuroni specchio, fondamentale scoperta di Giacomo Rizzolatti e di (è giusto citare anche lui) Vittorio Gallese, porta la mia memoria a un articolo pubblicato proprio da quest’ultimo sulla percezione dell’opera d’arte.
Secondo Gallese, infatti, proprio l’azione di tali neuroni consentirebbe alla mente del fruitore dell’opera di rievocare le sensazioni corporee rappresentate e addirittura, in alcune occasioni, anche il gesto effettuato dall’artista durante la creazione dell’opera stessa.
A conforto del ragionamento, e mi sembra utile farlo anche in questa occasione, vengono utilizzati come esempio: i “Prigioni” di Michelangelo, opera nella quale l’impulso muscolare dei giganti risulta davvero emblematico, e gli squarci della tela di fontana, nei quali il gesto dell’artista risulta immediatamente percepibile.
L’articolo, nella sua sostanza, tenderebbe a sostenere, in relazione al ruolo funzionale dei neuroni specchio, una tendenza all’universalità nell’interpretazione dell’opera d’arte.
Tale ipotesi, per quanto ragionevolmente contraddetta dalla sovrapposizione della “cultura” sulla “oggettiva” interpretazione dei segnali corporei, troverebbe una sua indiretta conferma nella ricorrenza di numerosi simboli equivalenti in culture e religioni diverse.
La percezione e la comprensione del mondo, sembra proprio inequivocabile, passano, quindi, attraverso l’elaborazione del linguaggio, ma assolutamente non con il dominio esclusivo di quello verbale.
I confini tra gli ambiti di pertinenza della scienza e dell’arte si sfumano reciprocamente e i loro percorsi di ricerca non possono che incrociarsi continuamente nella persecuzione dell’unico obiettivo comune di descrivere e comprendere l’universo che ci circonda.
E la misura? La misura resta una magnifica espressione di questa straordinaria interazione di sensi della quale certamente avremo ancora occasione di parlare piacevolmente.
Per il momento, mi piace concludere con l’immagine che mi ha innescato l’esempio del Maestro Giancarlo: un meccanico, felice di aver completato il suo lavoro, che bacia con trasporto il cacciavite utilizzato per stringere l’ultima vite.

 

Re: La misura e i neuroni specchio
di Giancarlo Toran

… sì, ma ‘dopo’. Ogni cosa a suo tempo. La commozione deve avere il suo spazio, ma non deve interferire con la perizia tecnica. Volevo rappresentare il concetto con una metafora, ma quella che mi si presentava non era giusta: servono entrambe le ali, per volare. La sinistra e la destra, come i due emisferi del cervello. Ma il volo dà l’idea della contemporaneità dell’azione, mentre nel caso che ci riguarda l’accento va posto sulla coordinazione: prima una cosa, poi l’altra, secondo competenza. E questo ci porta ad un altro concetto: l’importanza della capacità di inibire l’azione indesiderata. Tutti i moduli hardware/software del nostro computer mentale lavorano insieme, e ognuno svolge il suo compito. Bisogna che solo quello giusto si occupi dell’azione in uscita, mentre gli altri non interferiscono.

Come si fa a mandare, in automatico, anche qualche immagine, così da illustrare i concetti con maggiore efficacia e immediatezza? Qualcuno me lo dica, per favore!

Inciso: imparare divertendosi, e insegnare divertendo, è una delle cose più belle della vita. Non è così che ho imparato io, e mi sembra un delitto, che non voglio reiterare.

Barzellettina: qual’è l’apertura alare di un’aquila? Risposta (per un’aquila piccola, va bene…): due metri. E quando vola contro sole? Non lo sa nessuno? Un metro e mezzo! E qui ci vorrebbe l’immagine: chi racconta, a braccia allargate come se volasse, si porta una mano sopra gli occhi, a mo’ di visiera…

Belli i richiami all’arte. Mi hanno fatto ricordare un concorso per gli allievi del vicino liceo artistico, qui a Busto Arsizio, che giravano fra le pedane, durante una gara di sciabola, per ispirarsi con la scherma, e disegnare. Vinse uno studente che aveva avuto un’idea ‘alla Fontana’: due tagli netti che si incrociavano al centro della tela. Più chiaro di così, non si poteva.

… credevo di aver già spedito questo commento un paio d’ore fa, ma qualcosa dev’essere andata per il verso sbagliato. L’ho rispedito ora, dopo aver visto l’interessante video indicato da Neropercaso. Ancora una prova che certe cose si capiscono meglio e più in fretta con le immagini, piuttosto che con ‘la fredda rete delle parole’. Grazie della segnalazione.

 

Re: La misura e i neuroni specchio
di neropercaso

Una delle scoperte neurologiche più importanti degli ultimi anni, quella dei cosiddetti “mirror neurons” o neuroni specchio, è dovuta ad un gruppo di neuroscienziati dell’Università di Parma coordinato dal Prof. Giacomo Rizzolatti e composto da Vittorio Gallese, Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi e Giuseppe di Pellegrino.
Il Prof. Rizzolatti in una intervista dello scorso anno dice: “E’ una scoperta importante perché sottolinea l’aspetto motorio della nostra cognizione. Rispetto al modello classico delle scienze cognitive, che invece si basano sugli aspetti percettivi, e dunque sul “vedere”, i neuroni specchio ci insegnano che alla base dell’apprendimento c’è l’azione”.
I neuroni specchio funzionano in questo modo: quando osserviamo un nostro simile compiere una certa azione si attivano, nel nostro cervello, le stesse cellule che entrano in funzione quando siamo noi stessi a compiere quel gesto. Praticamente questi neuroni da una parte si attivano quando si compie un’azione, dall’altra si attivano in maniera simile quando si osserva un altro individuo fare la stessa azione.
Allo stesso modo i neuroni specchio si attivano quando viviamo una particolare emozione o osserviamo altre persone vivere un’emozione: è il caso di più persone coinvolte e partecipi quando seguono una competizione sportiva; questo tipo di trasporto e coinvolgimento è dovuto appunto a queste cellule, i neuroni specchio, che si attivano quando viviamo una particolare emozione o osserviamo altre persone vivere un’emozione. Secondo i ricercatori i neuroni specchio possono mandare messaggi al sistema libico (emotivo) del cervello aiutandoci a sintonizzarci sui sentimenti della persona che stiamo guardando.
Al seguente link è possibile osservare un video che spiega in modo semplice e chiaro questo processo:
http://www.youtube.com/watch?v=O3-wegp1ovM&eurl=http://psicocafe.blogosfere.it/2006/10/i-neuroni-specchio-video-post.html

ciao, P.Parisella

 

Re: La misura nella scherma
di michele

Caro Giancarlo, credo a tutti noi piacerebbe parlare e scrivere solo di tecnica, tattica e quant’altro, schermaonline è proprio bello per questo perchè ci permette (come dice esedra) di riflettere, scherzare, farneticare, litigare, ridere, costruire, cercare, trovare, studiare, copia-incollare, sperimentare, io aggiungo imparare e leggere un articolo magnifico come il tuo sulla misura. Cosa si può commentare in un articolo così ben dettagliato che ci parla della misura? Possiamo solo ammirarlo nella lettura.
Un saluto Michele

 

Re: La misura nella scherma
di enricodiciolo

Spesso si sente parlare di “gesto istintivo”, in alcuni commenti ho letto qualcosa a proposito dell’istinto del maestro etc. Credo che ci sia da fare un distinguo tra cosa si intende per istinto nel parlare comune e per la scienza. L’uomo impara dal vissuto. Il maestro per diventare bravo, come gli atleti campioni, deve imparare a gestire la modalità d’intervento che intende usare per lasciare imparare ai suoi allievi. La naturalezza dei gesti non è ereditaria come i colori dei capelli, dipende in parte dalle qualità fisiologiche ereditate e dalle abilità motorie apprese. Nella vita si impara ad imparare. Ciò vale anche per il Maestro, non si può sperare come dice schermaboh che ci sia l’istinto a salvare l’insegnamento. Certo, la cosiddetta predisposizione aiuta, è la molla che stimola. Come la prestanza fisica basale. Nelle scienze, l’istinto è quello che si eredita, i riflessi arcaici es. puppare il seno della mamma, grattarsi un prurito… L’uomo, che alla nascita ha qualche riflesso arcaico, nel proseguo della vita ne ha ben pochi. L’uomo possiede azioni dovute al proprio vissuto, a ciò che ha visualizzato, a quello che ha sperimentato, ciò che ha imparato, soprattutto quello che ha appreso naturalmente.
La misura si impara, tramite le sensopercezioni, la concezione psicomotoria delle azioni tecniche, di contrasti sociomotori contrastanti. I fuoriclasse l’hanno imparata meglio di noi operai della pedana.
Enrico Di Ciolo

 

 

1 – Dove guardare? Come guardare?

di Giancarlo Toràn
21 febbraio 2008

Anche questo mio articolo sul dove e come guardare è stato pubblicato per la prima volta su Schermaonline, nel 2008, e poi ripreso altrove. Ho conservato la maggior parte degli interessanti commenti di allora, credo ancora attuali, come il tema dell’articolo.
Sin dai primi trattati di scherma gli autori hanno affrontato la questione: dove è opportuno guardare, durante un duello?

Le opinioni sono molto diverse: c’è chi suggerisce di guardare la punta della spada, chi la mano che regge l’arma, chi, come il Marcelli (1686) “… in faccia, e ne gl’occhi; perchè questi avendo corrispondenza con l’interno, sono spie del cuore.”
Pochi anni prima del Marcelli, nel suo Gorin No Sho (Il libro dei cinque anelli, 1645), il celebre Miyamoto Musashi dice qualcosa di simile, e qualcosa di più: “….non basta soltanto saper guardare, bisogna saper percepire e intuire. Percepire è più importante di vedere…. si debbono vedere le cose distanti come se fossero vicine e quelle vicine come se fossero distanti. È indispensabile saper individuare la tattica seguita dal nostro avversario nell’uso della spada, senza lasciarsi distrarre dai movimen¬ti insignificanti della lama…. Bisogna saper vedere da entrambi i lati senza muovere le pupille… Ma quando si fissano gli occhi su un punto solo si perde la visione d’insieme e ci si disorienta… Conoscendo la via dell’Hejo si valuta, anche senza guardare, la distanza e la velocità del rivale e si scruta nel suo cuore.”

Ma ‘scrutare nel cuore’ non è precisamente un esempio del linguaggio concreto che oggi le scienze cognitive ci hanno abituato ad apprezzare. Dobbiamo tradurre le nostre intuizioni in qualcosa di più facilmente maneggiabile, comprensibile, e possibilmente misurabile.

Prima di continuare, però, devo precisare una cosa: sono un professionista nel campo della scherma, ma in quello delle scienze cognitive, malgrado una discreta formazione scientifica, sono pur sempre un dilettante.
Perdonate, perciò, le inevitabili approssimazioni nel comunicarvi le mie idee ed intuizioni sull’argomento: ed anche alcune semplificazioni, che potremo meglio spiegare, se necessario, quando ne discuteremo.

Il mio primo riferimento è l’esperienza: con me stesso, e con gli allievi su cui ho lavorato e lavoro.

Posso fissare negli occhi un interlocutore alla mia sinistra, mentre gli parlo, e mentre qualcun altro, alla mia destra, tenta di prendere, con un rapido movimento, il guanto che ho fra le dita: riesco a toglierlo altrettanto bene, e forse meglio, che se guardassi direttamente l’altra persona, purché non sia completamente fuori dal mio campo visivo.
Spiego questo fatto con la maggiore specializzazione della parte periferica della retina per il movimento.
L’ho verificato in molti modi.
Tra i più convincenti, quello della frequenza di fusione retinica (FFR).
Anni addietro, la Fis commissionò alcune ricerche, fra cui la misurazione della FFR degli schermitori durante una gara: gli atleti erano invitati a guardare una fila di led, la cui frequenza di lampeggiamento era progressivamente aumentata sino ad essere non più rilevabile.
La FFR variava, cioè aumentava, nel corso della gara, come se fosse correlato con una maggior attivazione cerebrale.
Costruii perciò un apparecchio, che ho ancora, in grado di fare la stessa cosa, e scoprii, per incominciare, che la FFR è diversa per diversi colori.
Il fatto più interessante è che la stessa FFR varia guardando i led con la coda dell’occhio: in questo modo mi accorgevo ancora dello sfarfallio delle luci (e dello schermo dei vecchi televisori) che, viste di fronte, mi apparivano fisse.

Ma torniamo all’attenzione.
Siamo in grado di essere attenti ad un punto nello spazio anche se guardiamo altrove: questo si chiama attenzione coperta.
Non è una cosa facilissima: il sistema visivo è fortemente dominante, per le sue connessioni multiple con moltissime zone del cervello.
Sappiamo che possiamo essere attenti ad altre sensazioni, anche chiudendo gli occhi.
Ma se li apriamo, e ancor più se fissiamo qualcosa, la nostra attenzione tende ad essere catturata da ciò che vediamo.
Possiamo allenarci a controllare anche questo aspetto dell’attenzione: ma perché questo dovrebbe rappresentare un vantaggio?

La spiegazione che ho trovato, e che oggi mi pare la più convincente, parte un po’ da lontano.

Per tanto tempo sono stato abituato a pensare che fosse sempre utile accumulare informazioni: più se ne hanno, meglio si può decidere cosa fare.
Ma non è sempre vero.
Nella scherma, come in tanti altri campi della vita, il fattore tempo è decisivo.
Non basta decidere: bisogna farlo in fretta, molto in fretta, e bene.
Bisogna scegliere fra le informazioni, eliminando rapidamente quelle poco utili. Più se ne trattengono, più aumenta il costo, in termini di tempo, dell’elaborazione: ed aumenta in modo esponenziale.
A quanto pare, il nostro cervello lo sa benissimo, da sempre. Ed è bravissimo a cancellare, già in fase preliminare, le informazioni inutili. Ne volete qualche esempio?
Provate a fissare, in rapida successione, vari punti della vostra stanza. Il mondo resta fermo, anche se l’occhio è in movimento.
Se, invece, fissate lo schermo di una telecamera in funzione, mentre la dirigete, con la stessa velocità, verso gli stessi punti, tutto vi apparirà in movimento, impedendovi di distinguere i particolari.
L’occhio, che si muove a scatti (saccadi), “vede” solo quando la fissazione è avvenuta: il resto viene cancellato. Pare difficile da credere, ma è così: non sono io ad affermarlo.
La visione fine è limitata ad una parte molto piccola della retina, la fovea.
La retina è una sottile membrana nervosa in cui si trovano, tra l’altro, i fotorecettori.
Incredibilmente complessa, connessa al cervello tramite il nervo ottico, è in grado di svolgere elaborazioni preliminari sugli stimoli visivi, inviando il risultato al cervello, attraverso vie più lente, o più veloci, secondo la minore o maggiore rilevanza biologica del risultato: in altri termini, se l’informazione è significativa in rapporto alle nostre possibilità immediate di sopravvivenza, segue delle vie preferenziali più rapide, e si collega ai circuiti emozionali.
La distanza da noi di un possibile nemico, o predatore, ne è un esempio. Credo proprio che il senso della distanza (della misura) segua questa strada, e salti i percorsi di valutazione più lenti.
Non occorre essere studiosi di prossemica per “sentire” disagio se il nostro interlocutore si avvicina oltre un certo limite.
Sappiamo, inoltre, che questo “senso” modifica le sue valutazioni se usiamo, o se l’altro usa, uno strumento (la spada, ad esempio): che diventa un nostro o suo prolungamento. Vi invito a rileggere due miei articoli precedenti, e i commenti successivi: quello su Don Enrico, e la prossemica

Don Enrico

e quello sulla misura

La misura nella scherma

Ma torniamo all’occhio, e alla visione.

La via parvocellulare (la via lenta) dei sistemi visivi, responsabile della visione di forme fini-colori, riceve input praticamente solo dai coni, che si addensano in gran numero nella fovea.
Meno numerosi, ma diffusi in una zona molto più ampia della retina, serviti da un minor numero di fibre nervose, ma più grandi e veloci, sono i bastoncelli, responsabili della percezione del movimento, attraverso la via magnocellulare (la via veloce).

I rapidi, piccoli e frequenti movimenti degli occhi, detti saccadici, spostano l’occhio (e quindi la fovea) su vari punti di fissazione in tempi successivi, dandoci un’apparente visione d’insieme; e dandoci anche certe curiose illusioni ottiche, come quelle così ben sfruttate da Escher nei suoi disegni.

Fissare un punto preciso, quindi (ponendovi attenzione: e tutti gli studenti sanno che si può fissare un punto sulla pagina, ed essere altrove con la mente), significa attivare molte fibre nervose, che provengono dalla fovea; e anche sovraccaricare il sistema elaborativo con una notevole quantità di informazioni, e di ogni tipo. In queste condizioni, prendere una decisione che si trasformi in atto motorio richiede tempo: troppo, per la scherma.
“Ma quando si fissano gli occhi su un punto solo si perde la visione d’insieme e ci si disorienta” diceva Musashi.
Potremmo forse tradurre così: quando si fissa un punto, il nostro sistema elaborativo, che ha capacità limitate, non ha risorse sufficienti per fare rapidamente anche altre cose, come occuparsi anche del controllo della distanza.

Cosa guardare, dunque? Tutto, e nulla: lo sguardo va rapidamente dappertutto, ma non si fissa su nulla. Va prevalentemente al centro, verso il petto, ma non fissa né la mano, né l’arma, né gli occhi. Li vede, ma non li fissa. Direi: non tenta di metterli a fuoco. Ma non basta.

Il senso della misura, come sempre hanno sostenuto i Maestri, è il presupposto più importante per la buona riuscita di un’azione schermistica.
La misura, però, non è una cosa statica, né misurabile col metro: è la capacità di prevedere la portata dell’azione, nostra e dell’avversario insieme, in una situazione dinamica.
Quando io mi muoverò verso di lui, starà fermo, avanzerà o arretrerà? E con quale velocità?
La misura, quindi, è determinata anche dal ritmo di un’azione: un ritmo che coinvolge entrambi gli schermitori, in un dialogo, un balletto, che si chiama, quando si arriva allo scambio dei colpi, la “frase” schermistica.
Chiaro riferimento al linguaggio, alla comunicazione.

Anche il dialogo muto fra gli schermitori in pedana obbedisce alle regole generali della comunicazione.
Anche in questo caso, per capirsi, e ritrovarsi all’appuntamento col ferro, o col bersaglio, bisogna prima accordarsi, entrare in sintonia, muoversi “insieme”: solo dopo si può tentare di rompere con successo la sintonia, e piazzare il colpo vincente.
Oppure, resistere al tentativo dell’avversario, e mantenere il controllo, la sintonia, fino in fondo, ad esempio per parare e rispondere.

Si può allora completare il suggerimento: non fissare nulla, pur vedendo tutto; e cercare, inizialmente, il sincronismo con l’avversario.
Per spiegare come, prendo in prestito dalla PNL (Programmazione Neuro Linguistica) la tecnica del ricalco, che si ha rispecchiando, imitando, l’interlocutore. Nel nostro caso, adattandosi ai suoi ritmi: velocità, postura, direzione.

Ho chiesto ad un bravo allievo come si trovasse, con questo sistema, che adotta da un po’ di tempo.
Mi ha risposto: “Benissimo, e a volte mi riescono in questo modo perfettamente anche azioni istintive, non meditate, perché sento perfettamente la misura. Poi, quando sono molto stanco, e le cose non funzionano più, mi accorgo che sono tornato a fissare determinati punti, come facevo prima.”

Come allenarsi a far bene tutto questo? La parte più facile, che già troviamo negli esercizi convenzionali sulla misura, è quella del ricalco: seguire i movimenti dell’altro, fino ad assimilarne il ritmo.
Per migliorare, occorre addestrarsi ad individuare le caratteristiche dell’avversario (parlarne col maestro o con i compagni è molto utile) e imparare a portare all’esterno il focus attentivo.
Bisogna focalizzarsi completamente sull’avversario e sui suoi movimenti: muoversi come lui, sentire come lui, divenire lui.
Occorre una concentrazione vigile ma rilassata: fare con intensità quello che si sta facendo, e solo quello.
Sii qui ed ora, dicono i Maestri orientali: un allenamento che si può fare con profitto in ogni momento della giornata, anche fuori dalla sala di scherma.

La parte più difficile è quella relativa al modo di vedere.
Prima, per sganciare l’allievo dalla necessità di guardare, gli si fanno eseguire vari esercizi ad occhi chiusi: per esempio, tutte le parate di ceduta seguite da risposta, contro il destro o il mancino, sui fili o dopo i trasporti.
Poi, di nuovo ad occhi aperti, per portare gradualmente l’allievo a fidarsi del suo senso della distanza, e della sua visione periferica, ci si assicura che tiri i suoi colpi senza fissare il bersaglio o la mano armata dell’avversario: guardando il Maestro negli occhi, o guardando la sua mano non armata che si sposta di qua e di là; a volte addirittura impegnandolo, durante una serie di colpi, in una conversazione.

Dopo qualche perplessità iniziale, le cose cominciano a funzionare, e la precisione non ne soffre più di tanto.
Poi, acquisita la necessaria fiducia, si prova contro l’avversario, sempre sotto l’occhio vigile del Maestro. Quando il miglioramento diviene evidente, il nuovo comportamento tende a diventare stabile.
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COMMENTI

Re: Dove guardare? Come guardare?
di overflow

Gentile Maestro Giancarlo trovo, come sempre, il tuo articolo interessantissimo e preziose le sapienti indicazioni.
La suggestione dei tuoi ragionamenti mi ha stranamente evocato, invece delle immagini degli schermidori duellanti, quelle degli animali in combattimento. In particolare i cani dei quali, per avere avuto fin da bambino moltissime occasioni di osservazione, conservo ricordi intensi e variegati.
Avevo, già da ragazzino, la presunzione di avere un braccio veloce e mi divertiva un gioco che facevo col mio cane, soprattutto quando era arrabbiato. Sfidavo il suo morso, avvicinandogli pericolosamente la mano, per scansare il suo attacco all’ultimo momento.
Ricordo bene il suo sguardo come perso nel vuoto, ma che coglieva ogni mio impercettibile movimento e riconosco le tue precise osservazioni sul prendere il ritmo dell’avversario. Il gioco, infatti, sembrava trasformarsi in una sorta di danza nella quale i movimenti dell’ormai spazientito animale si mantenevano, comunque, in perfetta sintonia con miei.
Ricordo molte altre di occasioni in cui ho potuto osservare lo sguardo di questi splendidi e istintivi combattenti. Esemplari di razza, smaliziati e possenti randagi, cani che accompagnavano il gregge, nessuno, al momento della sfida, guardava mai direttamente l’avversario. I loro occhi scandagliavano continuamente lo spazio intorno al contendente, valutando costantemente la distanza e il movimento: la lettura del vuoto, come abbiamo detto in altra occasione.
Meraviglioso istinto, ma anche esperienza acquisita sul campo.
Soltanto uno di questi ricordi contraddice tutti gli altri. Un bellissimo “doberman” maschio, di stazza gigante, di una intelligenza e abilità eccezionali. Fu uno dei miei cani, quando avevo poco più di vent’anni.
Una razza particolare, con delle qualità notevoli, ma con una spiccata persistenza dell’istinto selvatico e una inarrestabile tendenza ad acquisire il dominio del contesto in cui si trovava. Conservo impressa nella memoria l’immagine che mi accolse quando lo raggiunsi, dopo averlo lasciato libero di scorrazzare dove credevo non ci fosse anima viva. Aveva costretto in un anfratto, tra le rocce, un cacciatore con i suoi tre cani e, nonostante fossero anche questi di consistente statura, riusciva a impedirgli qualsiasi spostamento.
Insomma, aveva un bel caratterino e una consapevolezza delle sue capacità che incutevano un timore reverenziale. Nonostante la mia lunga esperienza e malgrado avessi con lui un rapporto consolidato, fu l’unico a mordermi seriamente.
Beh, credo che non potrò mai dimenticare i suoi occhi incredibili, fissi, magnetici, puntati dentro i miei, prima di sentire i denti penetrare nella carne!

 

Re: Dove guardare? Come guardare?

di Giancarlo Toran
Anni fa, quando ero fresco di studi naturalistici, e di esperienze con vari animali, soprattutto cani, di cui conservo ancora un felice e affettuoso ricordo, leggevo spesso e volentieri gli scritti di Konrad Lorenz e di altri autori. Mi interessavo di etologia, e del comportamento dei cani, in particolare: che non fissano quasi mai direttamente negli occhi (e sviluppano, perciò un’eccellente visione periferica accoppiata all’attenzione coperta), né bisogna fissarli. Per loro, questo è un comportamento aggressivo: il predatore fissa la preda, prima di attaccarla. Il tuo doberman si preoccupava di dominare, più che di socializzare, e quindi aveva uno sguardo diretto.
Ho avuto anch’io esperienza di cani straordinari. Un bobtail di un amico, con istinti molto evidenti della sua origine di cane da pastore, liberato nel cortile (un campetto da basket) della palestra dove insegnavo più di 25 anni fa, in men che non si dica, puntandoli e guidandoli, mise una dozzina di bambini in piedi sulle due panchine del cortile: i bambini non sapevano nulla dell’obiettivo da raggiungere (il padrone ed io, sì), e si divertirono molto.
Ritmi, e sintonie: ho un ricordo molto vivo di un documentario che non sono riuscito a rintracciare. C’era una mangusta, che si preparava a colpire il cobra: che, a sua volta, voleva mordere la mangusta. Straordinario il balletto e la sintonia finissima con cui i due animali si muovevano, prima del guizzo fatale. Se qualcuno sapesse indirizzarmi, per ritrovare il filmato, ne sarei felice.

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di overflow
Ricordo bene quel filmato straordinario.
Non esattamente quello, ma qualcosa di simile puoi trovare in questa pagina http://it.youtube.com/results?search_query=cobra+vs+mongoose&page=1
Molto divertente l’esperimento di lettura del testo. Effettivamente, lo leggo con estrema facilità e scorrevolezza. Sarà la prova della mia superficialità?

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di Giancarlo Toran
Grazie della segnalazione: sono filmati molto interessanti.
No, non è prova della tua superficialità (né della mia), ma della tua tendenza a sottostimarti.
Ciao.

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di schermaboh
…Posso intervenire?

L’ idea della superficialità, è dato da un equivoco che anche illustri studiosi hanno dovuto discutere per arrivare a un dunque, mi spiego:

Anch’io, come overflow, ho letto con facilità il testo.
Offre un esempio di una parte del metodo di lettura veloce.
Dobbiamo tener conto del fatto, però, che nel compito di lettura offerto dal Maestro Toran ci sia lo zampino della teoria della Gestalt…
Credo riguardi la legge di unificazione – in tema di percezione – che opera per prossimità, somiglianza, chiusura, buona continuazione, ecc.

E’ interessante, secondo me, osservare che questo concetto, preso così com’è, porterebbe a pensare che il cervello umano tenda a vedere anche ciò che non c’è, pur di arrivare a una forma che abbia un senso, secondo i parametri acquisiti.
Insomma, si tratterebbe di automatismi mentali: vedo una parola che appare incompleta, o sbagliata e automaticamente la “aggiusto” secondo i miei… pregiudizi!
Questo tarperebbe un po’ le ali alla creatività, se fosse un meccanismo rigido… non solo, ma porterebbe a errori di valutazione e percezioni, in fondo, sbagliate.
Se rapportiamo un tale concetto di Gestalt alla scherma, gli inconvenienti, immagino, potrebbero essere gravi.
Interviene Piaget, a chiarire l’equivoco, con un concetto che preannuncia il pensiero del Costruttivismo:
l’attività del soggetto opera per decentrazioni successive una specie di dissoluzione della forma che viene poi ricostruita attraverso le leggi e le procedure della mobilità operatoria. La conseguenza è che vi è la possibilità di una costruzione, infinita, di nuove strutture percettibili, anche al di la di ogni percezione reale… detto così, ritroviamo tutte le potenzialità del guizzo creativo, tipicamente umano.
Il soggetto non è un passivo registratore di forme, più o meno compiute che siano, ma è un produttore di forme potenziali (anche solo mentali in senso matematico) alle quali può dare un corpo materiale oppure no.
Di volta in volta, quindi, scegliamo – e anche al volo – se attenerci a un modello “sensato” interno, per percepire una forma, oppure se vederla nella sua originalità, oppure se trasformarla, trasfigurarla, andando anche oltre la reale percezione (come fa l’artista, per intenderci).

Nel caso del testo proposto, per esempio, io “scelgo” di leggerlo in maniera che abbia un senso, perché, prima ancora di provare a leggere, ho già capito (e quindi scelto) il tipo di compito che mi stai proponendo: decifrare frasi di senso compiuto.

Quindi non siamo affatto superficiali, o banali, nel nostro modo di percepire, bensì adeguati al compito.

che ne dite?

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di overflow
E’ certamente come hai ben spiegato. Infatti, se ci fosse stato annunciato che si trattava di comprendere un testo in una lingua sconosciuta, di probabile derivazione dal sanscrito, ci sarebbe sicuramente sfuggita… la stnozatra di Rteulli.
L’idea della tendenza a sottostimarmi, però, mi piaceva un po’. Crea sempre quella felice illusione di potere ancora scoprire, un giorno, di essere migliori di quanto si creda!

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di Giancarlo Toran
“Quindi non siamo affatto superficiali, o banali, nel nostro modo di percepire, bensì adeguati al compito”: concordo senz’altro. Siamo il frutto di una lunghissima evoluzione, che tende proprio a questo.

“Credo riguardi la legge di unificazione – in tema di percezione – che opera per prossimità, somiglianza, chiusura, buona continuazione, ecc”. Dando per buono l’assunto degli studiosi di intelligenza artificiale, che assimilano la mente ad un computer, e cercano di comprenderne i meccanismi, credo che uno dei punti principali sia la capacità limitata del nostro sistema elaborativo, che ci spinge a risparmiare fatica. Per tenere in memoria quantità enormi di dati, ne facciamo mappe (riecco la Pnl), cancellando quelli inutili, generalizzando, distorcendo…

“E’ interessante, secondo me, osservare che questo concetto, preso così com’è, porterebbe a pensare che il cervello umano tenda a vedere anche ciò che non c’è, pur di arrivare a una forma che abbia un senso, secondo i parametri acquisiti. Insomma, si tratterebbe di automatismi mentali: vedo una parola che appare incompleta, o sbagliata e automaticamente la “aggiusto” secondo i miei… pregiudizi!”. Insisto, leggete Gazzaniga (La mente inventata. Le basi biologiche dell’identità e della coscienza), e troverete la sua teoria, che lui dà per dimostrata, dell’esistenza, nel nostro cervello, di una struttura che lui chiama “interprete”. Fa proprio questo: cerca di dare un senso alle cose. Purtroppo, anche quando non c’è: e questo ci fa sbagliare spesso, ma ci ha procurato anche un immenso vantaggio evolutivo. Non tarpa la nostra creatività: tutto il contrario. Nel cercare sempre un perché, si dimostra assolutamente creativo, a volte in modo esilarante.

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di schermaboh
Gazzaniga, ma anche Ramachandran e Bion, descrivono ampiamente la funzione interpretante della mente: si tratta indubbiamente di una grande risorsa che la mente umana ha sviluppato, come tu sottolinei, nel corso delle sue avventure evolutive. Solo che è ancora un sistema un po’ imperfetto che a volte fa pagare un po’ cara la sua utilità: opera, infatti, attraverso sentieri spesso un po’ stretti e obbligati.
Bion consiglia, nei suoi testi, di sviluppare una resistenza a questa tendenza innata, scegliendo – quando sia possibile – di restare nell’incertezza (per alcuni individui, la condizione di incertezza è insopportabile, persino se si tratti di istanti!). Bisogna allenarsi a resistere alla forza attrattiva di un’idea che “spiega tutto”, che “chiuda il cerchio”, dando così un po’ di ossigeno e di spazio all’esplorazione con una conseguente autentica scelta.
Gli stessi autori – naturalmente anche molti altri – hanno rilevato inoltre la nostra tendenza ad evitare il cambiamento: la mente tutela – quasi a ogni costo – i propri sistemi di credenza; sceglie il noto e diffida dell’ignoto, anche nelle situazioni in cui l’incertezza e l’ignoto non costituiscono un pericolo.
Ramachandran spiega che l’emisfero sinistro, sede del sistema di credenze, evita di considerare i segnali dall’emisfero destro che vorrebbero evidenziare una necessità, per esempio, di riconsiderare una certa idea, in base a nuovi elementi.
Bion è ancora più netto nel dichiarare che spesso non accogliamo una verità evidente, per non affrontare il suo potere rivoluzionario, anche quando la rivoluzione si presenti di piccola entità.
“E’ fondamentale, comunque, la cooperazione e integrazione tra emisferi – con la loro complementarietà – che sottende un’interazione necessaria e profonda tra le funzioni da questi processate: un esempio ci è dato dalla funzione del linguaggio che pretende il buon funzionamento di entrambe le componenti, a favore di una comunicazione adeguata ed emozionante” (Dermedi).

Io personalmente considero importantissimo l’apporto di un altro autore: Damasio.
Leggere i suoi testi porta al superamento di ogni dicotomia corpo/mente, emisfero destro/sinistro, e soprattutto pensiero/emozione.
Non è un autore di accessibilissima lettura (ma anche Gazzaniga non scherza), ma lo sforzo è ben ripagato, per noi che ci appassioniamo a questo tipo di sapere e che vogliamo applicarlo.

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di Giancarlo Toran
Torno a bomba tra una partenza e l’altra: mi dispiacerebbe lasciar cadere troppo presto temi così stimolanti.
Sono sostanzialmente d’accordo: ma non sulla forma (che si trasforma poi in sostanza) delle considerazioni che fai, o riporti.
Quel che tu chiami “sistema un po’ imperfetto” a me sembra una soluzione geniale della natura, che però comporta un prezzo da pagare. Cerco di spiegarmi meglio.
Il nostro cervello è, attimo per attimo, alle prese con una mole imponente di dati da accogliere, selezionare, elaborare: troppi, anche per una macchina così sofisticata. Per mantenere continuità e un filo logico nell’azione, i dati devono essere memorizzati. Come sa chiunque lavori col computer, non c’è disco fisso, per capiente che sia, che non si riempia, prima o poi. Anche la nostra memoria, dovunque sia localizzata.
Per ovviare all’inconveniente, bisogna organizzare i dati: cancellando quelli inutili (e bisogna scegliere…) accorpando i dati simili (generalizzazioni varie), aggiustando un po’ (deformazioni varie) quelli che non entrano nel contenitore. Già, perché il contenitore è un altro bel problema, insieme ai limiti della nostra capacità di elaborare i dati: non possiamo tenerne troppi, tutti insieme, nella nostra memoria di lavoro (a breve termine). E lavorare sui dati elementari (quelli che ci provengono direttamente dai sensi, e sono in quantità straripante) è troppo oneroso. Allora, li organizziamo in concetti, categorie, gerarchie. Trasformiamo le sensazioni (che fluiscono) in oggetti (che sono fissi, e manipoliamo più facilmente). Trasformiamo i verbi in sostantivi. E’ più facile parlare di libertà che del mio essere libero, qui e ora, di fare questa specifica cosa.
Tutto questo riorganizzare i dati comporta un prezzo da pagare, come dicevo: si riesce ad arrivare molto lontano (prevedere, creare…) ma si compiono anche molti errori. Il bilancio, però, come dimostra il nostro successo evolutivo, è largamente favorevole.
Ma continuiamo: quando dobbiamo considerare dati nuovi, dobbiamo inserirli nella struttura preesistente, e in modo logico e coerente. Se, come certamente accade, la struttura preesistente (che funziona abbastanza bene, ci ha dato risultati, ci ha portato ad essere quello che siamo) contiene errori, ci è molto difficile rivoluzionarla per accogliere i dati nuovi. Spesso, è più facile modificare i dati nuovi per adattarli ai vecchi: è quel che facciamo piuttosto spesso, commettendo altri errori. Quando sono troppi, entriamo in crisi: e solo allora siamo disposti ad affrontare il doloroso lavoro di riorganizzazione delle nostre credenze e convinzioni.

Meglio una storiella o due, per mostrare il processo in atto.

“Sai come far impazzire un uomo in camera da letto? … Nascondigli il telecomando!”

Un tale vede una tizia interessante al bar, e decide per l’approccio diretto: “Avrebbe da obiettare se le proponessi di far sesso con me?” Risposta: “Ma, veramente…  non l’ho mai fatto!” “Incredibile! E’ ancora vergine?” “Ma cosa va a pensare! Non ho mai fatto obiezioni!”

Visti i presupposti al lavoro? Questo modo di operare, in un certo senso, rivaluta i nostri pregiudizi, che ci sono indispensabili. Se ne siamo più coscienti, riusciamo anche a fare meno errori. Quando leggiamo le parole con le lettere “mischiate”, il cervello mostra la sua naturale e necessaria propensione al risparmio. Quando Overflow si sottostima, parte da un pregiudizio (limitante) su di sé.

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di schermaboh

Perfettamente d’accordo: il nostro cervello è qualcosa di meraviglioso e le soluzioni che la neocorteccia (ma non solo) ha trovato per risolvere i vari problemi, oppure, dove non fosse possibile, per aggirare gli ostacoli alla sopravvivenza, si sono dimostrate soluzioni evolutive di successo (altrimenti forse non saremmo nemmeno qui a parlarne).
Questo non vuol dire che il grado di sviluppo – anche e soprattutto in senso filogenetico – del cervello sia arrivato al massimo livello rispetto alle potenzialità…
I ragionamenti e gli esempi che tu porti riguardano il funzionamento della nostra mente per come è adesso, nella “dotazione” di base, a questo grado di evoluzione, e anche per come PUO’ essere per ciascuno di noi.
Possiamo ammirare il lato che tu vuoi sottolineare, cioè la simpatia e la genialità che, caso per caso, il nostro cervello sa dimostrare percorrendo le sue strade… ma esistono modalità da sviluppare e prima ancora da capire…
Mentre la nostra “glassa magica” continua a crescere, sia a livello filogenetico che ontogenetico, esistono competenze nuove raggiungibili che in molti sensi permettono migliori soluzioni rispetto a ciò che sa fare il nostro “pilota automatico” …che, benché sia simpatico e geniale, è comunque – come hai osservato – talvolta un po’ limitato, “conservatore” e “fissato” nel voler economizzare… e può sbagliare.
Eppure di zuccheri, nell’attuale dieta umana, ce ne sono fin troppi e di belve pronte ad azzannarci… beh, si, ci sono ancora, ma quelle odierne sono controllabili proprio con le facoltà mentali 🙂
Una delle possibilità – tra le più semplici, ma non tra le meno importanti – è data dal pensiero divergente.
Il fatto di abituarsi alle prerogative del pensiero divergente porta a cambiare in maniera significativa il nostro stile cognitivo: lo stile cognitivo ingloba lo stile di apprendimento e, a livello di stile di apprendimento, per esempio, cambia proprio il modo di immagazzinare e organizzare le informazioni. Poi cambiano i processi mentali e quindi il modo di utilizzare queste informazioni: è deducibile il fatto che a un livello, diciamo, avanzato, cambi anche la scelta riguardante i dati da cancellare e quelli salienti da trattenere.
Lo stile cognitivo, invece, è una modalità di elaborazione dell’informazione (che ingloba lo stile di apprendimento) che si manifesta in compiti diversi e addirittura in settori diversi del comportamento: riguarda anche gli atteggiamenti, il relazionarsi, il modo di reagire a stimoli e situazioni inconsuete, e così via.

Secondo Guilford, i principali aspetti che contraddistinguono il pensiero divergente dal pensiero convergente riguardano il grado e il carattere della fluidità, flessibilità, originalità, elaborazione, valutazione.
Tale capacità risiede nella ricchezza e varietà del flusso di pensiero che viene suscitato da una situazione. Quanto più abbondante è il numero di ipotesi che viene prodotto, tanto maggiore è la possibilità che uno di questi elementi cognitivi possa risultare utile per avvicinarci alla soluzione.
Non credo sia assurdo che questa capacità possa essere utilizzata nella scherma, per il fatto dei tempi veloci: la velocità del pensiero e delle idee può essere, se allenata, superiore a quella che ci raffiguriamo e chi sappia, in una situazione che si ripresenti, stupire l’avversario con un’idea divergente, credo possa trarne un vantaggio (anzi… mi sembra di aver capito che nella scherma sia proprio questo che si cerca di fare, perlomeno da un certo livello in poi).
La flessibilità indica invece la capacità, nel corso del flusso di pensiero, di cambiare strategia ideativa, cioè di passare da una successione o catena di idee a un’altra, da un’impostazione o schema ad un altro, da una categoria di elementi a un’altra, ossia la capacità di considerare diverse risposte, comprese quelle MAI IMPARATE.
Per questo sono necessari balzi immaginativi che vanno allenati: purtroppo, a livello di dotazione genetica, ben pochi nascono con questa marcia in più.
L’originalità, quindi, consiste nella capacità di trovare risposte insolite o uniche cui in genere le altre persone non pervengono (o scartano a priori “per praticità”, o per un falso intuito autoingannatore).

Per fare un esempio molto immediato possiamo pensare alla mosca intrappolata dietro a una finestra:
La mosca, che io sappia, non può allenarsi al pensiero divergente…
Non è la finestra a intrappolarla, perché magari è anche aperta, pur se non spalancata. Solo che la mosca non riesce a uscire dallo stupore del fatto che la trasparenza non indichi “via libera”: se vedo oltre, significa che non ci sono ostacoli e allora continuo a battere il grugno sul concetto “vetro” che non riesco assolutamente a “immaginare”… e vado avanti per tentativi (tutti identici e sbagliati).
Naturalmente, nel caso di un essere umano, questo sarebbe ritardo mentale e pure grave… ma, traducendo l’esempio in una situazione consona all’uomo, purtroppo molti individui si comportano più o meno come la mosca: significa che il grado di pensiero divergente è proprio a zero e bisogna cominciare dall’ A B C che ben conosciamo: “la mappa non è il territorio”, il brainstorming, ecc. ecc.
E poi, una volta comprese le differenze nell’efficacia ed efficienza, ci si può sbizzarrire (anche se molte strade sono appena all’inizio, come lamentano i neuropsicobiologi, cibernetici, cognitivisti e company).
Ma sono convinta che già con ciò che attualmente è conosciuto, potremmo andare molto avanti… se per esempio alcuni concetti della psicopedagogia (anche solo minime basi) fossero pane quotidiano per le famiglie e soprattutto per la scuola. Ogni tipo di scuola.

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di Giancarlo Toran

Bello, Boh, l’esempio della mosca. Il problema ancora irrisolto è quanto sia possibile migliorare con un apprendimento intelligente, e quanto le nostre capacità siano, invece, predeterminate dalla nostra dotazione genetica. Io tifo per il primo, però cresce di giorno in giorno il peso attribuito alla seconda. Comunque, oltre che crescere, imparare (ci proviamo, e ci riusciamo, fino ad un certo punto), dobbiamo trasmettere, e questo è il problema. Qual è il modo più efficace? Esiste un metodo separato e separabile dagli individui che lo applicano (credo che questo sia uno dei punti di partenza dell’analisi di Damasio, per esempio)?

Tornando alla mosca, ho l’impressione che noi siamo ben capaci, e lo siamo naturalmente, di pensiero divergente. Il pensiero convergente lo impariamo dopo, e con fatica: e molti non lo imparano quasi per niente, ma credono di esserne grandi esperti. Man mano che impariamo, tendiamo a sottovalutare e sottoutilizzare l’altro strumento.

La difficoltà è, come dici, nel saper alternare con facilità i due strumenti. Quanto, e come, ci si possa allenare a farlo, è un bel quesito. Quanto questo dipenda da scarsa dotazione genetica o dal fatto che non abbiamo saputo imparare (o non ci hanno saputo insegnare), è un altro quesito.

La scherma, per me, è uno splendido esempio di come si possa e si debba saper passare rapidamente dal rigore del controllo alla fluidità richiesta dall’azione in tempi rapidi, più rapidi della nostra cosciente capacità decisionale (non è una involontaria ripetizione: ricordi il fioretto in equilibrio?… Vabbè, ora non ti scaldare, scherzavo ;-))

Ho visto ora l’abstract dell’articolo che citi: ma non dice molto (cosa e come). Spero in una traduzione italiana del testo completo, quando sarà disponibile.

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di schermaboh

Grazie, MaestroToran, per questa discussione, per me molto bella e stimolante e soprattutto grazie per non esserti stancato di “darmi corda” 🙂

Per la tua domanda sui limiti…
Chiedersi se la genetica ponga un limite alle possibilità di apprendimento è, credo, come chiedersi se sia più forte l’ereditarietà o l’ambiente: posto che sono entrambi elementi fondamentali (e in un certo senso sovrapponibili),dal mio punto di vista è più forte l’ambiente.
La giraffa ha il collo lungo per un fatto ereditario, certo, ma da cosa è partito questo fatto ereditario? dall’ambiente!
In fondo, l’ereditarietà, se ci pensiamo, non è altro che “ambiente assimilato e accomodato”.
Quindi, la qualità e quantità delle esperienze, hanno la meglio sui fattori ereditari, almeno entro certi ovvi limiti.
A livello individuale, i cambiamenti dovuti alle esperienze e all’ambiente, sono subito piuttosto palesi…
Invece a livello genetico, beh… bisogna avere un po’ di pazienza per poter osservare i risultati: magari trecento o mille anni… hai fretta? 🙂

Che il pensiero divergente venga “disimparato” a favore del pensiero convergente è vero, ma rendiamoci conto di una cosa:
Il pensiero divergente che serve a un adulto non è precisamente il pensiero naif del bambino piccolo:
il bimbo sa divergere, ma anche per il semplice motivo che, fino a una certa età, come insegnano Piaget, Vygotskij e company, non ha scelta…
Il pensiero divergente adulto è solo parzialmente un recupero dello stile infantile.
E’ come pensare che la creatività di un bimbo sia quella dell’artista: è una bellissima idea che seduce soprattutto me che amo i bimbi, ma… non è precisamente così.
E’ come pensare che l’intuito di una persona estremamente ignorante e dal pensiero limitato da stereotipi e pregiudizi, sia identico all’intuito sapiente di chi abbia potuto fare esperienze in una certa quantità e qualità: esiste un intuito francamente un po’ fallace e un intuito sapiente, anche se esistono le note eccezioni.
Quando ho appreso abbastanza e ho fatto determinati studi ed esperienze… allora sì che posso lasciarmi andare all’intuito.
E così il pensiero divergente: va allenato. Come tutte le facoltà mentali.
Siamo abituati a pensare alla mente come a un oggetto misterioso a cui affidarci, per il fatto che non la vediamo e non possiamo renderci conto dei cambiamenti nella sua architettura dovuti alle esperienze…
mentre se fai dieci flessioni, già puoi vedere e sentire cosa sta succedendo ai tuoi muscoli.

L’esempio della tua splendida idea del fioretto in equilibrio dimostra il funzionamento e l’efficacia del pensiero divergente e, in questo caso, dell’insegnamento divergente: tu non mi crederai, ma io, da quell’esempio e da quella sensazione che hai saputo darmi, ho capito tante cose che un certo numero di lezioni di scherma, di discorsi, di libri e di osservazione della scherma, non avevano saputo chiarirmi.
Naturalmente tu hai centrato il mio problema e la soluzione per la mia comprensione di certi aspetti, per il tuo intuito sapiente e per il tuo pensiero… divergente, ma ben “informato”, da fuoriclasse tra i Maestri di scherma.
Inutile stare qui a raccontarci che ci sei arrivato “lasciandoti andare al tuo bambino interno”… 🙂 … è gradevole psicologia da salotto, ma… non m’incanta…
Al limite è solo una parte della verità. Perché mai non considerare l’altra?

 

Re: Dove guardare? Come guardare?

di Giancarlo Toran
D’accordo, d’accordo: e continuo ancora un po’, prima di un giorno e mezzo di blackout.
Mille anni sono pochissimi, per l’evoluzione dell’homo sapiens. Tantissimi per la drosofila.
Le persone appartengono alla prima specie, e si interessano di quel che possono fare nella loro non breve vita. Dell’evoluzione si interessano a livello intellettuale, imparare concretamente è prioritario.
Sicuramente abbiamo dei limiti, ma fissarli noi, magari molto in basso, non è intelligente.”Cavilla sui tuoi limiti e ti apparterranno” dice il magico manuale di Donald Shimoda (Illusioni, di Richard Bach, l’autore de Il Gabbiano Jonathan Livingston). Questa massima l’ho tenuta per anni sulla mia scrivania. Ora ce ne sono altre, ma forse dovrei rimetterla al suo posto. Con gli anni, torniamo ad affezionarci ai limiti.
Certamente, come dici, la creatività del bambino e quella dell’adulto sono cose diverse. Ian Robertson, nel suo bel libro (Intelligenza visiva. Il sesto senso che abbiamo dimenticato. 2003, Rizzoli) ci dice che il freddo abbraccio del linguaggio spegne l’immaginazione: ma ci incoraggia a riaccenderla, esercitandola, e dicendoci come. Il come mi appassiona: sapere, per me, significa come fare.
Quando ricevo complimenti per il mio modo di insegnare, mi chiedo sempre se è una cosa appresa, o innata, e in che misura. Se è appresa, devo poterla trasmettere; se è innata, a che pro sforzarsi? Io credo che molte cose si possano insegnare: molte di più di quel che comunemente si ritiene. Quando non ci riesco, è perché io per primo non ho ben capito. A volte, capisco meglio proprio quando tento di spiegare ad altri, e mi meraviglio ogni volta.
Ciao

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di schermaboh

Bello il tema dell’insegnamento e dell’insegnare a insegnare: secondo me meriterebbe un “capitolo” a parte.
La mia idea, a proposito del tuo quesito, è che sia una capacità sia innata che acquisita. Il resto lo fa l’interesse vero e la passione.
Come ti dicevo, leggere Damasio aiuta a non dividere i compartimenti e questo ti da il vantaggio aggiunto di non dover scegliere: innato o acquisito? emozione o ragione? divergere o convergere? … ogni scelta è una rinuncia.

Ci sono insegnanti che credono di insegnare e invece “riferiscono” ciò che sanno.
Poi ci sono quelli che realmente trasmettono.
Non si può insegnare a insegnare se non si sa trasmettere.
Trasmettere correttamente significa aspettare di ricevere il segnale che il proprio messaggio sia arrivato a destinazione, nella testa dell’allievo e poi assicurarsi che quel messaggio non sia arrivato alterato o incompleto.
Non è facile fare questa verifica e non è facile riprovare a insegnare la stessa cosa più volte in modi diversi.
A volte, trovare la corrispondenza nella mente e nelle reazioni dell’allievo, può essere qualcosa che spazientisce. E’ come una ricerca.
A me è rimasta impressa una storiella su Einstein, apparentemente non pertinente. Una volta un giornalista gli aveva chiesto: “che differenza c’è tra una persona intelligente e un genio?”
E lui aveva risposto: ” La differenza la si nota davanti alla scommessa dell’ago nel pagliaio:
il tonto sbuffa, gira i tacchi e se ne va, pensando di non aver tempo da perdere per certe inezie…
la persona intelligente, invece, accetta la scommessa e trova l’ago.
Il genio è quello che dopo aver trovato l’ago ne cerca un altro… e poi un altro e poi un altro ancora…”

Ecco, chi ha la pazienza, la disponibilità e le capacità per trovare un ago nel pagliaio (tatto, vista, metodo, memoria…), e poi anche la fantasia per pensare che ce ne possono essere altri… e la generosità per cercare anche quelli… è probabilmente un buon insegnante (e non soltanto).

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di schermaboh
Bentornato, Maestro Toran
Questo nuovo argomento – tanto interessante quanto impegnativo, come sempre – andrà, per quanto mi riguardi, assimilato per gradi.
La parte che più mi è familiare è quella relativa al rispecchiamento e mi sorgono subito alcune domande:

– sarei portata a pensare che i migliori effetti di questo metodo si possano ottenere integrando gli esercizi in questione al training di un bambino principiante, in modo da permettergli di crescere schermisticamente con questa marcia in più… Invece, ma è solo una mia idea, immagino sia piuttosto duro un cambiamento di questa portata per chi sia già a un buon livello di scherma, soprattutto quando la persona in questione sia un adulto che ha sempre sentito dire “fissa la mano, guarda sempre la punta”, ecc.

– L’altra questione riguarda le nozioni-base della PNL, riguardanti il ricalco e il rapport:
Il concetto che sta alla base della costituzione del rapport è che vi è un’innata tendenza nell’uomo ad uniformarsi ai comportamenti dell’altro, assicura la PNL.
Allora mi chiedo se, normalmente, anche in assenza di un intenzionale stimolo in questo senso, non sia comunque insito nella persona – e ancora di più nello schermitore, date le implicazioni riguardanti la “misura”, per esempio – un istinto ad agire in questo modo.
Perché l’impressione che io ricavo nell’osservare un assalto, è proprio questa: che ci sia una sintonia e un rispecchiamento tra gli avversari.
Se così fosse, allora si tratterebbe “solo” di lavorare per rinforzare, raffinare e soprattutto rendere consapevole qualcosa che, di base, già esiste. E’ così?

Poi, per l’argomento in generale, mi viene in mente qualcosa che forse non c’entra proprio nulla, ma a me sembra che un piccolo nesso ci sia:
anni fa ho partecipato a un corso per la “lettura veloce”: si tratta – lo chiarisco pur essendo convinta che tu ne sappia ben più di me, come su tutto il resto:-) – di una tecnica che consente di aumentare il ritmo di lettura (e memorizzazione) in maniera, direi, esponenziale.
Inizialmente non ci si crede, ma poi ci si accorge dell’enorme cambiamento, sia di velocità che di resa mnemonica.
Fa parte dell’addestramento il fatto di abituare la vista a una traiettoria sul testo molto diversa da quella abituale (da sinistra a destra e riga per riga), utilizzando le potenzialità della vista “subliminale”, ma soprattutto della vista periferica: la “coda dell’occhio”.
Non ci si crede, ma, abituandosi, il tempo risparmiato è notevole e non si perde una virgola in termini di profondità: non si tratta affatto di un tipo di lettura superficiale, anzi…
Ci “azzecca” qualcosa… o sono fuori strada come una Jeep?

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di Giancarlo Toran
Rispondo, e grazie del bentornato!

Adulti e bambini: ho iniziato a sperimentare con gli adulti, e ne ho avuto subito un riscontro positivo: gli adulti sanno ciò che vogliono, e collegano l’esercizio all’obiettivo, motivandosi. Con i più piccoli (ho iniziato più tardi, a provarci con loro: volevo prima il riscontro dei più bravi, per essere certo del fatto mio) è un gioco divertente, ma fanno in fretta a dimenticarlo: l’istinto li porta a guardare il braccio e il bersaglio. Credo, però, che sia molto utile inserire qualche richiamo ogni volta che fanno lezione, o che li si osserva tirare. Il tempo ci dirà se è la strada giusta: io credo di sì.

Ricalco: si, è qualcosa che già esiste, e di cui siamo istintivamente capaci. La Pnl ci insegna ad utilizzare coscientemente questa capacità (fondamentale per socializzare, che è un creare sintonia su vari livelli) per poi guidare il comportamento dell’altro (e magari vendergli qualcosa, o ottenere la sua simpatia). La scherma ci conduce prima ad ottenere la sintonia, da cui nasce la possibilità di romperla “in tempo” per piazzare la botta in una finestra temporale ridottissima.

Non ho esperienza di corsi dei lettura veloce, ma leggo molto velocemente: me ne accorgo quando leggo una pagina insieme ad altri. Mi pare evidente che questo dipenda da una diversa strategia visiva: non solo un maggior utilizzo della visione ampia, periferica, ma anche una maggiore fiducia, un sapersi lasciare andare, un rinunciare al controllo stretto, accettare la possibilità di sbagliare. Credo che questo sia collegabile alla capacità che deve avere lo schermitore di evitare il conflitto tra parte destra e sinistra del cervello, lasciando il comando alla prima quando si è in misura, e si lavora in tempo.

L’esempio che ti propongo è lo scritto che segue (non è mio, e non tener conto dei riferimenti politici):

Rteulli
Sceodno dei ricaricorti dlel’Utievnsirà di Cmabrigde non iomrtpa in qlaue oidnre vnongeo sritcte le ltrteee in una proala, l’uicna csoa ipotamrnte è che la pirma e utilma lteetra saino al psoto gusito. Il rseto può esesre una cnuosifone ttaole ed è cmunoque psoibisle lgeerlgo sneza porlembi. Qusteo prcehé la mnete uamna non lgege ongi sngiola lteerta, ma la praloa nel suo isienme. Ircldinibe no?
Videmao se cpaite acnhe qesuta: irei Rteulli ha dteto un’artla stnozatra.

Alcuni ci riescono subito – leggono rapidamente come se le lettere fossero al posto giusto – e sono quelli che si lasciano andare più facilmente all’intuizione, e se ne fidano; altri stentano ad iniziare. Se, però, qualcun altro inizia a leggere, si lasciano portare, e poi continuano bene anche da soli.

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di g-man

Per un marziano che si diletta nell’aleggiare tra la terra e Marte e` sempre molto curioso quando in questi due pianeti molto diversi argomenti simili o addirittura quasi gli stessi entrano in discussione. L’interessante articolo di Giancarlo Toran su Schermaonline e` apparso quasi contemporaneamente ad un post su Fencing.net quando freerider258 ha posto la seguente domanda: “Dove si dovrebbe puntare lo sguardo quando si tira di scherma?”

Come e` tipico tra i marziani, le domande sono spesso volte verso il pratico (terra-terra come si dice da voi) piuttosto che il teorico, cioè` si chiedono dove, e pochi si preoccupano sul come. Giancarlo invece, e giustamente secondo me, parla sia del dove che del come e di tante altre cose ben più profonde.

Quello che interessa a me e` vedere come “culture” diverse affrontano vari problemi ed ottengono risultati che possono essere similari, ma derivati con metodi e procedimenti differenti.

Il thread in questione su Fencing.net e` questo:

http://www.fencing.net/forums/thread34994.html#post665377

Qui sotto metto delle citazioni estratte dai commenti che a me sembrano essere i più interessanti (testo originale inglese + mia traduzione italiana):

freerider258 Post #1

Where you should look when fencing

Dove si dovrebbe guardare (fissare lo sguardo) quando si tira di scherma

… I know this may sound like a very silly question, but since I am a fairly new fencer i don’t see much harm asking it. My question is: Where should your eyes be when fencing?
-I am an epee fencer so please respond accordingly

… Lo so che questa puo` sembrare una domanda stupida, ma dato che sono uno schermitore alquanto novello non vedo quale sia il male nel porla. La mia domanda e`: Dove si dovrebbero puntare gli occhi quando si tira? Sono uno spadista quindi per favore rispondete per questo caso.
….

seven6ty Post #3

I prefer to try and concentrate on the eyes, as your opponent will almost always have to “look” at a target, before attempting to hit it. So you get the earliest warning here. Secondly, I try to watch the leading shoulder area. Watching this area will tell you immediately, when your opponent switches into a forward attack, or especially when they are beginning a flesche, or quick moving attack at you, since they have to extend the arm from the shoulder at the very start of it.

Io tendo a concentrarmi sugli occhi dato che l’avversario quasi sempre deve “mirare” ad un bersaglio preciso prima di tentare di colpirlo. Quindi negli occhi cogli il segnale premonitore. In secondo luogo cerco di osservare la zona della spalla del braccio armato. Osservando questa area si capisce immediatamente quando l’avversario passa ad un attacco in avanti o in particolare quando sta per partire in frecciata, o un attacco veloce, dato che deve estendere il braccio a partire dalla spalla proprio all’inizio del movimento.

Mo Post #10

There was a thread in here about Christian Bauer giving lessons without masks. I saw him in Orleans and asked him about it. …

C’era un thread qui su Christian Bauer che dava una lezione senza maschere. L’ho visto a Orleans e gli ho chiesto il perche`….

[nota: da noi nessuno si azzarderebbe di fare lezione senza maschera, né maestro, né studente. Un eventuale incidente causerebbe una rivoluzione con cause legali contro tutto e tutti che non finirebbero mai e rappresenterebbero la fine della scherma su Marte]

He said yes. he does give the Chinese girls lessons without masks now and then. The reason is because his Chinese women do not look people in the eye. It is not a part of their culture to do so and he has to combat that somehow. He showed me how it worked by getting up and doing fencing moves on me while he was staring me in the eyes. Those of you who know me know I am not a fencer, and while I used to be an athlete I don’t resemble that person at all anymore.

Mi ha risposta di sì, che lui dava di tanto in tanto lezioni alle sue ragazze cinesi senza maschera. Il motivo è perché le cinesi non guardano le persone negli occhi. Non fa parte del loro modo di comportarsi e lui ha dovuto lottare contro questa tendenza in un qualche modo. Mi mostrò poi come funzionava, alzandosi ed eseguendo dei movimenti di scherma mentre mi fissava negli occhi. Chi mi conosce sa che non sono una schermitrice e anche se in gioventù sono stata un’atleta, oggi non assomiglio più a quella persona.

I really got the point from Christian though. He showed me the importance of looking people in the eye while fencing and I think it could be pretty helpful in dealing with people other times.

Comunque ho capito da Christian il suo punto di vista. Mi ha dimostrato l’importanza di guardare la gente negli occhi mentre si tira di scherma e penso che questo potrebbe essere di buon aiuto quando si tratta con la gente anche in circostanze diverse.

You can read what they are going to do. Even I could read what he was going to do. It was really interesting to see how important that one thing was.

Puoi leggere [nei loro occhi] quello che stanno per fare. Pure io potevo leggere negli occhi di Cristian cosa stava per fare. E` veramente interessante vedere quanto importante sia questo singolo fattore.

Ecco, e` tutto per ora.

P.S.: E` indubbio che le interazioni con e tra cinesi sono diverse che tra occidentali. Se evitano in generale di guardare negli occhi delle persone, quando puntano col dito verso una persona, mentre noi di solito puntiamo al petto/zona del cuore, loro puntano al naso della persona. Quindi deduco che se non fissano gli occhi dell’interlocutore, dovranno ben tener conto del suo naso.

Infatti, usano un termine denigratorio nei riguardi dei non cinesi [ta piize] che si traduce come “nasoni” o “grandi nasi”…  😉

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di Giancarlo Toran

Ne approfitto per approfondire qualche concetto, e per riportare per intero il punto di vista di Francesco Antonio Marcelli (1686). Se qualcuno lo vorrà, riporterò per intero anche il parere di altri autori del passato.

Guardare negli occhi: è un argomento strettamente correlato al come guardare. L’occhio cattura lo sguardo, perché potrebbe essere quello del predatore. Cattura lo sguardo, e la nostra attenzione: perciò ritengo che fissare negli occhi l’avversario non sia la cosa migliore da farsi. Guardarlo senza fissare, invece, è altra cosa. Possiamo provare a guardare negli occhi qualcuno in questo modo, ma bisogna allenarsi un po’: per riuscirci, immaginate, guardandolo, di fissare un punto dietro di lui. Si trasmette all’altro una strana sensazione: come quando il pensiero dell’interlocutore divaga, e noi ci accorgiamo, pur incontrando il suo sguardo, sfuocato, che non è più presente. Si può utilizzare questa tecnica per l’ipnosi, o per sottrarci ad uno sguardo aggressivo, senza smettere di guardare l’interlocutore. Un effetto simile lo si ottiene guardando un punto in mezzo alle sopracciglia o, come le cinesi, la punta del naso.

Marcelli: “Capitolo IV. Dove si deve guardare quando si combatte.
Non è dubbio, che nel cimento si deve attentamente guardare ad ogni picciolissimo moto del suo avversario, e girar sempre l’occhio in quella parte, dove quello si move, per scoprire da quel movimento la di lui intenzione, e prendere partito per la propria. Però, la questione, che su questo punto si controverte da’ schermitori, e resta fin’adesso indecisa, si è, dove principalmente si debbia fissarsi lo sguardo, e quale ogetto dal giocatore deve primariamente essere veduto. Intorno al quale furono di differenti opinioni l’Autori, così Antichi, come Moderni: e l’uni, repugnando a gl’altri, discordemente ne giudicarono. Alcuni vogliono, che il combattente, deve tener fissa la mente, e l’occhio alla punta della spada nemica, e sequitivamente alla mano; fondandosi con la ragione, che ivi si deve attentamente guardare, di dove si aspetta il male, e perché questo dalla punta della spada si riceve; perciò in quella si deve fissamente guardare. E tra sequaci di questa opinione è Francesco Alfieri nella prima parte Cap.7. del medesimo titolo. Altri insegnano, che l’ogetto più principale dell’occhio, mentre si combatte, deve essere la mano della spada: come dice Gio: dell’Agocchie lib. primo fol.24. Tenendo sempre gl’occhi fissi alla mano nemica, più che al resto.
L’una, e l’altra opinione, come sia d’Uomini virtuosi, e di gran nome, è lodevole:parlando però con ogni libertà, non posso giudicarle imperfette. Et in quanto alla prima, stimo impossibile, che ella possa verificarsi ne gl’assalti della spada bianca; mentre che l’esperienza giornalmente c’insegna il contrario con le smarre nell’Accademie, dove giocandosi da scherzo, si combatte con alcune spade, su la punta delle quali sta attaccato un grosso bottone di cuoio, e pure non se ne vedono le stoccate, né se ne parano i colpi. Or come potrà vedersi la punta della spada, che al paragone di quella è quasi invisibile, e per la picciolezza dell’ogetto, non può l’occhio attentamente fissarvi lo sguardo? Adunque, se non si può vedere il camino della punta delle smarre, cosa tanto grande, e visibile, né meno potrà vedersi la punta d’una spada; e perciò non si deve ad essa fissare la veduta.
La seconda opinione di Gio: dell’Agocchie, né meno, al parer mio, si deve commendare; poiché la mano del nemico mai sta ferma, ma sempre in moti; perché, quando fa finta, quando cerca di scommovere, o disordinare, quando si move a fare l’accenti di spada, e or’in una maniera, or’in un’altra, quasi di continuo di move: e sarebbe facil cosa, che l’occhio confuso sa quei moti così spessi, credesse volentieri con l’arme, e facesse Tempo al predetto di poterlo offendere.
Il più lodevole partito adunque per il combattente, circa questo particolare sia, il guardare attentamente nella parte più principale dell’Uomo, quale è la faccia, si stenda unitamente co’l guardo dalle punte della spalla in su. Il che può esser fatto senza contraddizione alcuna, per la poca grandezza dell’ogetto e per la breve distanza delle parti, le quali in un tempo possono essere distintamente vedute; mentre che l’occhio, per la molteplicità de’ raggi visibili, in un tempo vede più ogetti, i quali vengono compresi nell’angolo della veduta.
Si deve guardare in faccia, e ne gl’occhi; perché questi avendo corrispondenza con l’interno, sono spie del cuore; e’l guardo è foriere dell’affetti dell’animo. In oculis animus abitare (disse Plin:l.II.C.13) Nella faccia si ravvisa la natura del nemico, lì si conosce, se egli sia furioso, se sia flemmatico, se è colerico, o timido. Da gl’occhi si scorge facilmente la volontà, e da essi viene palesata l’intenzione dell’avversario; poiché ogni volta, che vorrà offendere, e tirare il colpo, l’occhio è quello, che fa la strada al braccio, e primo si guarda il punto, dove si ha sa portare la mano, e poi si tira.
Si deve stendere co’l guardo dalle punte della spalla in su, perché (come dice il sopracitato Alfieri) si deve guardare in quella parte, di dove s’aspetta il male. Ma questo danno che a noi ci viene dal nemico, benché si riceva dalla Spada, con tutto ciò ella è portata a ferire, né può caminar da se sola, se non è guidata dal braccio; e dovendo questo muoversi per andare avanti, il luogo di dove principia il movimento è la punta della spalla nella giuntura maggiore del braccio; e perciò io insegnai, che qui si dovea mirare dal combattente. Posciache per vedere il moto, si deve sempre osservare il principio di esso, e non il fine, acciò possa trovarsi a tempo nel difendersi da’ colpi del suo avversario. Perloche conchiudo, e con ragione, che non altrimente alla punta della spada, o alla mano del nemico si deve guardare, come insegnano molti; ma sempre ne gl’occhi, e nella faccia, trascorrendo co’l guardo dalla punta delle spalle in su. E questa, come opinione più sicura, la stimo più probabile.”

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di enricodiciolo
Pur accettando le spiegazioni che sono dimostrazione di un attento studio antropologico di un popolo diverso dal nostro, non posso condividere l’utilizzo pedagogico della esercitazione tecnica (Lezione per gli antichi) senza maschera.
Due appunti: 1) riguarda lavorare senza maschera:Lavorare senza maschera è una modalità che oltre a far rischiare inutilmente la vita a M° e Allievo non è educativa. La tecnica schermistica non può trovare applicazione per la distanza che mi immagino superiore di molto a quella realistica. I colpi sono portati senza la necessaria naturalezza.
2) guardando negli occhi l’avversario non si può formare la motricità specifica e quella speciale in quanto si va a perdere la funzione sensopercettiva della visione periferica (essenziale nella scherma). Guardare l’avversario negli occhi è limitativo, vorrei che gli avversari dei miei allievi mentre tirano li guardassero soltanto nei loro occhi!
Lezione senza maschera bocciata a priori.
Senza maschera si possono fare alcuni movimenti, ma tirare le botte no davvero.
Enrico

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di schermaboh
Vorrei segnalare a chi fosse interessato, in generale, al tema dell’attenzione visiva e delle abilità visive nella scherma, una ricerca – tra le tante interessantissime – all’interno del programma del Congresso di Barcellona.
Il dott. Antonio Fiore ha gentilmente messo a disposizione gli abstracts:
a pagina 126 c’è la relazione intitolata

” Gli effetti dell’ addestramento delle abilità visive sulle prestazioni di sciabolatori d’elite”

Probabilmente il Maestro Toran ne avrà già preso visione: il tema non è precisamente quello proposto in questo articolo, ma è comunque correlato.

Non mi azzardo a riportare una mia personale traduzione, perché sono tutt’altro che esperta in anglistica… anche il titolo l’ho un po’ “tirato a indovinare”…
Però mi sembra che gli argomenti riguardino la coordinazione visiva generale e oculo-manuale; accomodazione, convergenza e divergenza; i movimenti oculari, la visione centrale e periferica.

Si è trattato di uno studio in cui si è proposto un training di incremento di abilità visiva della durata di otto settimane a un gruppo di schermitori che poi sono stati confrontati con un gruppo di controllo: sono stati notati gli effetti delle abilità acquisite e il relativo incremento e l’effetto di questo nuovo orientamento della visione.

(Gman… se ti va, vienimi in aiuto, ma non mangiarmi viva se ho scritto assurdità…)

 

Re: Dove guardare? Come guardare?
di sabrina
Ho letto con attenzione l’articolo. Non sono in grado di rispondere con precisione scientifica perchè le mie conoscenze in questo senso sono limitate. Tuttavia, la lettura di questo articolo mi ha fatto venire in mente un’esperienza vissuta tempo fa, quando ancora ero atleta, nella sala di scherma del Maestro Brocini, dove mi aveva portato il mio Maestro Giorgio Diddi. Il Maestro Brocini mi diede in quell’occasione lezione di spada e mi fece tenere per tutto il tempo gli occhi chiusi. Lì per lì pensavo che fosse un po’ matto… ma quando riaprii gli occhi e andai a tirare mi resi conto di riuscire a vedere molte più cose di quante ne vedessi prima. Ancora oggi, di tanto in tanto, uso questa tecnica dando lezione. Ogni tanto chiudo gli occhi e mi concentro sugli altri sensi: il tatto, in particolare, ma anche l’udito. Sento come l’allievo prende il ferro, porta la stoccata, come la punta si schiaccia sul piastrone ecc… Mi aiuta a capire e spiegare meglio in che cosa possa essere migliorata un’azione.